mercoledì 21 novembre 2012

CLAUDIO GIOVANNESI: ALI' HA GLI OCCHI AZZURRI



 
Alì ha gli occhi azzurri, opera seconda di Claudio Giovannesi, presente all’appena terminato Festival Internazionale del Cinema di Roma, non mi ha entusiasmato.
Lievemente pasolineggiante, sia per l’ambientazione della storia in una  anonima  periferia romana (buona parte di essa non è così,  ma alcuni Autori amano descriverla così!), sia per la presenza di alcuni personaggi con tinte lombrosiane, sia perché il titolo richiamante alcuni versi della poesia “Profezia” scritta da Pier Paolo Pasolini nel 1962  - e pubblicata nel 1964 nel volume “Poesia in forma di rosa”nei quali viene vagheggiata la massiva immigrazione nordafricana capeggiata da uno dei tanti Alì dagli occhi azzurri.
Nel racconto il nostro Alì è Nader, un ragazzo sedicenne di origine egiziana appartenente alla seconda generazione di immigrati, ossia nati o cresciuti in Italia da genitori extracomunitari.
Nader non è  né carne né pesce, invero è senza radici, perché  si sente italiano e vuol fare l’italiano adoperando un linguaggio volgare e romanaccio – cosa ben diversa dal romanesco – e rifiutando le direttive  religiose islamiche e i costumi del Paese  di provenienza dei genitori.  Nader si  ricorda di essere musulmano solo quando toglie il crocifisso  appeso alle pareti della propria aula  scolastica,  anche se  la sua tanto ostentata a familiari e amici occidentalità  viene subito meno  nel modo di rapportarsi con la sorella e la fidanzata italiana, uscendo prepotentemente fuori la propria  originaria cultura.
Interessante, a mio vedere,  è l’elemento che si manifesta nel corso della  visone del film: l’emarginazione in realtà non esiste, se la si intende nella accezione di atto discriminatorio condotto dagli “altri”, i componenti la comunità nativa. Qui in realtà abbiamo a che fare con  un caso (o, meglio, uno dei tanti casi) di autoemarginazione: Nader-Alì con le lenti a contatto di color azzurro per nascondere i propri tratti somatici si relaziona con il mondo esterno in una tale maniera che si emargina da solo. E’ la sua negazione delle radici,  il suo essere  né egiziano né italiano, né musulmano né altro, a renderlo – purtroppo come tanti al pari di lui  -  un disadattato.
 Questa volta però – e di questo ringrazio il regista – i colpevoli non siamo Noi…. e non è evento da poco!   
La “presa diretta”, ossia la recitazione effettuata dal vivo senza successive ripuliture del suono o intermediazioni tecnologiche,  rende la narrazione indubbiamente più vera (il lavoro, infatti, si inserisce a pieno titolo nel filone culturale del  neorealismo), seppur al termine della proiezione qualche effetto leggermente soporifero purtroppo lo determina.
Fabrizio Giulimondi

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