mercoledì 2 novembre 2011

Una serena - e breve - riflessione sui Patti Civili di Solidarietà (PA.C.S.)

In attesa che i fautori della introduzione dei PA.C.S. («Patti Civili di Solidarietà») nell’ordinamento giuridico italiano forniscano argomentazioni di carattere giuridico e non soltanto ideologico ed emotivo-emozionale a supporto delle loro tesi, tenterò di sottoporre alla attenzione dei miei lettori un breve ragionamento, assolutamente laico, sul tema che mi sono proposto.
Per PA.C.S. si suole intendere gli accordi di natura civilistica stipulati innanzi al sindaco, al notaio o ad altro pubblico ufficiale da parte di coppie eterosessuali od omosessuali, conviventi
a qualsiasi titolo anche da un breve lasso di tempo, al fine di regolare alcuni aspetti del loro rapporto, segnatamente riconoscendo ai componenti della «coppia» diritti soggettivi di natura patrimoniale e non, similmente a quelli propri dei coniugi de iure.
In primo luogo è opportuno dividere le coppie di fatto in due categorie: quelle che non vogliono e quelle che non possono sposarsi.
Delle prime, non solo è opportuno, ma è doveroso che il diritto non si occupi: l’intenzione dei conviventi è esplicita e chiara, sostanziandosi nella volontà di non legarsi giuridicamente.
Non si comprende, pertanto, la ragione per la quale la legge dovrebbe far loro tale «violenza», creando un legame, sia pure flebile, in forza della stipulazione dei labili PA.C.S.. La
stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale ha ritenuto che la scelta fra il matrimonio civile o religioso e la convivenza appartiene alla libera autonomia decisionale della coppia e
qualsiasi applicazione in via analogica di elementi del rapporto di coniugio alla convivenza può risultare un vulnus a tale libera scelta. A quanto detto si può però eccepire che alcune coppie
escludono solo il matrimonio «tradizionale», non altre tipologie di riconoscimenti giuridici.
Se viene richiesta la istituzione dei PA.C.S. è proprio per consentire la fruizione di alcuni diritti — in genere di natura economica — che sono attualmente goduti solamente dalle coppie sposate. Ma la ragione per la quale tali diritti non sono riconosciuti ai conviventi more uxorio è che essi non hanno alcuna intenzione di assumere quei doveri a base dell’istituto matrimoniale, doveri dettagliatamente individuati dal codice civile.
Non si può non definire parassitaria l’intenzione di coloro che pretendono il riconoscimento pubblico della convivenza per ottenere diritti senza ottemperare reciprocamente ad
alcun dovere. Si verrebbe a creare un particolare tipo di rapporto giuridico in cui non vive l’ordinaria — e naturale — corrispettività fra diritti e doveri, ma la mera esistenza di reciproci diritti. Fra l’altro una parte dei diritti a cui i coniugi de facto aspirano come coppia possono essere ottenuti con il loro esercizio individuale. Non vi è pertanto alcun motivo per introdurre nuovi istituti nel tessuto connettivo ordinamentale giuscivilistico.
Il testamento è strumento adoperato proprio per trasmettere parte del proprio patrimonio a chiunque, salvaguardando ovviamente le categorie di familiari strettamente legate iure sanguinis
al defunto, tassativamente individuate dalla legislazione. Anche il contratto di donazione, unitamente alla costituzione delvincolo nato dalle obbligazioni naturali, vive in seno al rapporto
coniugale di fatto. Il contratto di locazione della abitazione di comune residenza può essere stipulato da entrambi i conviventi in modo tale che, in caso di decesso di uno dei due, l’altro possa
continuare ad abitare l’appartamento.
È di palmare evidenza che non sia vera la negazione di specifici diritti civili ai soggetti conviventi. La differenza rispetto al matrimonio «tradizionale» consiste nella attribuzione di diritti ai coniugi sposati come «coppia», non quindi solamente uti singulus ma anche uti socius, mentre in caso di convivenza i diritti possono essere attivati solamente uti singulus, ossia esercitati unicamente dai singoli componenti la coppia di fatto. Tale sistema di tutele è coerente con una comunità di vita priva di doveri vincolanti la coppia.
Passando a trattare delle coppie che non possono sposarsi, è opportuno precisare che esse possono essere suddivise in due sotto-categorie.
La prima è composta da coloro che non possono sposarsi per impedimenti transitori di ordine legale, come la minore età o l’attesa della sentenza di divorzio. Per queste coppie l’offerta dei
PA.C.S. risulta essere senza senso. Gli ostacoli giuridici che impediscono il matrimonio impediscono necessariamente anche la stipula dei PA.C.S..
La seconda sotto-categoria consiste nelle coppie che desidererebbero sposarsi, ma, per ragioni primariamente di natura economica, rinviano lo svolgimento delle nozze. I PA.C.S. non
risolvono certamente i loro problemi. Queste coppie non vogliono un «piccolo matrimonio», un «matrimonio allo stato fetale», «un matrimonio di serie B», bensì contrarre un matrimonio
vero: lo Stato ha il dovere di fornire tutti quegli aiuti economico-sociali, previsti anche dalla nostra Costituzione, atti a superare gli ostacoli che impediscono di contrarre il matrimonio.
Cosa resta delle istanze sociali alla base del riconoscimento dei PA.C.S.? Sembrerebbe nulla. A meno che dietro i PA.C.S. non si celi l’intento di conferire dignità giuridica al matrimonio fra omosessuali, nella sua versione embrionale nella nostra compagine giuridica, legislativa e sociale. Mi permetto solo di ricordare alcune disposizioni di rilievo costituzionale e internazionale che si frappongono con forza a tale animus. L’art. 29 della nostra Carta parla di famiglia e, per interpretazione giurisprudenziale cementificatasi (1) nei decenni, vi è famiglia solo fra un uomo e una donna che, in quanto appartenenti a sessi diversi, sono in grado potenzialmente di procreare
e costituire, quindi, un nucleo familiare formato da padre, madre e figli. Sulla stessa lunghezza d’onda sono: l’art. 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948; l’art. 12
della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del 1950, fatta propria dall’ordinamento italiano nel 1955; e, infine, l’art. 23 dei Patti Internazionali dei Diritti Civili e Politici del 1966.
Alla ontologica sterilità delle coppie omosessuali si vorrebbe far fronte riconoscendo anche a loro l’istituto della adozione. Pare che le consolidate argomentazioni scientifiche provenienti
dagli psicologi della età evolutiva (2) che affermano la assoluta necessità della presenza di genitori di sesso diverso per una corretta e sana crescita del bambino non scalfiscano le granitiche convinzioni degli «ideatori dei PA.C.S.». Solamente il padre (uomo) e la madre (donna), essendo portatori di una sensibilità, di esperienze e di una fisicità diverse ma nello stesso tempo straordinariamente complementari, sono in grado in maniera unica ed irripetibile di arricchire il patrimonio della personalità, della psiche e del carattere del figlio nella delicatissima
fase della crescita. Non posso che condividere in pieno quanto affermato dal
prof. Francesco D’Agostino, Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani: «Siamo tutti testimoni che si è aperta una partita decisiva… che ha per oggetto la famiglia e attraverso la
famiglia la stessa identità umana. La famiglia chiede di essere difesa: ma per difenderla non c’è bisogno di argomenti teologici o religiosi; bastano comuni argomenti umani, perché ciò che la
famiglia tutela e promuove è innanzitutto il bene umano».
Prof. Fabrizio Giulimondi

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