giovedì 13 ottobre 2011

CONTROLLO ANALOGO E IN HOUSE GESTITO DA PIU’ COMUNI - NOTA DI AGGIORNAMENTO


Premessa - La quinta sezione del Consiglio di Stato, con la decisione 31 marzo – 26 agosto 2009 n. 5082 (Presidente Baccarini; relatore Caringella; Consorzio di Bacino 16 contro Comune di San Mauro e altri), ha posto un ulteriore tassello per definire la tormentata nozione di “controllo analogo”, indispensabile requisito che deve sussistere tra ente affidante e soggetto affidatario perché sia evitato il ricorso alla gara pubblica per la gestione “in house” del servizio pubblico: “ Ai fini della legittimità dell’affidamento in house di un servizio pubblico conferito a una società partecipata da più enti, il requisito del controllo analogo va verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico; è pertanto sufficiente che il controllo della mano pubblica sull’ente affidatario, purché effettivo e reale, sia esercitato dagli enti partecipanti nella loro totalità, senza che necessiti una verifica della posizione sociale di ogni ente.”.
La vicenda – Diversi comuni in provincia di Torino costituiscono un consorzio di bacino per il servizio di gestione urbana dei rifiuti, in applicazione della legge regionale del Piemonte del 24 ottobre 2002 n. 24 che disciplina in modo organico la materia, nei limiti delle competenze attribuite alle Regioni dal riformato titolo V della Costituzione.
Obiettivo della normativa regionale è di favorire economie di scala tramite la gestione associata dei servizi tra comuni servendosi obbligatoriamente di consorzi di bacino.
Il consorzio al quale partecipa il Comune di San Mauro Torinese delibera di conferire la titolarità dei servizi alla S.e.t.a. S.p.A, società totalmente partecipata dagli stessi comuni appartenenti a quel bacino.
Con l’approssimarsi del termine per l’affidamento del servizio, in considerazione dell’evoluzione della normativa di settore e degli ondeggiamenti della giurisprudenza comunitaria e nazionale, il Sindaco del Comune di San Mauro Torinese viene però assalito da alcune perplessità in merito alla possibilità di poter procedere legittimamente all’affidamento diretto.
S’innesca così una diatriba: da un lato il Comune di San Mauro Torinese che revoca la deliberazione con la quale aveva deciso di acquisire una quota di minoranza nella S.e.t.a. S.p.a.; dall’altro il Consorzio che, sicuro di avere dalla sua parte la legge regionale, impone d’autorità l’affidamento diretto alla S.e.t.a. S.p.a. anche per il servizio di igiene urbana nel Comune di San Mauro Torinese.
Quest’ultimo presenta, allora, ricorso al TAR Piemonte chiedendo l’annullamento delle deliberazioni assembleari del consorzio perché considerate lesive delle competenze comunali nel punto in cui intendono affidare il servizio senza gara pubblica.
Con la sentenza n. 3302/ 2007 il TAR Piemonte accoglie il ricorso, considerando illegittimo l’affidamento diretto per assenza, nel rapporto tra comune e società di gestione, del requisito del “controllo analogo” a quello che il primo avrebbe esercitato sulle proprie strutture.
Il consorzio non si rassegna e impugna davanti al Consiglio di Stato il quale con la sentenza in esame, dà ragione al comune.
L’in House providing In questa sede non è possibile affrontare con completezza il tema dell’affidamento in house, figura che non costituisce principio generale del nostro ordinamento ma, al contrario, ha carattere derogatorio ed eccezionale (decisione della Corte di Giustizia della Unione Europea del 18 novembre 1999 C 107/98 “Teckal”).
L’affidamento in house (o in house providing) si realizza quando l’ente locale decide di gestire il servizio pubblico in economia, evitando di rivolgersi al mercato con il metodo competitivo pubblico.
In genere, l’affidamento in house del servizio pubblico avviene tramite una società privata, avente distinta personalità giuridica, sulla quale tuttavia l’ente pubblico eserciti un controllo (in tutto e per tutto) analogo a quello condotto sulle proprie strutture interne.
Il problema si sposta nell’individuare esattamente la nozione di controllo analogo.
L’istituto dell’affidamento in house risale al Libro bianco del 1998 della Commissione Europea, il quale chiarì che gli appalti in house erano quelli aggiudicati all’interno della pubblica amministrazione, ad esempio tra amministrazione centrale e locale o, ancora, tra un amministrazione e una società interamente controllata.
Riguardo alla normativa nazionale, l’articolo 113, comma 5, lettera c) del Dlgs. n. 267/ 2000 (Testo Unico Enti Locali) – modificato sul punto dall’articolo 14, comma 1, del decreto legge 30 settembre 2003 n. 269, convertito con legge del 24 novembre 2003 n. 326 – chiarisce soltanto che, nel rispetto delle discipline di settore e della normativa comunitaria, l’erogazione del servizio può essere conferito anche a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulle società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano.
Secondo un significativo orientamento della giurisprudenza nazionale, l’istituto rischia di avere seri effetti distorsivi della concorrenza, il che impone di farvi ricorso solo in casi circoscritti (decisione del Consiglio della Giustizia della Sicilia n. 589/ 2006; TAR Bolzano 91/2007).
In particolare, perché possa procedersi a un affidamento in house, ad avviso del Consiglio di Stato devono ricorrere contestualmente le seguenti condizioni:
· partecipazione pubblica totalitaria al capitale sociale;
· esercizio di un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi;
· svolgimento da parte del soggetto affidatario della maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di appartenenza;
· esclusione della vocazione commerciale.
Proprio in applicazione dei sopraindicati criteri generali, il TAR Sardegna ( Sezione I, sentenza 27 marzo 2007 n.549) ha escluso che il richiesto controllo analogo possa sussistere in presenza di una partecipazione, anche minoritaria, di una impresa privata al capitale della società pubblica affidataria, come non è stata considerata coerente al requisito della partecipazione pubblica totalitaria una società la quale, benché a totale partecipazione pubblica, consentiva per statuto l’apertura a soci privati.
Parimenti, il giudice comunitario ha escluso il controllo analogo in tale ipotesi con la decisione della Corte di Giustizia della Unione Europea, sezione I, 11 gennaio 2005, in causa C-26/03.
Nell’ipotesi in cui, successivamente all’affidamento, vengano meno le condizioni indispensabili per l’affidamento in house (quali, ad esempio, la partecipazione pubblica totalitaria), la conseguenza non può che essere l’immediata decadenza dell’affidamento (TAR Napoli, sezione I, 2784/2005).
La sentenza del Consiglio di Stato 5082/2009– Il problema fondamentale della controversia è consistito nel verificare la sussistenza o meno del requisito del “controllo analogo” tra il comune che partecipa al consorzio obbligatorio e la società a totale partecipazione pubblica alla quale il consorzio si è rivolto per lo svolgimento del servizio.
Per risolvere il Consiglio di Stato si è posto il seguente quesito: in caso di affidamento in favore di società a totale partecipazione pubblica da parte di comuni consorziati, il controllo analogo dev’essere inteso separatamente con riferimento alla posizione di ciascuno degli enti comunali partecipanti (criterio atomistico) oppure è sufficiente che sia assunto dalla totalità dei soci, i quali al loro interno possono di volta in volta esprimere le maggioranze sufficienti e necessarie per il governo sociale (criterio sintetico).
Per la quinta sezione del Consiglio di Stato non ci sono dubbi nel preferire il criterio sintetico, confermando in questo modo l’orientamento già espresso dalla medesima sezione con la recente decisione 1365/2009.
Risolto il problema di carattere generale, nel caso in esame, il Consiglio di Stato ha escluso comunque che vi fosse un controllo analogo, pervenendo a questa conclusione sulla base dello Statuto sociale, che escludeva che il consorzio di bacino (ente affidante) ovvero, in adesione dell’approccio sintetico, gli enti comunali partecipanti avessero nei confronti degli organi sociali un potere di condizionamento delle strategie e della conduzione aziendale così incisivo da configurare il requisito del controllo analogo.
Le disposizioni statutarie consentivano infatti un significativo margine di autonomia alla società, libera di dare sfogo alla sua vocazione commerciale potendo sia operare senza limiti territoriali sia acquisire partecipazioni in altre compagini societarie.
Il Consiglio di Stato ha poi considerato ininfluenti le modifiche allo Statuto volte a potenziare l’ingerenza dell’assemblea ordinaria dei soci, e quindi dei comuni che la componevano, sul consiglio di amministrazione in sede di approvazione del budget. Tali modifiche, ove considerate, avrebbe avallato comportamenti elusivi tesi a sanare a posteriori affidamenti illegittimi, essendo intervenute successivamente all’approvazione della delibera consortile impugnata, in contrasto quindi con il principio comunitario dell’effetto utile, secondo cui le norme vanno applicate perché producano pratiche amministrative corrette.
Osservazioni finali - La pronuncia in esame – che conferma le conclusioni già tracciate dal Consiglio di Stato (in particolare, sentenza n.1365/ 2009) – è apprezzabile per lo schematico e esauriente tentativo di definire lo sfuggente concetto di “controllo analogo”, nonché per la disamina sul criterio atomistico e sintetico.
Nel caso di una pluralità di enti pubblici soci, il criterio cosiddetto “sintetico” preferito dal Consiglio di Stato su quello “atomistico”, trova autorevole sponda nella stessa giurisprudenza comunitaria (da ultimo sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 13 novembre 2008, C – 324 – 07 “Coditel Brabant SA”).
E’ corretto affermare che il criterio “atomistico” sarebbe l’unico che potrebbe testare in modo non ambiguo la sussistenza del “controllo analogo”, con riferimento alla situazione di ogni singolo ente, secondo la nozione restrittiva che la stessa giurisprudenza comunitaria si è affannata a definire.
Esso, tuttavia, rende oggettivamente impraticabile l’affidamento in house tra comuni consorziati, perché - è sin troppo evidente - quelli che detengono una partecipazione sociale minoritaria rischiano di essere sistematicamente esclusi dalle più importanti scelte strategiche della società, a meno che di non tentino il gioco delle alleanze che, comunque, avvantaggerebbe - di fatto - solo alcuni partecipanti a discapito di altri, rendendo la nozione di controllo analogo del tutto mobile e sfuggente.
Il criterio sintetico fatto proprio dal Consiglio di Stato ha invece il pregio di risolvere una serie di problemi legati alle dinamiche di governo e controllo della società, riconducendo il controllo analogo al metodo maggioritario in senso complessivo: prevale, in tal modo, più la dimensione “funzionale” rispetto a quella “dominicale”, guardando al miglior conseguimento dell’esercizio associato di un servizio pubblico.
V’ è, in ultimo, da compiere una ulteriore valutazione sulle linee dettate dalla decisione in esame: seppur la verifica sull’esistenza del “controllo analogo” sia legata ad un approccio sintetico, i giudici di Palazzo Spada richiedono anche particolari indagini sulla consistenza dei poteri conferiti dallo statuto ai soci partecipanti nei confronti degli organi sociali interni di amministrazione.
La commistione di elementi di pragmatismo con il criterio “sintetico” indubbiamente aiuta maggiormente ad individuare un “controllo analogo” più idoneo ad attingere il risultato che l’ordinamento si propone in subiecta materia.
 Fabrizio Giulimondi

NOTA DI AGGIORNAMENTO

L’art. 113 T.U.E.L. (Testo Unico degli Enti Locali – d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267) dispone che i servizi pubblici locali privi di rilevanza economica vengano affidati solo mediante procedure di affidamento diretto, ossia senza una procedura di gara, a  istituzioni, aziende speciali e società a capitale interamente pubblico (in house providing).
Invece, i servizi pubblici locali di rilevanza economica possono essere conferiti a: società di capitali (individuate con gara ad evidenza pubblica); società miste ( il cui socio privato è individuato con gara ad evidenza pubblica); società con capitale interamente pubblico (in house providing).
Tale ultima tipologia di società si diffonde come modello di gestione negli anni 90’ e rappresenta uno strumento di autoproduzione dei servizi, mediante il quale l’ente locale non ricorre al mercato, ma attinge a risorse proprie, conferendo il servizio a società che costituiscono una longa manus, una proiezione organizzativa dell’ente locale stesso.
In base ai principi derivanti dall’ordinamento comunitario, l’affidamento diretto del servizio, senza gara, ad un soggetto giuridicamente distinto dalla amministrazione affidante, è considerato legittimo.
Tuttavia, già con la sentenza Teckal c. Comune di Viano del 18 novembre 1999, causa-107/98, la Corte di Giustizia della Unione Europea ammette l’affidamento in house se ricorrono due condizioni: a) che l’ente pubblico eserciti sulla società affidataria un controllo analogo a quello esercitato dallo stesso sui propri servizi; b) che tale società realizzi la parte più importante della propria attività nei confronti dell’ente controllante.
L’art. 23 bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133, tentando di liberalizzare maggiormente il mercato, prevedeva che gli enti locali affidassero servizi pubblici di rilevanza economica, in via ordinaria, a: imprenditori o società in qualunque forma costituite, individuati mediante una procedura ad evidenza pubblica; società a partecipazione mista pubblica e privata,  in cui la parte privata doveva possedere una quota di capitale non inferiore al 40 % e doveva essere scelta mediante una gara ad evidenza pubblica.
In base a tale disposizione l’affidamento diretto ad una società in house costituiva solamente una eccezione, potendovisi ricorrere  unicamente quando, per particolari caratteristiche economiche, sociali e  ambientali del contesto territoriale di riferimento, non era possibile un efficace ed utile ricorso al mercato.
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (c.d. Antitrust) doveva esprimere un parere preventivo entro sessanta giorni dalla ricezione della relazione redatta dall’ente, mediante la quale venivano esposte le ragioni per cui si era provveduto ad un affidamento diretto, sottraendosi alle normali regole concorrenziali di mercato (procedure ad evidenza pubblica disciplinate dal codice dei contratti pubblici).Trascorso  inutilmente  il periodo il parere si riteneva reso.
Il citato art. 23 bis è stato abrogato dal referendum del giugno 2011.
L’art. 4 d.l 13 agosto 2011, n. 138, convertito in legge 14 settembre 2011, n. 148, ha sostanzialmente riprodotto, con qualche paletto in più, la abrogata norma.
L’art. 4 disponeva, infatti, che l’attribuzione dei diritti di esclusiva doveva avvenire sulla base di una analisi del mercato, all’esito della quale il Comune doveva adottare una delibera-quadro da inviare all’Autorità Antitrust ai fini della relazione che la stessa Autorità doveva fornire al Parlamento.
Tale prescrizione restava, però, esclusa per il servizio idrico integrato, per il servizio di distribuzione del gas naturale, di distribuzione dell’energia elettrica e per il servizio di trasporto ferroviario regionale.
La decisione della Corte Costituzionale del 20 luglio 2012, n. 199, ha dichiarato la illegittimità costituzionale del citata norma, per lezione  dell’art. 75 Cost. in tema di referendum abrogativo.
Il d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 135 (c.d. spending review), ha consentito l’affidamento diretto solo in favore di società a capitale interamente pubblico (società in house), per servizi di importo inferiore ad euro  200.000 annui.
Il d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito in legge 17 dicembre 2012, n. 221 (c.d. Decreto Crescita bis), ha disciplinato la possibilità di scegliere come modello di gestione dei servizi pubblici locali le società in parola, senza il limite di euro 200.000 annui precedentemente stabilito, con l’obbligo, però,  posto in capo all’ente affidante,  di pubblicare sul proprio sito istituzionale  una relazione che contenga le ragioni della scelta di tale forma di gestione e la sussistenza dei requisiti richiesti dalla Unione Europea, nel rispetto dei principi comunitari di parità di trattamento, economicità e informazione alla collettività.

L’art. 3 bis introdotto nel testo del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito in legge 14 settembre 2011, n. 148, in virtù del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in legge 24 marzo 2012, n. 27 (c.d. Cresci Italia),  indica, a partire dall’anno  2013,  come indice di “virtuosità” dell’ente locale, l’opzione  per le procedure ad evidenza pubblica, in luogo delle assegnazioni  dirette, per l’affidamento dei servizi; sottopone anche le società in house ai vincoli derivanti dal patto di stabilità interno; impone l’obbligo a tali società di acquistare beni e servizi secondo i dettami del codice degli appalti (d.lgs. 12 aprile  2006, n. 163), nonché nel  rispetto del d.lgs 30 marzo 2001, n. 165, in caso di assunzione di personale e di conferimento di incarichi.
La sentenza della Corte Costituzionale del 20 marzo 2013, n. 46, ha dichiarato inammissibili e non fondate le eccezioni di incostituzionalità sollevate in relazione all’art. 3 bis dalla Regione Veneto.
L’art. 1, comma 559,  legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità per l’anno 2014) ha abrogato il comma 5 dell’art. 3 bis in ordine all’assoggettamento al patto di stabilità interno delle società in house.

Fabrizio Giulimondi

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