lunedì 31 ottobre 2011

COMUNE ROMA: STADERINI E SAPIENZA(RADICALI) INCONTRANO IL CAPO GABINETTO DEL SINDACO DI ROMA SU ILLEGALITA' DEL CONSIGLIO COMUNALE

Roma, 14 novembre 2008 – Dopo mesi di assoluto silenzio da parte del governo della Capitale, alle ore 16 una delegazione del coordinamento “Legalità e Partecipazione”, che unisce i Radicali e tutti i comitati promotori delle 9 delibere popolari presentate a Roma nelle passate legislature (espressione della volontà di più di 90 mila cittadini romani), è stata ricevuta dal Capo Gabinetto Fabrizio Giulimondi. La delegazione guidata da Mario Staderini della direzione nazionale di Radicali italiani e da Simone Sapienza del Comitato Nazionale di Radicali italiani, ha esposto le richiese che da mesi il coordinamento propone per l'immediato rientro nella legalità del consiglio comunale sul tema delle delibere popolari depositate e mai discusse, in violazione di quanto previsto dallo Statuto del Consiglio e il Regolamento sulla partecipazione.

Lo scorso 4 ottobre il Sindaco Alemanno aveva ribadito la sua volontà di porre fine a questa situazione di illegalità, dichiarando di non voler dimenticare l'esperienza della destra romana all'opposizione. Il coordinamento ora aspetta un tempestivo intervento sui lavori della riunione dei capigruppo, sull’impegno del Presidente Pomarici per la calendarizzazione delle delibere popolari.

Le richieste in sintesi:

1) Immediata calendarizzazione di tutte le Delibere di Iniziativa Popolare presentate nel corso delle precedenti due consiliature e ancora giacenti, secondo quanto disposto dagli articoli 2, 3 e 4 del Regolamento per gli Istituti di Partecipazione e di Iniziativa Popolare (deliberazione del Consiglio comunale n. 101 del 14 giugno 1994).

Nella fattispecie chiediamo al Sindaco di invitare i capigruppo e il presidente del consiglio comunale, ad accogliere la richiesta di porre urgentemente fine ad anni di illegalità, fissando assieme al presiedente del consiglio comunale Pomarici tempi certi di discussione in commissione e di messa all'ordine del giorno. I tempi siano indicati con una lettera ai comitati promotori delle delibere, ai quali nella maggior parte dei casi non è mai venuta neppure una comunicazione nonostante l'impegno promosso dal Comune attraverso il suo Statuto e il coinvolgimento di oltre 90 mila romani.

2) Immediata attuazione della Delibera di Iniziativa Popolare approvata dal Consiglio Comunale in data 6 febbraio 2006, per la progettazione partecipata di un nuovo sistema sostenibile di mobilità pubblica e privata per la periferia est di Roma (da Saxa Rubra alla Laurentina), incentrato sull'utilizzo del tram o di un mezzo a trazione elettrica ed ecologica equivalente.

3) Adeguata pubblicizzazione delle Delibere di Iniziativa Popolare e di tutti gli altri istituti di partecipazione previsti dallo Statuto del Comune di Roma e dal Regolamento per gli Istituti di Partecipazione e di Iniziativa Popolare, attraverso la predisposizione di uno spazio all'interno del sito del Comune di Roma interamente dedicato alla democrazia diretta.

4) Il Coordinamento Legalità e Partecipazione chiede altresì che siano rese disponibili e di facile

accesso al pubblico tutte le Relazioni del Sindaco sul rendimento degli istituti di partecipazione pubblicate dal 1995 ad oggi, nonché l'elenco delle sale disponibili nel territorio comunale, comprensivo della tabella relativa agli indennizzi da corrispondere per la fruizione dei servizi tecnici, come previsto, rispettivamente, dagli articoli 19 e 14 del Regolamento per gli Istituti di Partecipazione e di Iniziativa Popolare (deliberazione del Consiglio comunale n. 101 del 14 giugno 1994).

Nonostante gli sforzi di ricerca e le numerose richieste inoltrate a vari uffici comunali (UrpMunicipali, Albo Pretorio, Urp e Segreteria del Difensore Civico), infatti, è stato fin qui impossibile prendere visione della suddetta documentazione, in palese violazione di quanto disposto dalla normativa, secondo la quale l'elenco delle relazione e delle sale “deve essere trasmesso a tutte le sezioni dell’Ufficio per l’informazione dei cittadini”.

domenica 30 ottobre 2011

Verso una nuova forma di federalismo: le Direzioni Generali Regionali e Interregionali della Amministrazione giudiziaria

L’art. 2, comma 12, legge 25 luglio 2005, n. 150 («Delega al
Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario di cui al R.D. 30
gennaio 1941, n. 12, per il decentramento del Ministero della
Giustizia, per la modifica della disciplina concernente il Consiglio di
Presidenza della Corte dei Conti e il Consiglio di Presidenza della
Giustizia amministrativa, nonché per l’emanazione di un testo
unico») (pubblicato in «Mondo G.» n. 38/2005, a pag. 407 e segg. -
n.d.r.) prevede l’emanazione di uno o più decreti legislativi per il
decentramento su base regionale del Ministero della Giustizia per il
tramite, come indicato dalla lettera a), dell’istituzione di Direzioni
Generali Regionali o Interregionali.
Il decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240 («Individuazione delle
competenze dei magistrati capi e dei dirigenti amministrativi degli
uffici giudiziari nonché decentramento su base regionale di talune
competenze del Ministero della Giustizia, a norma degli articoli 1,
comma 1, lettera a), e 2, comma 1, lettere s) e t) e 12, della legge 25
luglio 2005, n. 150») (pubblicato in «Mondo G.» n. 39/2006, a pagg.
426 e 427 - n.d.r.) ha attuato tale delega: il Capo II (artt. 6-10) prevede
la istituzione di dette Direzioni Generali.
Invero, originariamente i decreti legislativi dovevano essere due:
uno per la disciplina dell’annoso problema della c.d. doppia
dirigenza; l’altro per provvedere al decentramento dell’Amministrazione
giudiziaria.
Il Governo ha optato per un unico provvedimento normativo che
potesse assemblare la disciplina delle due materie: il Capo I (artt. 1-5)
interviene sulle competenze dei dirigenti amministrativi degli uffici
giudiziari, rafforzandone ruolo e poteri, coordinandoli con quelli del
magistrato «capo». L’art. 5, altresì, prevede l’istituzione (disposizione
che probabilmente rimarrà inattuata) di Direttori tecnici (c.d. court
manager), da individuare fra la dirigenza amministrativa, aventi il
compito di organizzare a livello tecnico e di gestire i servizi non
aventi carattere giurisdizionale presso le Corti di Appello di Roma,
Milano, Napoli e Palermo.
È di palmare evidenza la confusione di ruoli fra la figura dei
Direttori tecnici (di natura a dire il vero un po’ ectoplasmatica), i
preesistenti dirigenti di Corte di Appello e le Direzioni Generali
Regionali e Interregionali.
Il Capo II, come già detto, ha dato vita, a far data dallo scorso 27
ottobre in virtù dell’art. 13, comma 1 («a far data dal novantesimo
giorno successivo a quello della pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale» - 29 luglio 2006) alle Direzioni Generali Regionali e Interregionali
(Abruzzo e Molise, Marche e Umbria, Calabria e Basilicata,
Piemonte e Valle d’Aosta).
La nascita di tali strutture dal 27 ottobre 2006 non è in nulla
inficiata dalle previsioni di cui agli articoli 6, comma 2, e 7, comma 4.
La prima disposizione configura un regolamento «facoltativo»: il
Legislatore conferisce al Governo la facoltà, qualora lo ritenga
opportuno per assicurare economicità di gestione e più elevati livelli
di efficienza del servizio, di adottare regolamenti che possano
«creare» nuove Direzioni Generali decentrate, ovvero modificare o
sopprimere quelle già esistenti e istituite con il D.Lgs. 240/2006 o,
infine, modificare le loro sedi.
È uno strumento che il Governo si riserva di utilizzare per intervenire
in un secondo momento qualora ravvisi la necessità di cambiare
in melius le geografia giudiziaria delle Direzioni Generali Regionali
ed Interregionali: a riprova di ciò il Legislatore non ha indicato alcun
termine, né perentorio né ordinatorio, entro il quale provvedere in via
normativa secondaria.
Il secondo articolo prevede un regolamento «obbligatorio», per il
quale è fissato un termine ordinatorio di 180 giorni dall’acquisto di
efficacia del decreto legislativo, necessario per ritagliare, delineare e
configurare al meglio le aree funzionali proprie di queste ultime e
tracciare i rapporti fra esse e l’Amministrazione centrale (Dipartimenti
e Direzioni Generali).
Entrambi non hanno condizionato affatto l’entrata in vigore del
decreto lo scorso 27 ottobre.
Federalismo e deconcentrazione
Le Direzioni Regionali in parola realizzano senza dubbio un interessante
esperimento di una sorta di federalismo interno ad una
Amministrazione centrale dello Stato come il Ministero della
Giustizia. In realtà sotto un aspetto squisitamente tecnico l’espressione
«federalismo» non è idonea ad illustrare adeguatamente il
fenomeno delle neo istituite Direzioni Generali periferiche.
Con «federalismo» si suole significare il trasferimento della titolarità
delle competenze statali — e non, quindi, una mera delegazione
di esse — alle Regioni, trasferimento che si è via via implementato
dai primi anni ’70 ad oggi. Il federalismo, pertanto, attiene a due
realtà ordinamentali territoriali ben determinate: lo Stato e le Regioni
(1).
È sicuramente più corretto adoperare l’espressione «deconcentrazione
», introdotta da autorevole Dottrina (2) nel panorama terminologico
amministrativistico-costituzionale.
La deconcentrazione è una formula organizzatoria che si esplica
attraverso un sistema misto di accentramento - decentramento: da un
lato l’organizzazione statale centrale rimane fortemente strutturata in
alcuni settori, mantenendo rapporti organici con la periferia (nel
tema trattato: Ministero della Giustizia - Uffici giudiziari nelle loro
variegate articolazioni); dall’altro lato sussiste una organizzazione
fondata su enti a base territoriale dotati di una «robusta» autonomia,
in buona parte svincolati dal «centro» (neo istituite Direzioni
Generali Regionali ed Interregionali). In sostanza, ad una struttura
gerarchica centrale, con propri rapporti fortemente gerarchizzati con
le strutture giudiziarie periferiche, si aggiunge una organizzazione di
Uffici locali «territoriali» (le Direzioni Generali in parola), autonomi
a livello gestionale, organizzativo, contabile e decisionale.
V’è una inevitabile interconnessione e interferenza fra i due
sistemi, ossia fra l’Amministrazione giudiziaria centrale e le Direzioni
Regionali, fra queste e gli uffici giudiziari e fra le stesse Direzioni

decentrate.
Preferiamo continuare ad adoperare la parola federalismo, una
volta precisato il significato ad essa sotteso, per marcare bene le peculiarità
di non poco momento introdotte dal decreto legislativo
240/2006 e le innovazioni apportate al tessuto connettivo dell’ordinamento
del Ministero della Giustizia e, di conseguenza, dello Stato.
Poteri e competenze
Partiamo dalla relazione allo schema del decreto legislativo in
parola, approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri il 18
novembre 2005 e, in via definitiva, lo scorso 14 luglio: «l’articolo 6…
prevede l’istituzione dei nuovi organi periferici del Ministero…
chiamati ad esercitare localmente le attribuzioni trasferite dall’Amministrazione
centrale». Altresì la relazione all’articolo 7 adopera
l’espressione devoluzione di grandi aree funzionali alle Direzioni
Generali Regionali e Interregionali.
Trasferimento, dunque, e devoluzione: ma di cosa? Art. 7, comma
1: personale e sua formazione; sistemi informativi automatizzati;
risorse materiali, beni e servizi; statistiche.
Quattro macro aree che risultano essere trasversali a tre dei quattro
Dipartimenti che compongono l’intelaiatura del Ministero della
Giustizia: in via preponderante le funzioni trasferite interessano il
Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria, del Personale e dei
Servizi (tutte e quattro le grandi aree funzionali di cui all’art. 7,
comma 1, lettere a), b), c), d)). Ma, seppur in misura minore, le competenze
riguardano anche il Dipartimento per gli Affari di Giustizia
(funzioni relative al servizio dei casellari giudiziali locali ex art. 7,
comma 2) e il Dipartimento della Giustizia Minorile (personale, informatica,
risorse materiali, beni, servizi e statistiche relativamente a
tale ambito).
Sono aree funzionali d’importanza strategica che, anche in termini
quantitativi e non solo qualitativi, rappresentano la più gran parte del
campo d’azione dell’Amministrazione giudiziaria, il cuore del sistema
giudiziario.
In primo luogo si può pacificamente affermare che i Direttori
Generali Regionali e Interregionali intervengono, decidono, gestiscono
e incidono su settori che rappresentano presumibilmente la più
gran parte delle attività istituzionalmente svolte dal Ministero della
Giustizia. A supporto di ciò basta verificare che tali Direttori esercitano
i compiti di quattro Direzioni Generali centrali: Direzione
Generale dei beni e servizi, delle statistiche, della informatica giudiziaria
e del personale.
Le quattro aree funzionali interessano tre Dipartimenti su quattro:
quello dell’Organizzazione giudiziaria, del Personale e dei Servizi,
quello Minorile e quello degli Affari di Giustizia, rimanendo fuori il
Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria. Non solo. Le
funzioni svolte da detti Direttori hanno una particolarità: sostituiscono
totalmente, in tre casi su quattro, quelle svolte dalle Direzioni
Centrali. Tranne ipotesi residuali, le Direzioni Regionali esercitano i
propri compiti in luogo delle Direzioni Generali centrali delle statistiche,
dei beni e dei servizi e, inoltre, dei sistemi informativi automatizzati.
Per quanto attiene al personale viene sensibilmente ridimensionato
l’ambito di azione della Direzione generale del personale e della formazione,
alla quale rimangono — e non poteva essere altrimenti — i
compiti che oltrepassano i confini regionali e che solo Roma può
gestire: la determinazione del contingente di personale amministrativo
da destinare alle singole Regioni, nel quadro delle dotazioni
organiche esistenti; i bandi di concorso da espletarsi a livello
nazionale; i provvedimenti di nomina e di prima assegnazione (salvo
per i concorsi regionali); il trasferimento del personale amministrativo
tra le diverse Regioni e i trasferimenti da e per altre Amministrazioni;
i passaggi di profili professionali, le risoluzioni del rapporto di
impiego e le riammissioni o ricostituzioni del rapporto di lavoro; i
provvedimenti in materia retributiva e pensionistica; i provvedimenti
disciplinari superiori al rimprovero verbale e alla censura (art. 7,
comma 3, lettere d), e), f), g), h), i), l)).
Nelle altre tre ipotesi (competenze proprie della Direzione Generale
dei beni e servizi, delle statistiche, dei sistemi informativi automatizzati)
ben può essere affermato che queste sono assorbite quasi completamente
dalle Direzioni Generali regionali e interregionali. In via
residuale la stessa disposizione, alle lettere a), b) e c), lascia alle
Direzioni Generali centrali (a ciò che ne rimarrà) i compiti di programmazione,
indirizzo, coordinamento e controllo degli uffici periferici;
il servizio del casellario giudiziale centrale; l’emanazione di
circolari generali e la risoluzione di quesiti in materia di servizi giudiziari.
Chi scrive ha adoperato l’espressione «ciò che ne rimane» in
relazione alle Direzioni Generali centrali, in ragione del fatto che,
come di qui a poco sarà argomentato, essendoci un vero e proprio
trasferimento di poteri, compiti e funzioni dalla Amministrazione
centrale alle Direzioni Regionali, v’è un consequenziale e inevitabile
svuotamento di poteri, compiti e funzioni di alcune Direzioni
Generali interessate (beni e servizi, sistemi informativi automatizzati
e statistiche) e un sensibile ridimensionamento di quella del
personale.
Un nucleo gestionale ovviamente rimane in capo alle Direzioni
Generali centrali in forza della necessità di garantire la unitarietà e la
omogeneità di azione amministrativa sull’intero ambito nazionale: la
Nazione è unica e indivisibile (art. 5 Cost.) e tale unicità e indivisibilità
è un baluardo per lo Stato da dover conservare in speciale modo
in un settore sensibile come quello della Giustizia.
Riorganizzazione della Amministrazione Giudiziaria
È opportuno — rectius necessario — intervenire sulla organizzazione
del Ministero della Giustizia, ridisegnando la struttura interna
costruita con il D.P.R. 6 marzo 2001, n. 55 (Regolamento di organizzazione
del Ministero della Giustizia), istituendo presso i Capi Dipartimento,
specialmente presso quello dell’Organizzazione giudiziaria,
del Personale e dei Servizi, un ufficio o più uffici che rendano
omogenei i compiti delle Direzioni Regionali sul territorio nazionale e

compiano un controllo ex post «centrale» dell’azione delle stesse, di
tal che vi sia uno stesso leit motif gestionale per tutte le Direzioni
Generali decentrate, una direttrice comune, un filo conduttore lungo
il quale esse si debbano muovere.
Una tale operazione è consentita dallo stesso decreto che all’art. 7,
comma 4, prevede l’adozione di un regolamento su proposta del
Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministro per le Riforme e
le Innovazioni nella Pubblica Amministrazione e con il Ministro
dell’Economia e delle Finanze, che revisioni l’organizzazione del
Ministero della Giustizia. In seno a detto provvedimento normativo si
potrebbero individuare quali Direzioni Generali centrali siano da ridimensionare
o addirittura sopprimere e quale sia il nucleo operativo
non trasferibile alle Direzioni decentrate, da conferire agli Uffici
centrali in ragione del valore centrale e nazionale di alcuni procedimenti
amministrativi.
In particolare modo, de iure condendo, presso questi eventuali uffici
dei Capi Dipartimento deve essere svolta attività di studio e ricerca in
materia di organizzazione e di innovazione, fornita consulenza alle
Direzioni Regionali e realizzata opera di programmazione, indirizzo e
coordinamento nelle materie di spettanza delle Direzioni Generali,
proprio per formare una linea unitaria e omogenea sull’intero territorio
nazionale, anche emanando circolari e dando soluzione ai quesiti.
Anche il «nucleo essenziale-nazionale» delle attività delle Direzioni
Regionali deve rimanere in capo ai Capi Dipartimento.
In particolare modo per quanto attiene al Dipartimento della Organizzazione
giudiziaria, del Personale e dei Servizi, alla Giustizia
Minorile e agli Affari di Giustizia, è mantenuta, ognuna per la propria
competenza:
- La programmazione, il coordinamento e l’organizzazione per conferenze
ed incontri di studio a carattere statistico; i rapporti con il sito
www.giustizia.it; l’analisi ed elaborazione dei dati statistici a livello
nazionale; la progettazione di nuove rilevazioni statistiche di interesse
nazionale; i rapporti e l’attuazione del protocollo di intesa con
l’ISTAT; i rapporti con il sistema statistico nazionale (S.I.S.T.A.N.); il
piano statistico nazionale; le competenze ai sensi del decreto legislativo
6 settembre 1989, n. 322; i rapporti con gli organismi e le istituzioni
centrali in materia di acquisizione informatizzata e telematica dei
dati statistici; i rapporti con la Commissione criminalità costituita
presso l’ISTAT.
- Le procedure contrattuali relative alla fornitura di beni, servizi e
attrezzature per gli uffici delle Amministrazioni centrali (Ministero;
Corte di Cassazione; Procura Generale presso la Corte di Cassazione;
Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche; Procura Nazionale
Antimafia); l’analisi comparativa dei costi relativi alle diverse tipologie
di beni: la costituzione di un osservatorio dei prezzi; le attività
connesse con il controllo gestionale dipartimentale; l’espletamento dei
compiti e delle funzioni di cui al Decreto del Presidente della Repubblica
30 novembre 1979, n. 718; la gestione delle risorse materiali, dei
beni e dei servizi dell’Amministrazione centrale; la nomina della Commissione
di manutenzione del Palazzo di Giustizia di Roma.
- La programmazione, progettazione, sviluppo e gestione dei
sistemi informativi di rilevanza nazionale ed europea.
- L’interconnessione con i sistemi informativi automatizzati delle
altre Amministrazioni.
- Le relazioni con l’ufficio stampa e gli uffici relazioni con il
pubblico.
- La gestione delle banche dati.
- L’interazione con l’Autorità per l’Informatica nella Pubblica
Amministrazione.
- L’interazione con la Corte dei Conti per quanto riguarda il
controllo preventivo e successivo della spesa informatica, ai sensi
dell’art. 14 D.Lgs. 12 febbraio 1993, n. 39.
- Le forniture di beni e servizi informatici a livello nazionale.
- Il piano di formazione informatica di cui al D.P.R. 28 ottobre
1994, n. 748.
Natura delle Direzioni Generali Regionali e Interregionali
La creazione delle Direzioni Generali decentrate non è operazione
di poco momento sotto il profilo ordinamentale ed organizzatorio.
Probabilmente con le Direzioni Generali Regionali e Interregionali si
determina una sorta di primo caso di federalismo interno ad una
Amministrazione centrale dello Stato, un vero e proprio caso di devoluzione
effettiva di poteri, di funzioni e, soprattutto, di competenze
dallo Stato a strutture locali le quali, pur conservando legami funzionali
con il «centro» e pur essendo incardinate nella compagine amministrativa
del Ministero, sono responsabili esclusive delle materie loro
conferite, senza rapporto di soggezione gerarchica nei confronti degli
organi centrali, ai quali spettano solamente compiti di coordinamento
e direzione.
A tale riguardo è sufficiente citare gli articoli 8, comma 4, e 10,
comma 1.
Il primo recita nel seguente modo: «Il Direttore Generale presenta
annualmente ai Capi dei Dipartimenti… una relazione riguardante,
per la circoscrizione di competenza:
a) lo stato dei servizi;
b) le risorse materiali;
c) l’informatizzazione;
d) il personale e la formazione;
e) i risultati conseguiti anche sotto il profilo economico-finanziario
in rapporto all’anno precedente;
f) il programma delle attività e degli obiettivi per l’anno successivo
comprendente la proiezione delle esigenze riferite alle risorse
umane, materiali e finanziarie».
Il successivo prevede: «Alla allocazione delle risorse umane,
materiali ed economico-finanziarie destinate alle Direzioni Generali
Regionali ed Interregionali provvedono, per quanto di rispettiva competenza,
il Capo del Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria, del
Personale e dei Servizi, il Capo del Dipartimento per la Giustizia
Minorile ed il Capo del Dipartimento per gli Affari di Giustizia… ».
La nuova realtà nata con tali strutture si discosta con evidenza
dalla «tradizione» dello Stato, che localizza in periferia una serie di
poteri, mantenendone però saldamente in mano il controllo e, quindi,
la possibilità di avocarli a sé, continuando ad esercitare la supremazia
gerarchica nei confronti della «periferia». Le Direzioni Generali
Regionali e Interregionali nell’ambito della Amministrazione giudiziaria
sono altra cosa e la loro natura è diversa.
Facciamo un passo indietro e prendiamo in mano la Carta Costituzionale.
L’art. 5 dichiara che la Repubblica «attua nei servizi che dipendono
dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo».
Questo precetto aveva avuto fino al 1972 una realizzazione estremamente
limitata, non essendo l’organizzazione amministrativa dello
Stato riuscita a discostarsi dal suo tradizionale carattere accentrato,
consolidatosi al tempo della dominazione napoleonica. Solo col trasferimento
alle Regioni delle attribuzioni amministrative previste
dalla vecchia versione degli artt. 117 e 119 della Costituzione si è
determinato un vero e proprio decentramento di molte attribuzioni
statali.
Così è stato fatto un primo passo verso il decentramento «reale» di
poteri, funzioni e compiti dello Stato, che per lungo tempo ha
preferito porre in essere un decentramento organico delle proprie
funzioni, mantenendo saldamente in mano le sue competenze.
All’interno di questa concezione «tenue» del decentramento gli organi
locali dello Stato (ad es. i Prefetti (3), i Provveditorati agli Studi, le
Sovrintendenze per i Beni Culturali, le Direzioni Provinciali del
Lavoro, le Direzioni Regionali delle Entrate, i Provveditorati
Regionali della Amministrazione Penitenziaria, di cui più innanzi si
tratterà) sono uniti a quelli centrali da una relazione che li pone,
rispetto a questi, in posizione di subordinazione gerarchica, consentendo
agli Uffici centrali non soltanto la possibilità di dare loro orientamenti,
impulsi e direttive (cosa che avviene anche nel caso di vero
decentramento, in forza del quale il soggetto assegnatario ha una
marcata autonomia decisionale), ma anche di impartire ordini e
avocare a sé le funzioni originariamente delegate.
Nei Paesi dell’Occidente europeo alcuni ordinamenti ad amministrazione
accentrata hanno organizzato i propri uffici statali periferici
secondo il sistema prefettizio, proprio della tradizione francese,
basato sul principio di subordinazione di tutti gli organi periferici
delle differenti Amministrazioni dello Stato al Prefetto: collocato in
posizione di preminenza, questo è dotato di poteri di direzione ed è
responsabile dei singoli settori dell’Amministrazione periferica.
Il nostro ordinamento, invece, ha fatto proprio il sistema per il
quale le funzioni esercitabili localmente sono attribuite a distinti
organi periferici, dipendenti direttamente dalle Amministrazioni
centrali preposte al rispettivo settore (nella persona, presumibilmente,
dei Direttori Generali).
Oltre il decentramento organico l’ordinamento, specie negli ultimi
anni, ha conosciuto il decentramento istituzionale, grazie al quale si
assiste ad una vera e propria assegnazione di poteri, competenze e
funzioni dello Stato ad altri enti pubblici territoriali (Regioni,
Province, Comuni et alia) che ad esso si sono affiancati nella gestione
della res publica.
La produzione normativa sta procedendo celermente verso un
federalismo amministrativo e, pertanto, alla formazione di robusti
spazi di autonomia decisoria, gestionale e contabile di alcuni enti,
riducendo sensibilmente i legami gerarchici di questi con il «centro».
Di trasferimento di competenze, come prima accennato, si inizia a
parlare con la delega conferita al Governo per il tramite dell’art. 17 L.
16 maggio 1970, n. 281, la cui attuazione ha portato all’approvazione
dei D.P.R. 14-15 gennaio 1972, nn. 1-11, da cui si comincia a intravedere
la rottura del rapporto gerarchico con lo Stato centrale. In un
secondo momento, con ancora più determinazione e incisività, a
seguito della legge delega 22 luglio 1975, n. 382, i D.P.R. 24 luglio
1977, nn. 616, 617 e 618 hanno consentito il trasferimento di materie
statuali per blocchi omogenei alle Regioni a statuto ordinario.
Queste normative hanno ben chiarito la differenza che v’è fra il
«trasferimento» — pieno — di competenze dallo Stato alle Regioni e
la «delega» di funzioni, che consente il mantenimento alle Amministrazioni
centrali della piena titolarità delle competenze.
Procedendo lungo il percorso federalista, incontriamo la legge
sull’ordinamento delle autonomie locali 8 giugno 1990, n. 142,
arriviamo poi all’importante decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112
(Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle
Regioni ed agli enti locali, in attuazione del Capo I della legge 15
marzo 1997, n. 59 (4)), per passare attraverso il Testo Unico delle
leggi sull’ordinamento degli enti locali (D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267)
e, infine, giungere alla riforma del Titolo V della Costituzione ad
opera della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
L’interprete, tenendo in considerazione le regole della tecnica legislativa,
conclude agevolmente che lo Stato, nella veste della Amministrazione
giudiziaria centrale, ha trasferito a queste nuove realtà ordinamentali
— le Direzioni Generali Regionali e Interregionali —
poteri, compiti e funzioni in materie sino al 27 ottobre 2006 rientranti
intieramente nella sfera gestionale delle Direzioni Generali dei Beni
e Servizi, delle Statistiche e dell’Informatica e, in parte, della
Direzione Generale del Personale e della Formazione.
Tali poteri, compiti e funzioni sono in capo ai Direttori Regionali,
responsabili nella propria circoscrizione territoriale delle materie loro
conferite (beni e servizi, informatica, personale e statistiche), non
subordinati gerarchicamente ai Capi Dipartimento interessati dal
decentramento, i quali, ognuno nel proprio ambito, hanno solo un
ruolo di indirizzo volto ad uniformare le strategie operative delle
Direzioni Regionali sul territorio nazionale e ad allocare le risorse
umane, materiali ed economico-finanziarie in base alle dimensioni
del territorio, al numero e al «peso» degli uffici giudiziari e alla
relazione annuale loro presentata dai Direttori Generali decentrati ex
art. 8, comma 4.
Le espressioni tecnico-legislative usate dal Legislatore nella
relazione e nel testo del decreto confortano tale tesi.
Come già riportato precedentemente, la relazione allo schema,
nella parte di commento agli artt. 6 e 7, utilizza le espressioni: «attribuzioni
trasferite dall’Amministrazione centrale» e «devoluzione».
«Trasferimento» è l’espressione adoperata da tutte le normative
sino ad ora citate per rappresentare la traditio di competenze da un
soggetto istituzionale ad un altro. Il destinatario ne diventa completamente
titolare e responsabile, non potendo il primo incidere in alcun
modo sulle attività gestionali che saranno esercitate dal secondo, né
tanto meno avocarne poteri e funzioni.
La «devoluzione» è termine più recente e di sapore «politico», di
significato pari all’espressione «trasferimento».
L’art. 6, comma 1, qualifica le Direzioni in argomento come
«organi periferici del Ministero».
Le Direzioni Generali decentrate indicate come organi periferici
del Ministero e non di specifici Dipartimenti — come di qui a poco
vedremo essere per i Provveditorati Regionali, qualificati organi
decentrati del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria —
sono strutture a base territoriale, incardinate in seno alla Amministrazione
della Giustizia, ma — questa è la peculiarità e l’autentico
ius novum — realtà ordinamentali con piena autonomia decisoria
nelle materie loro conferite, rispettose delle linee guida fornite dallo
Stato centrale, id est dal Ministero della Giustizia.
Tali Direzioni Regionali, pertanto, rappresentano un’ipotesi di
federalismo interno ad una Amministrazione Centrale dello Stato, ad
un Ministero: strutture locali territoriali su base regionale, appartenenti
all’Amministrazione giudiziaria, funzionalmente legate ad
alcuni Dipartimenti del Ministero della Giustizia, ma da essi indipendenti
per l’opera gestionale e di spesa nelle materie indicate dall’art. 7,
comma 1, lettere a), b), c), d).
In aggiunta, la dettagliata indicazione effettuata dall’art. 7, comma
3, delle materie rimanenti in capo alla Amministrazione centrale
esprime lo stesso percorso seguito dal Legislatore nel procedere alla
modifica dell’art. 117 della Costituzione (legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3): il comma secondo indica nominatim le materie di
legislazione esclusiva dello Stato. Parimenti, l’art. 18 del D.Lgs.
112/1998 indica specificamente i compiti amministrativi conservati
allo Stato, trasferendo i restanti alle Regioni.
Una simile formulazione legislativa in due sedes materiae così qualificate
— specie l’art. 117 della Costituzione —, traccianti un
percorso marcatamente federalista in campo legislativo e amministrativo,
induce a ritenere che il Governo, adoperando le stesse
cennate regulae iuris nel testo del decreto in esame, abbia avuto in
animo di provvedere ad un vero e proprio trasferimento di materie di
sapore federalista.
Altresì la stessa rubrica del Capo II del decreto («decentramento del
Ministero della Giustizia») rafforza ulteriormente l’interpretazione in
chiave federalista della istituzione delle Direzioni Generali Regionali e
Interregionali.
Inoltre, la possibilità fornita dall’art. 7, comma 4, di adottare un
regolamento che revisioni l’organizzazione del Ministero della
Giustizia, comporta la possibilità, oltre che di ridisegnare la geografia
giudiziaria della Amministrazione in parola, anche di ponderare
l’opportunità — come d’altronde si è dettagliatamente esposto in precedenza
— di riconsiderare i compiti delle Direzioni Generali centrali,
potendo meditare anche sulla loro abrogazione.
Tale possibilità non si è ventilata quando si sono create, ad
esempio, le istituzioni periferiche del Ministero dell’Economia e delle
Finanze (Direzioni Regionali delle Entrate), in quanto esse sono state
concepite all’interno del decentramento organico, ove le Direzioni
centrali delle Entrate mantengono saldamente il munus e l’imperium.
Il fatto stesso che Direzioni Generali centrali del Ministero della
Giustizia possano essere «dimesse» significa che le nuove Direzioni
Generali decentrate si surrogano in pieno (beni e servizi, statistiche,
informatica giudiziaria) oppure in parte (personale e formazione) ad
esse, alle loro competenze, ai loro compiti ed ai loro poteri, palesandosi
come i vertici della Amministrazione giudiziaria nelle proprie
circoscrizioni territoriali; esse Direzioni decentrate debbono
solamente adeguarsi alle direttive e alle guidelines dettate dai Capi
Dipartimento, nelle rispettive competenze, tenendo ben presente, a
mo’ di stella polare, l’unicità e indivisibilità della Repubblica.

Provveditorati Regionali del Dipartimento della
Amministrazione Penitenziaria




Il parametro di riferimento più vicino alle Direzioni di cui si tratta
all’interno della compagine giudiziaria sono i Provveditorati Regionali
della Amministrazione Penitenziaria.
Il Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria è l’unico
escluso dalla normativa in argomento.
Questo Dipartimento ha conosciuto, invece, il classico decentramento
organico con la istituzione dei cennati Provveditorati
Regionali. Essi sembrano le figure organizzatorie più vicine alle
Direzioni Regionali, ma, in realtà, sono molto distanti da queste per
tipologia delle fonti istitutive e natura delle strutture.
La fonte utilizzata per la istituzione dei Provveditorati Regionali
della Amministrazione Penitenziaria è il decreto ministeriale, segnatamente
del 22 gennaio 2002 (Individuazione e disciplina delle articolazioni
interne di livello dirigenziale nell’ambito degli uffici dirigenziali
generali istituiti presso il Dipartimento dell’Amministrazione
Penitenziaria con il D.P.R. 6 marzo 2001, n. 55, nonché presso i Provveditorati
Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria).
Questo provvedimento è stato adottato dal Ministero della
Giustizia in attuazione del regolamento di organizzazione del
Ministero della Giustizia 6 marzo 2001, n. 55.
Mentre quest’ultimo è un regolamento governativo adottato ai
sensi del combinato disposto dei commi 2 e 4 bis dell’art. 17 L. 23
agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento
della Presidenza del Consiglio dei Ministri), il decreto ministeriale
istitutivo dei Provveditorati Regionali ha natura non regolamentare,
in quanto approvato a mente dell’art. 17, comma 4 bis, lett. e), L.
400/1988, così come introdotto dall’art. 13, L. 15 marzo 1997, n. 59.
Il decreto ministeriale istitutivo dei Provveditorati, quindi, è
persino gerarchicamente inferiore al regolamento ministeriale, che è
considerato unanimemente dalla Dottrina fonte terziaria, in quanto
subordinata al regolamento governativo classificato come fonte
secondaria. A tale proposito il decreto ministeriale di natura non
regolamentare non può essere considerato una fonte normativa, in
quanto privo degli elementi propri della normazione (generalità e
astrattezza), ed in possesso di quelli peculiari del provvedimento
amministrativo (determinatezza e concretezza).
Il decreto legislativo che ha partorito le Direzioni Generali
Regionali e Interregionali, invece, è fonte primaria e, unitamente al
decreto legge, è per natura ed efficacia equiparato alla legge
ordinaria.
Già questo la dice lunga sulla stessa natura «autonoma» di queste
ultime. Ma a fortiori la stessa formulazione del dettato dell’art. 9,
comma 1, del decreto ministeriale in questione è ulteriormente chiarificatoria
della natura dei Provveditorati Regionali, definiti «organi
decentrati del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria», a
differenza dell’art. 6, comma 1, del D.Lgs. 240/2006, che qualifica le
Direzioni Generali Regionali e Interregionali «organi periferici di
livello dirigenziale generale del Ministero della Giustizia».
Il discrimen linguistico mostra una notevole diversità della natura
dei due enti: i Provveditorati sono organi che localizzano le funzioni
centrali, ossia sono specifici organi locali funzionalmente e gerarchicamente
legati al Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria
e, in particolar modo, alle Direzioni Generali romane a seconda del
settore interessato (personale, beni e servizi, etc.). Le Direzioni
Generali centrali continuano ad essere competenti nelle materie
delegate ai Provveditorati Regionali, mentre questi ultimi sono legittimati
ad esercitare in loco le funzioni ad esse materie correlate: le
Direzioni Generali centrali, pertanto, rimangono in vita, disciplinate
dallo stesso decreto ministeriale 22 gennaio 2002.
Le Direzioni Generali Regionali e Interregionali non sono articolazioni
interne di un singolo Dipartimento, bensì costituiscono organi
periferici del Ministero della Giustizia, cui sono trasferite le competenze
su materie finora appartenenti a Direzioni che, per effetto del regolamento
governativo previsto dall’art. 7, comma 4, potrebbero e
dovrebbero — almeno in parte — essere soppresse: il relativo
personale e i necessari supporti materiali potrebbero opportunamente
essere trasferiti in prevalenza alla Direzione Generale Regionale del
Lazio.
Il Ministero della Giustizia ha dato coraggiosamente vita al
primo caso di federalismo interno ad una Amministrazione
centrale dello Stato, attraverso un trasferimento di pieni poteri
su vaste e strategiche aree funzionali, qualitativamente e quantitativamente
importanti per l’opera della attività amministrativa
della Giustizia; ha operato un grande sforzo di avvicinamento
del servizio giudiziario al territorio e, quindi, agli uffici giudiziari
in esso ubicati, con un inevitabile e indubbio vantaggio per
i cittadini: essi, per fruire delle micro e delle macro attività, non
dovranno più rivolgersi a Roma ma direttamente agli uffici delle
Direzioni Generali decentrate: Roma avrà in mano, in parte qua,
le grandi strategie nazionali.
Fabrizio Giulimondi

Albo dei Benemeriti - Fondazione Cardinale Cusano - Onlus 23 LUGLIO 2008

Sua Eminenza Reverendissima
Il Signor Cardinale
Camillo Ruini
Presidente Comitato per il Progetto Culturale Cristianamente Ispirato
Conferenza episcopale italiana
Sua Eminenza Reverendissima
Il Signor Cardinale
Mauro Piacenza
Prefetto della Congregazione per il Clero

On. Prof. Rocco Buttiglione
Vice presidente della Camera dei Deputati
On. Sen. Benedetto Adragna
Questore del Senato della Repubblica
On. Prof.ssa Luisa Capitanio Santolini
Deputato al Parlamento Italiano
Dott. Giovanni Francesco Lo Turco
Presidente Emerito della Corte d’Appello di Roma
Sua Ecc.za Rev.ma Mons. Domenico Sorrentino, Arcivescovo
Vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino
Sua Ecc.za Rev.ma Mons. Vincenzo Paglia
Vescovo di Terni-Narni-Amelia
Arch. Ugo Soragni
Direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Friuli Venezia Giulia
Prof. Cav.Gr.Cr. Francesco Buranelli
Segretario della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e Ispettore della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra
On. Davide Bordoni
Assessore alle Attività produttive, al Lavoro e al Litorale al Comune di Roma
Prof. Aldo Milesi
Presidente del Premio Roma
Dott.ssa Paola Arduini
Ispettore della Banca d'Italia
Dott. Antonio Paolucci
Direttore dei Musei Vaticani
Dott. Fabrizio Giulimondi
Dirigente pubblico
Dott. Stefano Amore
Magistrato, Vice-Segretario Generale di Magistratura Indipendente
Prof. Massimo Buscema
Direttore dell'Istituto di ricerca SEMEION
Dott. Leonello Serva
Dirigente pubblico
Dott. Niccolò Eusepi
Presidente Assoconsumatori
Dott. Andrea Di Maso
Unione degli Industriali di Roma
Dott. Luciano Montemauri
Già Direttore UNISPED
Conti Lucio e Nelide Piccolomini
Dott. Fabio Brunelli
Senior Studio Di Tanno e Associati
Padre José Luis Méndes Dàvalos
Dott.ssa Augusta Busico
Consulente Dip.to per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri
Suor Maria Rosa Lo Proto, o.p.
Presidente Movimento di preghiera Figli Spirituali di Giovanni Paolo II
Dott. Luca Polidoro
Consulente finanziario
Avv. Giovanni Barone
Avvocato
M° Mario Padovan
Artista
Prof. Arch. Sandro Benedetti
Ordinario di Storia dell’Architettura presso l’Università degli Studi “La Sapienza”
M° Antonella Cappuccio
Accademico della Pontificia Accademia dei Virtuosi al Pantheon
Prof. Don Gianfranco Coffele
Ordinario di Teologia Fondamentale all’ UPS
Prof. Rodolfo Papa
Accademico della Pontificia Accademia dei Virtuosi al Pantheon
Prof. Tonino Cantelmi
Docente universitario
M° Elena Bracciolini
Artista
Prof. Marco Bussagli
Accademia di Belle Arti di Roma
M° Franca Sibilia
Artista
Dott. Luigi CozzolinoRicercatore universitario
M° Wladimir Khasiev
Artista
Dott. Emanuele Martinez
Istituto Centrale del Risorgimento
M° Piotr Merkurj
Artista
Prof. Luigi Ciotti
Dottore di Ricerca in Storia e Conservazione dell'Oggetto d'Arte e di Architettura.
M° Lina Passalacqua
Artista
Dott. Marco Di Battista
Musicologo
M° Igina Colabucci Balla
Artista
Dott.ssa Maria Antonietta Cavallo
Notaio
M°Antonia Di GiulioArtista Dott. Fabio Arduini
Dottore commercialista
M° Anna Galluppi
Artista
Dott. Massimiliano Napoletani
Dottore commercialista
M° Enrico Francia
Artista
M° Claudio Rosa
Artista
M° Roberto Campagna
Artista
Avv. Francesco Tallarico
Avvocato
Avv. Luigi Tallarico
Critico d’arte
Dott.ssa Maria Antonietta Orlandi
Biblioteca S. Scolastica
+ Dott. Gianni Franceschetti
Critico d’arte
Dott. Paolo Maria Petrucci
Assicuratore
Dott.ssa Stefania Severi
Storico dell’arte
Prof.ssa Pasqualina Russo
UNISPED
Dott. Claudio Crescentini
Storico dell’arte

+Dott. Luciano de Guttry
Dott. Andrea Romoli Barberini
Storico dell’arte
Prof. Ruggero Cametti
Dott.ssa Luciana de Vries Zanuccoli
Giornalista
Dott.ssa Angela Noya Villa
P.R.
Dott.ssa Flora Favilla
Giornalista
Dott. Pier Nicola Nobili
Stagista del Programma "Attualità della Chiesa di Roma" presso la Radio Vaticana
Dott. Anselmo Terminelli
Giornalista

+ Sig. Nicola Congestri
Dott.ssa Angela Ambrogetti
Giornalista

Situazione BASF

Carissimi Cittadini,

l’invio a luglio delle centinaia di mail con i comunicati stampa da parte di Tutti Voi, ha trovato l’interesse di molte testate giornalistiche sul web, ma la grande stampa ci ha ignorati. RaiTre ci ha dedicato circa un minuto e le promesse del giornalista di Italia Terranostra, Gianni Lannes, che nel 2009 aveva ricevuto, proprio dalla BASF, il premio come migliore giornalista ambientale, sono cadute nel nulla: ha perfino cancellato dal suo sito ogni riferimento all’inceneritore della Basf pubblicato nello scorso luglio. E pensare che ci aveva prospettato una sua protesta clamorosa con la rinuncia in pubblico al premio della Basf!

Inoltre, dopo la successiva ondata di mail con l’Oggetto: “Il Vostro intervento può salvare delle vite umane. Perché ci ignorate?” un giornalista di Repubblica aveva scritto: “E chi ve l'ha detto che vi ignoriamo? Invece ce ne stiamo occupando”. INVECE, non abbiamo più avuto notizie.

Per ciò che riguarda i controlli dell’Istituto Superiore di Sanità (I.S.S.) all’esterno dello stabilimento Basf sappiamo che l’I.S.S. ha già preparato un “Piano di Sorveglianza dedicato” ma attende il via da parte del Comune di Roma. Noi stiamo cercando spiegazioni presso il Comune di Roma da settembre, ma sappiamo solo che il Dr. Fabrizio Giulimondi del Gabinetto del Sindaco, che conosceva bene il problema BASF, è passato alla Regione trasferendo la competenza al Dr. Profeta. Siamo quindi punto e a capo. In questi giorni stiamo cercando di contattare il Direttore del V Dipartimento, Dr. Scozzafava, che ha seguito la vicenda, ma ancora non siamo riusciti a parlargli.

In merito all’evoluzione del nostro ricorso al Capo dello Stato contro l’Autorizzazione rilasciata alla Basf ed alla successiva richiesta del suo trasferimento al TAR del Lazio da parte del Presidente della Provincia, On. Zingaretti, Vi informiamo che non abbiamo avuto più notizie.

Per tenere desto il problema stiamo studiando nuove iniziative che vi comunicheremo nei prossimi giorni.

I COMITATI CITTADINI

Tematiche: Mass media, Adulto, Giovane, Cultura, Insegnante, Formazione, Scuola, Università

Sono passati 18 mesi dall'inaugurazione della Marconi, sono nate altre "open university", e qui, a Roma, sede dell'ateneo pioniere nella web formazione, c'è una tangibile soddisfazione. 2.475 iscritti nell'anno 2004-2005, e i primi laureati, grazie a crediti formativi guadagnati in precedenza e altrove. Ma qual è l'identikit dello studente di un'università on-line? "Sono persone che lavorano, o che hanno difficoltà logistiche. Penso a persone che vivono in centri lontani dalle grandi università" spiega il rettore Alessandra Briganti. "Da un nostro studio emerge che l'età media è di 35 anni, con picchi, però, anche nelle fasce più giovani e, dall'altro lato, qualche interessante caso di studenti oltre i 65 anni di età". Per andare incontro a una platea universitaria fatta di persone che fanno sacrifici veri per conseguire la laurea, la "Marconi" ha stipulato convenzioni con determinate categorie, come militari, poliziotti, e salariati con budget ridotti. A questi studenti vengono riconosciuti sconti anche del 50% sulla retta. Va ricordato che l'ateneo non riceve finanziamenti pubblici, eppure fa ricerca. Soprattutto nella didattica on-line. Tra le novità anche un accordo con Microsoft, che consentirà agli studenti di seguire le lezioni via mediacenter. Senza computer, quindi, ma direttamente dalla tv. Intanto anche per i docenti è tempo di primi consuntivi. Ormai, abituati a registrare le lezioni davanti a una telecamera, hanno imparato ad instaurare on-line un buon rapporto con gli studenti. "Qui si privilegia la sostanza invece della forma. I ragazzi devono comprendere bene quello che osservano nelle videolezioni fruite via Internet. Possono riguardare il filmato se non hanno capito" conferma Fabrizio Giulimondi, docente di diritto amministrativo. "Poi c'è il contatto via mail con il tutor o direttamente con il professore. Un legame solido molto utile all'insegnamento". L'incontro, di persona, avviene solo nel giorno più importante per lo studente: il giorno dell'esame. "E' il momento in cui ci si conosce - conclude Giulimondi - anche se lo studente ha già visto il nostro volto tante volte via web. Il momento dell'esame orale è quindi quello del rapporto umano. E come in ogni università è il momento della verità. Un esame vero, dove ci sono promozioni ma anche bocciature...".

(fonte siro rai)

sabato 29 ottobre 2011

Costituzione di parte civile del Comune di Roma nei procedimenti giudiziari relativi a violenza sulle donne

Iniziamo con questo numero la pubblicazione di atti normativi di interesse generale emanati dal Comune di Roma ed, eventualmente, da altri enti locali che ne ritenessero opportuna la pubblicazione. L’argomento di esordio è di notevole attualità.
La sentenza della Corte di Cassazione penale, sez. III, n. 38835/2008 ha affermato che anche per la prevenzione e la repressione delle violazioni delle norme poste a tutela della libertà di autodeterminazione sessuale è configurabile, in capo al Sindaco del Comune nel cui territorio è stato commesso l’abuso, la titolarità di un diritto soggettivo e di un danno risarcibile, individuabile in ogni lesione del diritto stesso, sicché questi è legittimato a costituirsi parte civile per ottenere il risarcimento dei danni morali e materiali relativi all’offesa, diretta e immediata, dello scopo sociale. Il Comune di Roma, in forza di tale decisione, ha adottato i provvedimenti sotto interamente riportati: la deliberazione n. 8 del 29 gennaio 2009 con cui il Consiglio Comunale ha dato mandato alla Giunta Comunale, all’Avvocatura Comunale e agli Uffici dell’Amministrazione di valutare le fattispecie in cui operare la costituzione di parte civile nei procedimenti penali relativi a violenza sulle donne; l’ordine del giorno n. 10 approvato nella medesima seduta dal Consiglio Comunale che impegna il Sindaco di Roma ad istituire una commissione tecnica avente lo scopo di predisporre predisporre un atto di indirizzo in tema di costituzione di parte civile dell’Amministrazione capitolina nei procedimenti giudiziari in
parola; l’ordinanza n. 57 del 26 marzo 2009 con la quale il Sindaco di Roma istituisce tale commissione.
Dott. Fabrizio Giulimondi

Deliberazione n. 8
ESTRATTO DAL VERBALE DELLE DELIBERAZIONI DEL CONSIGLIO COMUNALE
Verbale n. 7 dell’anno 2009
Seduta Pubblica del 29 gennaio 2009


(omissis)

Costituzione di parte civile del Comune di Roma nei procedimenti giudiziari relativi a violenza sulle donne Premesso che la violenza di genere, perpetrata con soprusi fisici, sessuali, psicologici ed economici, è stata riconosciuta in Italia, come in molti Paesi occidentali, una violazione del diritto all’integrità fisica e psicologica della donna; Che i diritti fondamentali delle donne fanno parte inalienabilmente, integralmente ed indissociabilmente dei diritti universali della
persona e qualsiasi atto di violenza rivolto contro il sesso femminile costituisce uno dei principali meccanismi sociali per mezzo dei quali le donne vengono mantenute in condizioni di inferiorità rispetto agli uomini impedendo la loro piena emancipazione ed ostacolando la loro partecipazione alla società e al mercato del lavoro; Che, per arginare il fenomeno, sono stati emanati, in ambito
internazionale, una serie di provvedimenti per prevenire ed eliminare tale violenza sulla base degli strumenti giuridici delle Nazioni Unite nel campo dei diritti umani ed in particolare dei diritti delle donne — Carta delle Nazioni Unite, Dichiarazione Universale dei diritti umani — tra i quali particolare rilievo assumono:
- la Convenzione Internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne ratificata e resa esecutiva dall’Italia con legge n. 132 del 14 marzo 1985 ed il Protocollo opzionale ratificato il 22 dicembre 2000;
- la «Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne» redatta dall’ONU nel 1993 che per la prima volta ha definito in modo ampio la violenza contro le donne come «qualunque
atto che produca, o possa produrre, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata»;
- la Risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999 con la quale l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha designato il 25 novembre come la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne e ha invitato i governi, le organizzazioni internazionali
e le organizzazioni non governative (ONG) a organizzare attività volte a sensibilizzare l’opinione pubblica per l’eliminazione dei pregiudizi, delle pratiche consuetudinarie o di altro genere che
siano basate sulla convinzione dell’inferiorità o della superiorità dell’uno o dell’altro sesso o sull’idea di ruoli stereotipati;
- la Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU n. 58/147 del 19 febbraio 2004 sull’eliminazione della violenza domestica contro le donne;
- la Convenzione del Consiglio d’Europa per combattere la violenza contro le donne e per la lotta contro la tratta degli esseri umani del 16 maggio 2005;
Che, in ambito europeo, la violenza contro le donne e la tratta di esseri umani è diventata, in modo crescente, una priorità nell’agenda politica dell’Unione Europea, che ha sollecitato gli Stati
membri ad adottare misure adeguate in materia di violenza alle donne nelle rispettive legislazioni nazionali; Che la Costituzione Italiana ha sancito il principio di uguaglianza
di genere riconoscendo la pari dignità sociale e stessi diritti davanti alla legge a tutti i cittadini (art. 3), la parità tra donne e uomini in ambito lavorativo (artt. 4 e 37), l’uguaglianza morale e
giuridica dei coniugi all’interno del matrimonio (art. 29); Che lo Stato Italiano, in accordo con gli obblighi assunti a livello internazionale, europeo e nazionale, ha adottato una serie di misure
legislative tendenti a proibire ogni discriminazione nei confronti delle donne instaurando una protezione giuridica dei loro diritti ed una effettiva protezione da ogni atto discriminatorio attraverso:
- la legge n. 66/1996 che ha classificato il reato di violenza sessuale come crimine contro la persona mutando così la qualificazione della normativa precedente che lo definiva solamente «reato contro la morale»;
- la legge n. 269/1998 che contiene le norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia e del turismo sessuale a danno di minori, che nella maggior parte dei casi sono di sesso femminile;
- la legge n. 154/2001 che ha aperto una nuova prospettiva di tutela verso la persona convivente che subisce abusi, riconoscendo l’applicazione di misure cautelari, come l’allontanamento dalla casa familiare di chi compie abusi anche in caso di convivenza di fatto; Che il Comune di Roma ha nel proprio Statuto (articolo 2 comma 5) dato specifica e particolare priorità alle politiche volte al riconoscimento e alla promozione dello «sviluppo economico, sociale e culturale della comunità locale, il diritto al lavoro e l’accrescimento delle capacità professionali, con particolare riferimento alla condizione giovanile e femminile sviluppando ed esercitando le politiche attive per l’occupazione, le attività di formazione professionale e favorendo le iniziative a tutela della sicurezza e dei diritti del lavoro », sancendo altresì la volontà del Comune stesso di assumere quale proprio compito statutario la garanzia della sicurezza e della dignità dei cittadini con particolare riferimento ai giovani e alle donne; Che al punto e) del comma 2 dell’articolo 4 lo stesso Statuto recita: «che il Comune adotta piani di azione positivi finalizzati, tra
l’altro, ad adottare un codice di comportamento che assicuri un clima di pieno e sostanziale rispetto reciproco tra uomini e donne, con particolare attenzione all’eliminazione delle situazioni di molestie sessuali», sancendo con ciò l’importanza che riveste l’adozione di un codice di comportamento volto a garantire le pari opportunità tra uomini e donne; Che per l’attuazione delle citate previsioni statutarie è stato costituito un apposito Ufficio, avente il compito di assumere iniziative concrete tendenti a perseguire l’obiettivo di contrastare fenomeni
d’aggressione alla realtà femminile con l’istituzione di Centri Comunali di accoglienza per donne vittime di violenza; Che inoltre sono state investite risorse economiche per favorire una
cultura di genere autonoma con l’affidamento di un immobile a un Consorzio di Associazioni Femministe e Femminili (deliberazione del Consiglio Comunale n. 95 del 24 settembre 2001) e con l’istituzione di Centri Comunali di accoglienza per donne vittime di violenza; Che così facendo il Comune di Roma ha normativamente trasformato interessi generici e diffusi di cittadini e cittadine, in propri interessi specifici e in oggetto peculiare delle proprie attribuzioni
e dei suoi compiti istituzionali; Che anche per la prevenzione e la repressione delle violazioni delle
norme poste a tutela della libertà di determinazione della donna è configurabile in capo al Comune (che, per rispetto al territorio in cui il fatto è commesso, ha una stabile relazione funzionale ed ha inserito tale tutela tra i propri scopi, primari e autonomi) la titolarità di un
diritto soggettivo e di un danno risarcibile, individuabile in ogni lesione del diritto stesso, sicché esso è legittimato alla costituzione di parte civile per il risarcimento dei danni morali e materiali relativi all’offesa, diretta e immediata, dello scopo sociale;
Che conseguentemente ogni abuso sessuale lede non solo la libertà morale e fisica della donna, ma anche il concreto interesse del Comune di preservare il territorio da tali deteriori fenomeni,
avendo il Comune stesso posto la tutela di quel bene giuridico come proprio obiettivo primario; Che è inoltre, in ogni caso di violenza e abuso sulle donne, configurabile un danno morale arrecato al Comune per la lesione dell’interesse perseguito di garantire la libertà di autodeterminazione
della donna e la pacifica convivenza nell’ambito comunale, beni sociali statutariamente individuati come oggetto specifico di tutela; Che quanto sopra è stato solennemente riconosciuto dalla Corte
Suprema di Cassazione, Terza Sezione Penale, nell’udienza pubblica del 19 giugno 2008 con l’emissione della sentenza n. 1563, repertorio n. 38835/2008; Che in data 27 gennaio 2009 il Capo dell’Avvocatura ha espresso, ai sensi e per gli effetti dell’art. 49 del Decreto Legislativo n.
267/2000, parere favorevole all’impianto tecnico-giuridico di cui alla proposta di deliberazione in oggetto Il Capo dell’Avvocatura P. Bonanni
Visto l’articolo 34 dello Statuto del Comune di Roma;
Visto il D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267 (T.U.E.L.);
Vista la deliberazione di Giunta Comunale n. 182/2001;
Visto il parere favorevole del Dirigente responsabile del Servizio espresso, ai sensi dell’art. 49 del T.U.E.L., in ordine all’emenda - mento approvato;

Tutto ciò premesso,
IL CONSIGLIO COMUNALE delibera, per i motivi espressi in narrativa, di dare mandato alla Giunta Comunale, all’Avvocatura Comunale e agli Uffici dell’Amministra - zione di procedere alla valutazione concreta circa la fattispecie in cui operare la costituzione di parte civile per i reati di violenza sessuale e di predisporre gli atti necessari per costituire il Comune di Roma nei
procedimenti giudiziari per fatti accaduti sul territorio comunale, con la rappresentanza e difesa dell’Avvocatura Comunale, valutando se necessario che le Associazioni operanti in materia, nell’ambito cittadino, possono sostenere giudizialmente il Comune di Roma.
Procedutosi alla votazione nella forma come sopra indicata, il Presidente, con l’assistenza dei Segretari, dichiara che la proposta risulta approvata all’unanimità, con 43 voti favorevoli.
(omissis)

Interventi di contrasto alla prostituzione su strada e tutela della sicurezza urbana

Continuiamo con questo numero la pubblicazione di atti normativi di interesse generale emanati dal Comune di Roma ed, eventualmente, da altri enti locali che ne ritenessero opportuna la pubblicazione. Anche quest’argomento è di notevole attualità. L’Amministrazione comunale di Roma ha posto fra le sue priorità la sicurezza della comunità. Per tale ragione, fra le varie iniziative intraprese, il Sindaco ha adottato l’ordinanza sindacale n. 242 del 16 settembre 2008 (prorogata con ordinanza n. 7 del 28 gennaio 2009) — qui appresso pubblicate — in forza delle quali si è voluto contrastare il fenomeno della prostituzione femminile e maschile drammaticamente diffusosi negli ultimi anni per le strade della città. La prima ordinanza è stata ritenuta legittima dalla sentenza del T.A.R. Lazio, sez. II, n. 12222 del 22 dicembre 2008. Argomento di interesse esaminato dalla decisione è individuabile nella necessità che l’esercizio della prostituzione, in quanto espressione di una iniziativa economica privata, rispetti i limiti imposti dall’art. 41, secondo comma, della Costituzione: divieto di contrastare con l’utilità sociale e di arrecare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana. La pronunzia del medesimo Tribunale del 12 giugno 2009 ha «validato» la proroga posta in essere dall’ordinanza sindacale 7/2009, ritenendola espressione dei poteri conferiti al sindaco dalla nuova formulazione dell’art. 54 T.U. 267/2000 (Testo Unico degli Enti Locali) e rientrante, quindi, fra le ordinanze necessitate a contenuto semi libero. Questa tipologia provvedimentale tende a prevenire o eliminare situazioni emergenziali strutturali, ossia tendenzialmente perduranti, radicate o cicliche (a differenza delle ordinanze contingibili ed urgenti che sono emanate per rimuovere condizioni irripetibili e risolvere situazioni qualificabili extra ordinem e, pertanto, necessariamente limitate nel tempo). Il T.A.R. Lazio ha pertanto ritenuto legittima la reiterazione della precedente ordinanza sindacale, in ragione della sua efficacia temporale più duratura rispetto a quelle di «vecchio conio», finanche tendenzialmente permanente sino alla definitiva soluzione del problema (nel caso trattato: la prostituzione per strada).

Prof. Fabrizio Giulimondi

ORDINANZA SINDACO DI ROMA n. 242 del 16 settembre 2008.

IL SINDACO

- Premesso che il fenomeno della prostituzione esercitata su strada ha notevole diffusione sul territorio del Comune di Roma;

- che spesso le persone dedite alla prostituzione sono vittime della tratta degli esseri umani e sfruttate da organizzazioni criminali;

- ritenuto che tale fenomeno si manifesta spesso con atteggiamenti indecorosi e indecenti da parte delle persone che praticano la prostituzione, tanto da offendere la pubblica sensibilità e generare episodi di tensione nella cittadinanza;

- constatato anche il verificarsi di situazioni igienico-sanitarie pericolose per la salute pubblica, stante i rifiuti ed i residui organici che vengono reperiti nei luoghi abitualmente frequentati dalle

persone dedite alla prostituzione;

- ritenuto che l’esercizio dell’attività di meretricio produce gravi situazioni di turbativa alla sicurezza stradale, a causa di comportamenti gravemente imprudenti, in violazione del Codice della Strada, di soggetti che, alla guida dei propri veicoli, sono alla ricerca di prestazioni sessuali;

- considerato che l’abbigliamento indecoroso e indecente spesso utilizzato per l’esercizio della prostituzione è motivo di distrazione per gli utenti della strada e causa di frequenti incidenti stradali;

- che l’art. 18 del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, e successive modifiche prevede, nell’ambito dei delitti previsti dall’art. 3 della Legge 20 febbraio 1958, n. 75, misure a tutela degli stranieri vittime

di violenza o grave sfruttamento, accertati anche nel corso di interventi assistenziali dei servizi sociali degli Enti locali;

- che il Comune di Roma offre strutture di accoglienza e interventi di sostegno psicologico e reinserimento dei soggetti sopraindicati, garantendo l’anonimato;

- visto che l’art. 23 del Regolamento di Polizia Urbana, approvato con Deliberazione di Giunta Municipale n. 4047 dell’8 novembre 1946 e s.m.i., prevede il divieto di atti offensivi alla decenza e alla morale;

- visto che il fenomeno della prostituzione rientra tra i fattori di rischio presi in considerazione nel Patto per Roma Sicura, sottoscritto in data 29 luglio 2008 fra Prefettura di Roma, Regione Lazio, Provincia di Roma, Comune di Roma;

- preso atto che con nota n. 52906 del 16-9-2008 è stata data preventiva comunicazione al Prefetto come previsto dall’art. 54, comma

4, del D.Lgs. 18-8-2000, n. 267, come novellato dalla Legge 24- 7-2008, n. 125;

- visto l’art. 54 del D.Lgs. 18-8-2000, n. 267, come novellato dalla Legge 24-7-2008, n. 125;

- visto l’art. 2, lett. a), del decreto del Ministro dell’Interno del 5- 8-2008, ove è previsto che il Sindaco interviene per prevenire e contrastare lo sfruttamento della prostituzione;

- visto l’art. 7-bis del D.Lgs. 18-8-2000, n. 267;

- visto l’art. 16 della Legge 24-11-1981, n. 689, come modificato dall’art. 6-bis della Legge 24-7-2008, n. 125;

- vista la Deliberazione di Giunta Comunale n. 277 dell’11 settembre 2008;

ORDINA

il divieto a chiunque, sulla pubblica via e su tutte le aree soggette a pubblico passaggio del territorio del Comune di Roma, con particolare riferimento alle vie consolari dove maggiore è il rischio di gravi incidenti stradali, di contattare soggetti dediti alla prostituzione ovvero concordare con gli stessi prestazioni sessuali. È fatto inoltre divieto di assumere atteggiamenti, modalità comportamentali ovvero indossare abbigliamenti che manifestino inequivocabilmente l’intenzione di adescare o esercitare l’attività di

meretricio. Ferma restando l’eventuale applicazione delle sanzioni penali previste dalle leggi in vigore e fermi i limiti edittali fissati per le violazioni alle ordinanze comunali dall’art. 7-bis del D.Lgs. 18-8-

2000, n. 267, per la violazione della presente ordinanza è stabilito l’importo del pagamento, in misura ridotta, nella somma di euro 200,00.

In alternativa all’erogazione della sanzione stabilita nella presente ordinanza, ed in piena sintonia con il dettato dell’art. 18 del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, i soggetti accertatori avvieranno le persone dedite alla prostituzione, vittime di violenza o grave sfruttamento ovvero in stato di particolare disagio, alle strutture di accoglienza del Comune di Roma per i previsti interventi di sostegno psicologico e reinserimento. Il presente provvedimento che ha validità, per le motivazioni in premessa indicate, fino al 30 gennaio 2009, è reso pubblico mediante l’affissione all’Albo Pretorio Comunale ed è immediatamente esecutivo. Il presente provvedimento viene trasmesso alla Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Roma, alla Questura di Roma, al Comando Provinciale dell’Arma dei Carabinieri di Roma, al Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Roma, alla Polizia Provinciale di Roma e al Corpo della Polizia Municipale di Roma. Contro il presente provvedimento è ammesso, entro 60 giorni dalla pubblicazione all’Albo Pretorio, ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio o, in alternativa, entro 120 giorni dalla pubblicazione, ricorso al Presidente della Repubblica.

Il Segretario Generale

Dott. Liborio Iudicello

Il Sindaco

Giovanni Alemanno

Interventi di contrasto alla prostituzione su strada e tutela della sicurezza urbana - Proroga al 30

gennaio 2010 del termine di validità dell’ordinanza sindacale n. 242 del 16 settembre 2008

ORDINANZA SINDACO DI ROMA n. 7 del 28 gennaio 2009.

IL SINDACO

- Premesso che con ordinanza sindacale n. 242 del 16 settembre 2008 sono state adottate specifiche disposizioni per contrastare il fenomeno della prostituzione esercitato su strada, a tutela dell’ordine e della sicurezza urbana;

- Considerato che dalla data di adozione della succitata ordinanza, attraverso l’azione coordinata delle Forze dell’Ordine e della Polizia Municipale, sono stati contravvenzionati numerosi comportamenti, consistenti sia in manifestazioni evidenti di contrasto al decoro e alla decenza, sia in turbativa alla sicurezza stradale o in violazioni del codice della strada;

- Che tale attività sanzionatoria è comprovata dai verbali della Polizia Municipale;

- Atteso che il Sindaco, quale Ufficiale di Governo, è un soggetto attuatore, in ambito locale ed in relazione alla domanda sociale di sicurezza posta dalla collettività, delle regole all’uopo stabilite a garanzia dell’unità dell’ordinamento e della stabilità sociale della Repubblica;

- Che, a tal fine, essendosi riscontrata, in relazione alla intensificazione di controlli da parte delle Forze dell’Ordine, una progressiva riduzione del fenomeno della prostituzione su strada, si ritiene opportuno prorogare al 30 gennaio 2010 il termine di validità dell’ordinanza sindacale n. 242 del 16 settembre 2008, già fissato al 30 gennaio 2009;

- Tenuto conto che con nota n. 4762 de1 28-1-2009 è stata data preventiva comunicazione al Prefetto come previsto dall’art. 54, comma 4, del D.Lgs. 18-8-2000, n. 267, come novellato dalla Legge 24-7-2008, n. 125;

- Visto l’art. 54 del D.Lgs. 18-8-2000, n. 267, come novellato dalla

Legge 24-7-2008, n. 125;

ORDINA

È prorogato al 30 gennaio 2010 il termine di validità delle disposizioni contenute nell’ordinanza sindacale n. 242 del 16 settembre 2008.

Il presente provvedimento è reso pubblico mediante l’affissione all’Albo Pretorio Comunale ed è immediatamente esecutivo. Al fine dell’esecuzione, il presente provvedimento viene trasmesso alla Prefettura - Ufficio Territoriale del Governo di Roma, alla Questura di Roma, al Comando Provinciale dell’Arma dei Carabinieri di Roma, al Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Roma, alla Polizia Provinciale di Roma e al Corpo della Polizia Municipale di Roma. Contro il presente provvedimento è ammesso, entro 60 giorni dalla pubblicazione all’Albo Pretorio, ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio o, in alternativa, entro 120 giorni dalla pubblicazione, ricorso al Presidente della Repubblica.

Il Segretario Generale

Dott. Liborio Iudicello

Il Sindaco

Giovanni Alemanno

“Espulsioni amministrative dei cittadini comunitari”

Il decreto legislativo 28 febbraio 2008, n. 32 («Modifiche e integrazioni
al decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, recante attuazione
della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini
dell’Unione e loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente
nel territorio degli Stati membri»), integra e corregge il decreto
legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, che disciplina il diritto dei
cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare
liberamente nel territorio degli Stati membri.
Il decreto legislativo 30/2007 è stato approvato dal Governo a
seguito della legge comunitaria 18 aprile 2005, n. 62, che lo ha
delegato a recepire la direttiva 2004/38/CE del 29 aprile 2004 del
Parlamento europeo e del Consiglio.
Questa direttiva contiene una sorta di testo unico in materia di
diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e
di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, eliminando
la precedente differenziazione tra lavoratori subordinati,
lavoratori autonomi e studenti.
Il diritto di ingresso è garantito in qualsiasi Stato membro a
qualsiasi cittadino comunitario richiedendo, come unico adempimento,
la presentazione di una carta di identità. Altresì sono
garantite tre tipologie di soggiorno, a seconda delle diverse
esigenze del cittadino dell’Unione e delle condizioni in cui versa:
soggiorno fino ad un periodo di tre mesi; soggiorno per un
periodo superiore a tre mesi; soggiorno permanente.
L’attribuzione della libertà di circolare e soggiornare liberamente
nel territorio degli Stati membri è oramai un diritto
garantito a tutti i cittadini europei a seguito della comunitarizzazione
degli Accordi di Schengen (siglati il 14 giugno 1985 e successivamente
integrati con la Convenzione di applicazione del 19
giugno 1990), incorporati nel quadro giuridico e istituzionale
dell’Unione per il tramite del Protocollo allegato al Trattato di
Amsterdam (2 ottobre 1997).
La libertà dei cittadini dell’Unione di circolare e soggiornare
liberamente nel territorio degli Stati membri ha iniziato a costituire
un problema in ordine alla sicurezza e alla incolumità delle
persone a seguito dell’adesione di altri dodici Paesi (1), di cui
dieci dell’ex blocco comunista e due dell’area mediterranea.
Il 1° maggio 2004 la Repubblica Ceca, l’Estonia, la Lettonia, la
Lituania, l’Ungheria, la Polonia, la Slovenia, la Slovacchia, Cipro
e Malta sono entrate a far parte dell’Unione Europea. Il 1°
maggio 2007 l’Unione Europea è diventata a ventisette con
l’entrata di Romania e Bulgaria.
L’Italia è fra gli Stati che maggiormente hanno risentito del
flusso dei cittadini rumeni e dell’impatto sociale che, specie le
comunità nomadi, hanno provocato all’interno della società
italiana, che ha visto incrementare sensibilmente il numero di
crimini, anche gravi, commessi sul proprio territorio nazionale (2).
Dopo i fatti di cronaca di particolare efferatezza relativi a reati
i cui autori sono risultati essere cittadini comunitari, il Governo
ha varato il decreto legge 1° novembre 2007, n. 181, che ha
dettato disposizioni urgenti in materia di allontanamento dal territorio
nazionale per esigenze di pubblica sicurezza, consentendo
l’espulsione di cittadini dell’Unione Europea, parimenti dei
soggetti extracomunitari.
La mancata conversione ha indotto il Consiglio dei Ministri ad
approvare un secondo decreto legge in tema di espulsioni e di
allontanamenti per terrorismo e per motivi imperativi di
pubblica sicurezza (29 dicembre 2007, n. 249). Anche questo
provvedimento d’urgenza non è stato convertito dal Parlamento.
Il Governo, per ovviare al problema del rientro in Patria dei
cittadini comunitari medio tempore allontanati essendo venuta
meno la base normativa su cui le espulsioni si reggevano e al fine
di dare una risposta alla esigenza di sicurezza della popolazione
italiana anche nei confronti dei cittadini comunitari di recente
adesione, ha riprodotto le disposizioni dei due decreti legge non
convertiti all’interno dell’articolato del decreto legislativo 32/2008.
Questa è la prima particolarità: fallito il tentativo della normazione
di urgenza, si è utilizzata la legge delega prevista dall’art. 1,
comma 5, legge 18 aprile 2005, n. 62, che autorizza il Governo ad
emanare disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi
di attuazione delle direttive comprese negli elenchi allegati alla
medesima legge, fra cui v’è il decreto legislativo 30/2007 attuativo
della direttiva 2004/38/CE.
Difatti, come si è precedentemente detto, il D.Lgs. 32/2008, integrando
il D.Lgs. 30/2007, introduce lo strumento della espulsione
dei cittadini dell’Unione al pari dei cittadini extracomunitari.
Il decreto legislativo 32/2008 diventa lo strumento normativo
per veicolare buona parte della normativa contenuta nei decreti
legge non convertiti 181/2007 e 249/2007, riprendendo altresì le
norme del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e
norme sulla condizione dello straniero) — segnatamente l’art. 13
— nonché il disposto dell’art. 3, comma 1, del decreto legge 27
luglio 2005, n. 144, convertito con modificazioni con la legge 31
luglio 2005, n. 155, recante misure urgenti per il contrasto del
terrorismo internazionale (c.d. «decreto Pisanu»).
La valida adozione del provvedimento di espulsione del
cittadino europeo — qualificato di allontanamento presumibilmente
per distinguerlo da quello destinato alle persone extracomunitarie
— deve essere supportata da: motivi di sicurezza dello
Stato; motivi imperativi di pubblica sicurezza; motivi di ordine
pubblico o di pubblica sicurezza.
Sine dubio l’elemento di novità rispetto alle ragioni poste alla
base dei provvedimenti di espulsione degli stranieri è rappresentato
dai motivi imperativi di pubblica sicurezza, elemento introdotto
dal primo decreto legge non convertito.
I motivi imperativi di pubblica sicurezza sussistono quando la
persona da allontanare abbia tenuto comportamenti che costituiscono
una minaccia concreta, effettiva e grave ai diritti fondamentali
della persona ovvero alla incolumità pubblica, rendendo
urgente l’allontanamento del cittadino comunitario in ragione del
fatto che la sua ulteriore permanenza sul territorio è incompatibile
con la civile e sicura convivenza. Tale «fondamento motivazionale»
di supporto alla adozione del provvedimento di allontanamento è
una evidente creazione legislativa che plasma una forma giuridica
ai fatti criminosi avvenuti al momento della adozione del decreto
legge 181/2007.
Tramite la locuzione «motivi imperativi di pubblica sicurezza»
il Legislatore ha voluto compulsare l’azione amministrativa, spingendola
ad adottare il decreto di espulsione del cittadino comunitario
in tutte le ipotesi non rientranti nelle ragioni di ordine
pubblico o pubblica sicurezza, atteso che per la loro gravità
l’immediato allontanamento del soggetto dal territorio nazionale
risulta essere improcrastinabile.
I motivi di sicurezza dello Stato si concretano per quei comportamenti
di potenziale nocumento per l’interesse dello Stato, la
sua esistenza, la sua integrità territoriale, i rapporti intercorrenti
con gli altri Stati nazionali, la sua efficienza e prestigio, nonché
per la tutela e sicurezza delle sue Istituzioni.
In particolare modo l’art. 20, comma 2, D.Lgs. 6 febbraio 2007,
n. 30, così come riformulato dall’art. 1, comma 1, lett. c), precisa
che «i motivi di sicurezza dello Stato sussistono anche quando la
persona da allontanare appartiene ad una delle categorie di cui
all’articolo 18 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (3), ovvero vi
sono fondati motivi di ritenere che la sua permanenza nel territorio
dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni
o attività terroristiche, anche internazionali».
Il Legislatore, in luogo di effettuare un richiamo formale all’art.
3, comma 1, decreto legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito con
modificazioni nella legge 31 luglio 2005, n. 155 (c.d. «decreto
Pisanu») (4), ne ha riprodotto interamente il contenuto, di tal ché
si possa provvedere alla espulsione di colui che è gravemente
sospettato di terrorismo anche internazionale, indipendentemente
dalla nazionalità del soggetto: è prevalsa la necessità della difesa
della sicurezza nazionale sulla appartenenza alla Unione Europea,
specie dopo gli accadimenti a New York, a Madrid e a Londra.
Per ordine pubblico si suole significare il buon assetto e il
regolare andamento della vita sociale; l’armonica e pacifica convivenza
dei cittadini sotto la sovranità dello Stato e del diritto.
I motivi di pubblica sicurezza possono essere compresi per il
tramite dell’art. 13, comma 2, lett. c), D.Lgs. 286/1998, che indica
nei soggetti extracomunitari appartenenti alle categorie indicate
nell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (persone pericolose
per la sicurezza e per la pubblica moralità) e nell’art. 1 della
legge 31 maggio 1965, n. 575 (persone indiziate di appartenere ad
associazioni di tipo mafioso), coloro che possono essere espulsi,
in quanto la loro presenza sul territorio nazionale incide gravemente
sulla sicurezza della collettività nella sua interezza.
I motivi appena esemplificati sono determinanti non solo per la
adozione del provvedimento di allontanamento — rectius di
espulsione — del cittadino comunitario, ma anche per la individuazione
della Autorità pubblica a cui è conferito il potere di
adottare gli atti in parola (Ministro degli Interni o Prefetto territorialmente
competente); per la qualificazione del provvedimento
come immediatamente esecutivo o meno; e, infine, per la indicazione
di quale sia l’Autorità Giudiziaria innanzi la quale
impugnare il decreto di allontanamento (il T.A.R. Lazio ovvero il
Tribunale ordinario in composizione monocratica).
Non saranno di poco momento le difficoltà che talora le
Autorità amministrative e giurisdizionali avranno nel delineare
l’actio finium regundorum fra i motivi — sottesi al decreto
espulsivo — di sicurezza dello Stato, di pubblica sicurezza, imperativi
di pubblica sicurezza e di ordine pubblico. Una errata valutazione
di essi può condurre a conseguenze di particolare gravità:
mancata emanazione del provvedimento quando era legittimo
adottarlo — o viceversa —; individuazione erronea dell’organo
amministrativo competente; interpretazione sbagliata della
natura immediatamente esecutiva o meno dell’atto in questione;
e, last but not least, qualificazione non corretta del giudice competente
sui ricorsi giurisdizionali.
L’Autorità amministrativa a cui spetta l’emissione del decreto
di allontanamento, a differenza del decreto Pisanu in tema di terrorismo
internazionale collegato a soggetti di nazionalità
extraeuropea e della legislazione riguardante gli extracomunitari,
è individuata non per materia ma in base ai motivi sopra meglio
esplicitati ed elencati nell’art. 20, comma 1, D.Lgs. 30/2007, così
come sostituito dal D.Lgs. 32/2008.
Il Ministro degli Interni è competente ad adottare il provvedimento
di espulsione in presenza di motivi imperativi di pubblica
sicurezza (però solamente in relazione ai beneficiari del diritto di
soggiorno protratto nel territorio nazionale nei dieci anni precedenti
o che siano minorenni, ex art. 20, commi 7 e 9, D.Lgs.
30/2007), oltre che in presenza di motivi di ordine pubblico o di
sicurezza dello Stato.
Il Prefetto del luogo di residenza o dimora del destinatario
dell’atto è competente negli altri casi, non dettagliatamente
indicati dall’art. 20, comma 9, D.Lgs. 30/2007 così come modificato
dal D.Lgs. 32/2008, deducibili in forza del combinato
disposto fra l’art. 20, commi 1, 7 e 9, e l’art. 21, commi 1 e 2,
D.Lgs. 30/2007, così come sostituiti dall’art. 1, comma 1, lett. c),
D.Lgs. 32/2008. Il Prefetto dispone l’espulsione in base a motivi di
pubblica sicurezza; a motivi imperativi di pubblica sicurezza ma
non riguardanti i beneficiari del diritto di soggiorno protratto nel
territorio nazionale nei dieci anni precedenti e non riguardanti
minori; e, infine, in ragione della sopravvenuta mancanza delle
condizioni che determinano il diritto di soggiorno.
È sicuramente una anomalia l’individuazione delle Autorità
istituzionalmente preposte alla emanazione del provvedimento di
allontanamento in relazione ai cennati motivi.
Solamente per il Prefetto è stata individuata la competenza
anche con riferimento a un settore specifico, ossia quando sono
venute a mancare le condizioni che determinano il diritto di
soggiorno (a tre mesi; superiore a tre mesi; permanente).
Le legislazioni «confinanti» individuano le Autorità pubbliche e
suddividono fra loro le competenze, prestando attenzione alle
materie indicate da disposizioni di legge.
Pur essendo la competenza del Ministro degli Interni in
materia di espulsioni di cittadini extracomunitari configurata in
base a motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato (art.
13, comma 1, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 - testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero), le attribuzioni prefettizie, a
mente del comma 2 della medesima disposizione, sono «riempite
di contenuto» per relationem a dettagliate norme di legge (ad
esempio: normativa afferente le misure di prevenzione nei
confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la
moralità pubblica o indiziate di appartenere ad associazioni di
tipo mafioso), ovvero segnalando specificamente la condotta che
determina l’espulsione (extracomunitario entrato clandestinamente
nei confini nazionali e non respinto alla frontiera).
Ancora di più vi è l’individuazione delle competenze del Ministro
degli Interni e del Prefetto in ambito di terrorismo nazionale e
internazionale ex art. 3, comma 1, D.L. 144/2005, convertito nella
legge 155/2005: «Il Ministro degli Interni o, su sua delega, il Prefetto
può disporre l’espulsione dello straniero appartenente ad una delle
categorie di cui all’art. 18 della legge 22 maggio 1975, n. 152, o nei
cui confronti vi sono fondati motivi di ritenere che la sua permanenza
nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare
organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali». Oltre
alle esplicite condizioni alla luce delle quali si può addivenire alla
espulsione del cittadino straniero non comunitario in presenza di
fumus boni iuris di attività terroristiche, in subiecta materia il
Prefetto non possiede funzioni iure proprio ma su espressa delega
del Ministro degli Interni.
Pertanto, nel settore delle espulsioni di cittadini comunitari, la
determinazione della competenza del Ministro degli Interni o del
Prefetto in ragione della esistenza o meno di motivi di sicurezza
dello Stato, ovvero di motivi imperativi di pubblica sicurezza,
oppure di motivi di pubblica sicurezza, o infine per motivi di
ordine pubblico, non potrà non fare venire alla luce de futuro difficoltà
di non facile soluzione e possibilità di conflitti di attribuzioni
fra le due Autorità, anche per la complessità di inserire in
un comparto invece di un altro l’uno o l’altro motivo. Sarebbe
stato più razionale e foriero di una maggiore certezza del diritto
porre a fondamento dell’una o dell’altra competenza un riferimento
legislativo e/o l’indicazione di una specifica materia.
Stesso problema si pone per la natura immediatamente
esecutiva o meno del provvedimento espulsivo.
I commi 9, 10 e 11 dell’art. 20 D.Lgs. 30/2007, così come sostituiti
dal decreto legislativo 32/2008, qualificano come immediatamente
esecutivi i decreti promulgati per motivi di sicurezza dello
Stato o per motivi imperativi di pubblica sicurezza. In tale
evenienza il Questore, organo esecutivo delle decisioni del
Ministro degli Interni o del Prefetto territorialmente competente,
provvede all’immediato accompagnamento alla frontiera del
cittadino comunitario con l’ausilio della forza pubblica.
Nelle ipotesi di allontanamento per motivi di ordine pubblico e
pubblica sicurezza l’esecuzione non è immediata poiché il provvedimento
fissa un termine, non inferiore ad un mese, riducibile
a dieci giorni nei casi di comprovata urgenza, entro il quale il
destinatario ha l’obbligo di lasciare il territorio nazionale.
Qualora ciò non avvenga il Questore dispone la sua esecuzione
immediata.
Quindi: per i decreti posti in essere per motivi di sicurezza
dello Stato o per motivi imperativi di pubblica sicurezza l’opera
del Questore sostanzia una mera esecuzione, al pari della polizia
giudiziaria quando esegue un disposto della Procura della Repubblica;
in caso di espulsione per motivi di ordine pubblico e
pubblica sicurezza il Questore, sempre in veste di organo
esecutivo, adotta un proprio provvedimento che consente
l’immediata esecuzione dell’atto di allontanamento previamente
emesso dal Ministro degli Interni o dal Prefetto, contenente uno
spatium temporis entro il quale l’espulso deve oltrepassare i
confini italiani.
Il Questore ha l’obbligo di comunicare l’esecuzione del decreto
del Ministro degli Interni o del Prefetto — nella prima ipotesi (5)
— ovvero il proprio provvedimento — nella seconda ipotesi (6) —
al Tribunale in composizione monocratica del luogo ove avviene
l’esecuzione per la sua convalida.
L’Autorità giudiziaria competente per la convalida della esecuzione
(sia come mera operazione sia sotto la veste di provvedimento)
compiuta dal Questore è pertanto, ai sensi dell’art. 20
ter D.Lgs. 30/2007 così come inserito dall’art. 1, comma 1, lett.
d), D.Lgs. 32/2008, il Tribunale ordinario in composizione
monocratica.
A tale proposito è evidente l’errore compiuto dal Legislatore
nel richiamo effettuato dall’art. 20, comma 11, D.Lgs. 30/2007
all’art. 13, comma 5 bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.
286, in materia di espulsioni dei cittadini non comunitari.
Tale disposizione prevede anch’essa la convalida della esecuzione,
posta in essere dal Questore, del decreto precedentemente
emesso dal Ministro degli Interni o dal Prefetto, ma ad opera del
giudice di pace. Confligge il disposto dell’art. 20 ter («ai fini della
convalida dei provvedimenti emessi dal Questore ai sensi degli
articoli 20 e 20 bis, è competente il tribunale ordinario in composizione
monocratica») con il richiamo compiuto dall’art. 20,
comma 11 (disposizione richiamata — come appena accennato
— dall’art. 20 ter che assegna la competenza della convalida al
Tribunale ordinario in composizione monocratica), all’art. 13,
comma 5 bis, T.U. sulla disciplina della immigrazione, che invece
indica nel giudice di pace l’organo giurisdizionale per la
convalida dell’attività esecutiva per facta concludentia o provvedimentale
del Questore.
È inconfutabile la svista del Legislatore, che non ha riportato
nel testo in esame la formulazione dell’art. 2 del secondo decreto
legge non convertito 249/2007 che, nel richiamare la predetta
disposizione, si premuniva di sostituire le parole «giudice di
pace» — inserite all’interno degli artt. 13, 13-bis e 14 del decreto
legislativo 286/1998 — con l’espressione «tribunale ordinario in
composizione monocratica».
È opportuno precisare che per il tramite della relatio alla disciplina
dettata dall’art. 13, comma 5-bis, D.Lgs. 286/1998, il dies ad
quem entro il quale il Questore deve comunicare l’esecuzione al
giudice è fissato in quarantotto ore dalla emissione del decreto di
allontanamento e al Questore è stata data la possibilità di trattenere
il soggetto comunitario da espellere presso un centro di permanenza
temporanea.
Inoltre non di facile lettura — sempre in tema di convalida dei
provvedimenti del Questore da parte del Tribunale ordinario in
composizione monocratica — risulta essere il richiamo realizzato
dall’art. 20 ter all’art. 20 bis D.Lgs. 30/2007. Questa ultima norma
affronta la questione relativa alla pendenza di un procedimento
penale a carico del destinatario del provvedimento di allontanamento.
Il percorso per una corretta comprensione di quale sia
l’atto esecutivo del Questore oggetto di convalida da parte del
Tribunale è particolarmente tortuoso. Non può essere quello in
seno al comma 5 dell’art. 20-bis in quanto il Questore autorizza il
rientro in Patria dell’espulso nel caso in cui questi, al fine di esercitare
il proprio diritto di difesa, abbia la necessità di partecipare
al giudizio che lo riguarda ovvero di compiere atti per i quali è
indispensabile la sua presenza. È di palmare evidenza che un tale
atto autorizzatorio non abbisogna di una convalida giudiziaria,
necessaria solo se il suo oggetto consista in un provvedimento
restrittivo o ablativo della libertà personale.
Per comprendere cosa debba convalidare il Tribunale civile in
composizione monocratica quando il soggetto da espellere abbia
in corso un processo penale a suo carico, l’ermeneuta ha l’onere
di realizzare una serie di passaggi da un articolo all’altro, non
proprio in linea con una tecnica legislativa chiara ed agile che
consenta una immediata comprensione del contenuto della
norma.
Il primo passaggio è dall’art. 20-ter all’art. 20-bis D.Lgs.
30/2007, che al comma 1 rinvia all’art. 13, commi 3, 3-bis, 3-ter,
3-quater e 3-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.
286.
Il Questore, alla luce di questi ultimi articoli, non può
procedere alla esecuzione senza ottenere previamente il nulla
osta da parte dell’Autorità giudiziaria innanzi la quale pende il
processo penale a carico del soggetto comunitario destinatario
del provvedimento di allontanamento: se questi non si trova in
stato di custodia cautelare il giudice penale può concedere il
nulla osta; altresì se è in stato di arresto in flagranza o di fermo il
nulla osta può essere concesso solo dopo loro convalida e se non
vi sia una contestuale emissione della misura della custodia
cautelare in carcere; infine il nulla osta può essere concesso se
l’Autorità giudiziaria penale dichiara estinta o revocata la misura
della custodia cautelare in carcere (7).
L’art. 13, comma 3, richiama il comma 4 del medesimo articolo
che stabilisce che l’espulsione è sempre eseguita dal Questore con
accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica. Di
conseguenza è inevitabile il collegamento al comma 5 bis che stabilisce,
nei casi dettati dal comma 4 (mera esecuzione del decreto
espulsivo) e dal comma 5 (provvedimento autonomo del Questore
di immediato allontanamento, nel caso di inottemperanza da
parte del soggetto espulso all’ordine di porsi al di fuori dei confini
nazionali entro il tempo perentoriamente determinato nell’atto di
espulsione), l’obbligo da parte del Questore di ottenere nelle 48
ore successive alla adozione del decreto del Ministro degli Interni
o del Prefetto la convalida dell’esecuzione da parte del Tribunale
ordinario in veste monocratica.
Dunque il richiamo dell’art. 20 ter all’art. 20 bis D.Lgs. 30/2007 —
oltre che all’art. 20 già fatto oggetto del nostro studio — costituisce
l’obbligo da parte del Questore di comunicare al Tribunale per la
sua convalida anche l’esecuzione dell’allontanamento del cittadino
comunitario indagato o imputato, libero o in vinculis, ma solo dopo
il rilascio esplicito o implicito del nulla osta da parte della Autorità
giudiziaria competente per il processo penale che lo interessa (8).
L’incostituzionalità della normativa in parte qua per contrasto
con l’art. 3 della Carta Costituzionale non può essere messa in
discussione.
L’esecuzione del decreto di espulsione necessita della convalida
sia se i destinatari siano comunitari che di nazionalità al di fuori
della Unione europea: mentre per i primi, però, il passaggio giurisdizionale
è compiuto dinanzi il Tribunale ordinario, id est
innanzi un giudice togato, per i secondi è il giudice di pace,
quindi appartenente alla magistratura onoraria, a dare corpo alla
convalida. Il discrimen non è ragionevolmente fondato su nulla di
razionalmente e giuridicamente argomentabile. Per quale ordine
di motivi l’esecuzione del decreto di allontanamento, rectius di
espulsione, dei cittadini comunitari deve esser oggetto del vaglio
giurisdizionale di un giudice di carriera mentre l’esecuzione del
decreto relativo ad un extracomunitario di un giudice onorario?
La stessa questione di incostituzionalità si pone per i ricorsi
giurisdizionali avverso i decreti in sé e per sé, indipendentemente
dalla loro esecuzione. Alcune tipologie di provvedimenti di allontanamento
dei cittadini comunitari sono impugnate di fronte al
Tribunale ordinario in composizione monocratica ove ha sede
l’organo che le ha disposte (art. 22, comma 2, D.Lgs. 30/2007,
così come sostituito dall’art. 1, comma 1, lett. e), D.Lgs. 32/2008),
mentre i provvedimenti di espulsione dei cittadini non appartenenti
alla Unione Europea — emessi dal Prefetto nelle condizioni
previste dall’art. 13, comma 2, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 —
possono essere posti all’attenzione del giudice di pace (art. 13,
comma 8, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286).
Anche nel caso dei ricorsi giurisdizionali avverso i decreti di
espulsione, come nella ipotesi della convalida della esecuzione
degli stessi, si appalesa una inspiegabile differenza fra i cittadini
comunitari e quelli extracomunitari, i primi tutelati in sede giudiziaria
dal Tribunale ordinario in composizione monocratica, i
secondi dal giudice di pace che non è passato attraverso lo
scrutinio di un concorso pubblico.
Le impugnazioni in parte qua includono un’altra questione
giuridica, sempre di rilevanza costituzionale, di non poco
momento.
In primo luogo è opportuno evidenziare che il citato art. 22 al
comma 1 attribuisce al Tribunale Amministrativo del Lazio, sede
di Roma, la giurisdizione sui provvedimenti di allontanamento
per motivi di sicurezza dello Stato e per motivi di ordine
pubblico, mentre il comma secondo riconosce — come già
riportato — nel Tribunale ordinario in composizione monocratica
la giurisdizione sui provvedimenti di allontanamento per
motivi di pubblica sicurezza, per motivi imperativi di pubblica
sicurezza e per i motivi contenuti nell’art. 21 (9).
Appare prima facie di immediata percezione che i criteri di
ripartizione della giurisdizione fra T.A.R. Lazio e Tribunale
ordinario trovano il proprio fondamento sui motivi sottesi alla
emissione dell’atto espulsivo e non sulla Autorità che li ha
adottati, né sul tipo di materia su cui essi incidono, se non in via
residuale in virtù del riferimento dell’art. 22, comma 2, all’art. 21,
segnatamente al comma 1.
Esaminando la parallela normativa che disciplina le espulsioni
degli extracomunitari si può capire la anomalia di tale scelta.
La prima disciplina organica del settore si è manifestata con il
decreto legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni,
nella legge 28 febbraio 1990, n. 39, che all’art. 5, comma 3,
ammette il ricorso contro i provvedimenti di espulsione dal territorio
dello Stato e contro il diniego e la revoca del permesso di
soggiorno al Tribunale Amministrativo Regionale, che può essere
adito a prescindere se l’Autorità emittente sia il Ministro degli
Interni (art. 7, comma 5) o il Prefetto (art. 7, comma 4): ciò che
rileva è che oggetto della impugnativa sia un provvedimento di
espulsione o un diniego o una revoca del permesso di soggiorno.
La rivisitazione di questa legislazione è stata realizzata ad
opera della legge 6 marzo 1998, n. 40, assorbita poi nel Testo
Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione
e norme sulla condizione dello straniero (D.Lgs. 25 luglio
1998, n. 286) che, in ambito giurisdizionale, individua nel
Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, sede di Roma, il
giudice competente per i provvedimenti adottati dal Ministro
degli Interni per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello
Stato (ex art. 13, commi 1 e 11), mentre nel pretore (10)
l’Autorità giudiziaria a cui spetta iurisdicere sui decreti propri del
Prefetto nei settori a lui riconosciuti (ex art. 13, commi 2 e 8).
La legislazione sulle espulsioni delle persone di nazionalità non
comunitaria ha in prima battuta previsto una unica giurisdizione
amministrativa (T.A.R. del luogo del domicilio eletto dallo
straniero) — per chi scrive il criterio più conforme, anche attualmente,
alla Costituzione e alla giurisprudenza costituzionale e di
legittimità —; poi ha dicotomizzato le giurisdizioni in amministrativa
per i ricorsi avverso le espulsioni riferite al Ministro degli
Interni e in ordinaria (prima il pretore, poi il tribunale civile in
composizione monocratica e, infine, il giudice di pace) per le
impugnazioni contra i decreti emessi dal Prefetto. In questa
ultima evenienza si è riconosciuta al giudice ordinario una giurisdizione
piena ed esclusiva, prescindendosi dalla distinzione fra
diritti soggettivi e interessi legittimi lesi dalla azione autoritativa
pubblica, similmente a quanto previsto dall’art. 22 legge 24
novembre 1981, n. 689, che ha assegnato al pretore la competenza
sulle opposizioni alle ordinanze-ingiunzioni nel campo degli
illeciti amministrativi depenalizzati.
Confrontando quanto sino ad ora rappresentato con i criteri di
riparto della giurisdizione in seno alle espulsioni dei cittadini
della Unione Europea, così come indicati nell’art. 22, commi 1 e
2, D.Lgs. 30/2007, è di facile intendimento il terreno argilloso in
cui si è andato ad immettere il Legislatore.
La giurisdizione del T.A.R. o del Tribunale ordinario è individuata
unicamente in base ai motivi posti alla base della adozione
del provvedimento di allontanamento, indipendentemente dalla
materia (salva l’ipotesi ex art. 21, comma 1) o dal tipo di organo
pubblico che ha formulato l’atto impugnato.
Gli stessi motivi imperativi di pubblica sicurezza che incardinano
la giurisdizione ordinaria sono alla base di un provvedimento
del Ministro degli Interni se riferiti ai soggetti indicati
all’art. 20, comma 7; in caso contrario sono fondamenta di un
decreto prefettizio.
Non è oscuro capire — come già è stato affermato in precedenza
— la difficoltà di costituire paletti precisi fra le varie tipologie
di motivi, da cui dipende la instaurazione di giudizi aventi natura
completamente diversa fra di loro.
Il vulnus agli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione spicca maggiormente
nella attribuzione al Tribunale ordinario in composizione
monocratica di una giurisdizione su provvedimenti amministrativi,
adottati da Autorità amministrativa, incidenti su
interessi legittimi.
Mentre possiede un razionale fondamento giuridico l’opzione
legislativa di conferire al giudice di pace (11) la giurisdizione sui
ricorsi avverso i decreti prefettizi di espulsione dei cittadini extracomunitari,
in quanto la competenza è ristretta alle materie
elencate ex lege (art. 13, comma 2, T.U. immigrazione), anche in
ragione della indubbia interconnessione in esse fra diritti soggettivi
e interessi legittimi, tale opzione, in riferimento alle ipotesi
indicate nell’art. 22, comma 2, perde completamente di una ratio.
I provvedimenti di allontanamento, sia se adottati dal Ministro
degli Interni, sia se disposti dal Prefetto territorialmente competente,
sono manifestazioni di volontà aventi affioramento esterno,
provenienti da un organo della Pubblica Amministrazione
nell’esercizio di una attività amministrativa, funzionali al raggiungimento
del fine pubblico imposto dalla norma attributiva di
potere, posti in essere a conclusione di un procedimento amministrativo,
indirizzati a soggetti determinati: i motivi sottesi ad essi
ex art. 20, comma 1, sono una superfetazione che nulla rileva ai
fini del diritto amministrativo.
La giurisprudenza costituzionale e di legittimità può essere di
conforto per meglio comprendere la violazione degli artt. 24, 103
e 113 della Costituzione ad opera dell’art. 22, comma 2.
Le recenti sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione (12) e
del Consiglio di Stato (13) hanno confermato l’indirizzo giurisprudenziale
delle Supreme Corti ordinaria e amministrativa, in
linea con gli enunciati delle decisioni della Corte Costituzionale
191/2006 (14) e 204/2004 (15).
Il plesso giurisdizionale T.A.R. - Consiglio di Stato è il giudice
del potere pubblico, sicché è l’inerenza dell’attività contestata
all’esercizio di un potere autoritativo di natura pubblicistica a
radicarne la giurisdizione. La giurisdizione amministrativa
comprende ogni contesto caratterizzato dalla presenza della
funzione pubblica, anche in via mediata, che si esprime attraverso
un concreto esercizio del potere pubblico, riconoscibile per
tale in base al procedimento svolto e alle forme utilizzate, in consonanza
con le norme che lo regolano; la giurisdizione amministrativa
privilegia inequivocabilmente non la posizione giuridica
soggettiva attiva in sé e per sé (diritto soggettivo o interesse
legittimo), ma la considerazione della incidenza su di essa
dell’illegittimo esercizio della funzione pubblica, sia in via provvedimentale
che fattuale. La sentenza delle Sezioni Unite della
Cassazione 27187/2007 ha precisato che, anche in materia di
diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, come il diritto
alla salute e alla salubrità ambientale (16), allorché la loro lesione
sia dedotta come effetto di un comportamento o di un provvedimento
indirettamente o direttamente espressione di poteri autoritativi,
imperativi e unilaterali della Pubblica Amministrazione
di cui sia denunciata la illegittimità, la giurisdizione è demandata
al giudice amministrativo.
In conseguenza di un attento esame della giurisprudenza della
Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato, della Corte di Cassazione,
degli articoli 24, 103 e 113 della Costituzione, nonché
della stessa normativa in materia di immigrazione, risulta
fondato il dubbio di illegittimità costituzionale dell’art. 22,
comma 2, D.Lgs. 30/2007, così come sostituito dall’art. 1, comma
1, lett. e), D.Lgs. 32/2008. Il giudice ordinario ha la giurisdizione
sulle espulsioni dei soggetti comunitari, in base a criteri «incerti
e fumosi», correlati unicamente alla esistenza di alcuni motivi
invece che altri. I criteri di ripartizione della giurisdizione come
formulati dal decreto legislativo 32/2008 sono in netto contrasto
con quelli consolidati nella dottrina e nella giurisprudenza: i
provvedimenti di allontanamento hanno inequivocabile natura
amministrativa, in quanto espressione immediata e diretta di
Autorità centrali e periferiche appartenenti al potere pubblico e,
quindi, sono esplicitazione di una funzione autoritativa e unilaterale,
concludono un procedimento amministrativo e rientrano
nella categoria degli atti ablatori personali, sub specie di quelli
denominabili «ordini».
In conclusione, la giurisdizione non può che essere del T.A.R.
territorialmente competente, così come era correttamente
previsto dall’art. 5, comma 3, della c.d. legge «Martelli» (D.L.
416/1989, convertito nella legge 39/1990).
Prof. Fabrizio Giulimondi