mercoledì 30 gennaio 2013

"BATMAN & JOKER, VOLTI E MASCHERE DELL'AMERICA" DI GIUSEPPE SACCO


“Batman & Joker, volti e maschere dell’America”, saggio di Giuseppe Sacco (Sankara editore), ossia come riuscire a fare politologia e sociologia attraverso Batman, uno dei più noti personaggi dei fumetti, reso ancor più celebre dal cinema, oltre che per mezzo del  suo più acerrimo nemico, il cattivissimo Joker.
Batman, a differenza del suo predecessore Supeman e dei suoi discendenti della Marvel (i Fantastici Quattro, Spider man, Thor, Devil, Capitan America, Iron Man), non è ascrivibile all’interno dei supereroi possessori di poteri ultra umani, ma combatte il Male con avveniristica tecnologia e astuzia, nascondendosi agli occhi umani con la famosa maschera da  pipistrello.
L’Autore (giornalista e professore ordinario di Relazioni Internazionali) esamina i fumetti e, ancor di più, le sette opere cinematografiche che hanno raccontato dal 1989 al 2012  le gesta dell’uomo- pipistrello, funestate nella  proiezione della “prima” de  “Il cavaliere oscuro” (settimo e ultimo film)  dalla strage il 20 luglio 2012 di dodici ragazzi e cinquantotto feriti per mano  di un pazzo, che ha sparato sulla folla che  entrava in una sala cinematografica del Colorado.  L’esame delle figure di Batman e Joker è minuzioso e dettagliato  e ne vengono vagliate  ogni piega caratteriale e psicologica, persino sotto una visuale di ordine sociale, politico e culturale.
Sullo sfondo v’è la versione gotica di New York, Gotham, espressione urbanistica e architettonica della oscurità, della perdizione, della violenza e della cattiveria, dove la speranza, nonostante le straordinarie  azioni del nostro eroe, sembra non intravedersi.
“Tutta la vicenda dell’uomo-pipistrello nasce dal profondo della società americana; le sue storie vengono create e sviluppate ad opera di vari scrittori e disegnatori di fumetti che progressivamente le accrescono di personaggi, di dettagli, di rimescolamenti e di varianti, come a disegnare un nuovo e specifico Pantheon, ed una mitologia in cui l’uomo americano, the common man, che vive nella società di massa può provare esempi e parametri di comportamento.”
“ Joker…..non è un assassino assetato di sangue, non è un sadico che gode nell’uccidere. E’ solo un narcisista indifferente alla vita umana. E la sua ambizione politica non si associa a nessuna visione di una società differente, come accade per altri antagonisti di Batman…la sua è solo una avventura personale di potere; l’unica ascesa concepibile in una società, quella rappresentata da Gotham, in piena decadenza, dove ‘ il denaro ha dichiarato guerra a tutti’.”
Le diverse sfaccettature di Batman nelle sette differenti rappresentazioni sul grande schermo, interpretate grandi attori sotto la direzioni di altrettanti famosi registi, unitamente a quelle di Joker  -  che non compare,  con la disperazione di molti suoi fan, nell’ultimo The Dark Knight Rises - ripercorrono la storia economica, finanziaria, istituzionale ed elettorale degli Stati Uniti dalla Grande Crisi del ‘29 ai giorni nostri (2012)
Il connubio fra comics, produzioni di azione e avventura, politica, sociologia e psicologia  può risultare, per i sofisticati e curiosi  amanti del genere,  un mixage interessante.

Fabrizio Giulimondi

lunedì 28 gennaio 2013

"LINCOLN" DI STEVEN SPIELBERG


 
E’ giunto il tempo di recensire il quarantaquattresimo lavoro del più grande regista di tutti i tempi, il gigante del cinema mondiale Steven Spielberg.
Lo statunitense Spielberg in veste di registra (44 film), sceneggiatore (12 film) e produttore (72 film) ha realizzato in maniera potente opere che hanno attraversato qualunque genere cinematografico, dalla fantascienza, all’horror, all’avventura, al drammatico, ai comics, allo storico, alla commedia e alla fiction.
Le serie da lui dirette sul piccolo schermo hanno trionfato a livello planetario: basti pensare a Colombo ed a  E R medici in prima linea.
I suoi film sono fra i più visti al mondo e pellicole come ET l’extraterrestre, Lo squalo, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Jurassic Park, Amistad, Schindler’s list, Salvate il soldato Ryan, Il colore viola, Poltergeist - demoniache presenze, Il principe d’Egitto, la saga di Indiana Jones sono senza discussione alcuna all’interno delle venti più viste fra tutte quelle prodotte dalla invenzione del  cinematografo ad oggi.
Steven Spielberg è vincitore di numerosi e prestigiosi premi internazionali a partire dalla plurima assegnazione di Oscar, a dodici dei quali (nomination) Lincoln è candidato.
L’opera in commento, nelle due ore e trenta minuti di narrazione tinte di grigio-scuro, ripercorre in maniera minuziosa, dettagliata e didascalica il secondo mandato presidenziale del sedicesimo Presidente degli Stati Uniti d’America e primo appartenente al Partito Repubblicano, Abraham Lincoln, nato il 12 febbraio 1809 e morto assassinato il 15 aprile 1865, unitamente all’ultimo periodo della guerra di secessione (detta anche guerra civile americana), dichiarata  il 12 aprile 1861 e terminata il 9 aprile 1865.
Il conflitto si determinò  ad opera degli  unionisti (gli Stati del Nord, ad elevata industrializzazione,  favorevoli alla abolizione della schiavitù delle popolazioni nere africane) avverso gli undici Stati del Sud (Stati Confederati d’America, prevalentemente agricoli, dediti allo schiavismo) che avevano dichiarato la propria secessione dai primi in risposta alla elezione di Lincoln come Presidente degli Stati Uniti d’America. 
Invero, questo film potremmo ritenerlo correttamente  il seguito di Amistad, girato  nel 1997, che ne anticipa il contenuto nella arringa che Anthony Hopkins  - interprete di John Quincy Adams, avvocato del gruppo di schiavi ammutinati sulla nave Amistad dopo vessazioni, violenze e ignominie di ogni tipo -  tiene innanzi la Corte Suprema degli Stati Uniti: “Se il prezzo da pagare per l’abolizione della schiavitù sarà una nuova guerra civile, ebbene che venga! Sarà l’ultima guerra della rivoluzione americana! Altrimenti possiamo prendere la nostra dichiarazione dei diritti e…” e strappa lentamente e vistosamente le carte che aveva in mano.   
Lo stesso avvio del film Lincoln  fatto di ferro,  fuoco e  sangue, ritraente  una delle tante battaglie della guerra civile americana, che contò 600.000 vittime, rimanda alle terrifiche scene iniziali di Salvate il soldato Ryan,  la cui  estrema  crudezza e realità impegnano lo spettatore per circa venti minuti nella mirabile riproduzione del D Day dello sbarco il Normandia il  6 giugno 1944.
Le linee direttrici di “Lincoln” richiamano alla memoria  anche Il colore viola sul tema dell’apartheid in Sudafrica e la possanza delle immagini senza precedenti di  Schindler’s  list sulla shoah.
Il film si concentra segnatamente  sullo sforzo – poi riuscito – di Lincoln di far approvare alla Camera dei Rappresentanti il XIII emendamento alla Costituzione, teso alla abolizione definitiva della schiavitù su tutto il territorio nazionale. Il tentativo è quello di farlo votare prima che si concluda la guerra, che stava volgendo chiaramente a favore degli Stati unionisti.
Spielberg fa comprendere all’attento spettatore le ragioni: in Lincoln v’era il fondato timore  che una volta vinta la guerra, cessasse la tensione morale sottesa ad essa, con il conseguente rischio che l’iter legislativo di approvazione della disposizione di abrogazione della riduzione in schiavitù si impantanasse, attesa anche la necessità di imporre una  normativa abolizionista, già esaminata positivamente dal Congresso,  agli sconfitti Paesi schiavisti del Sud.
L’obiettivo è arduo e Lincoln dimostra di essere un politico abile che non bada ad utilizzare  qualsivoglia mezzo – incluso la offerta di prebende e prestigiosi incarichi  pubblici – pur di portare  su tesi abolizioniste alcuni riottosi deputati del suo partito e parte dei democratici,  favorevoli in realtà  al mantenimento, seppur  in forma più umana, della schiavitù. Il risultato da attingere ad ogni costo è la maggioranza dei due terzi dei componenti della House of Representatives: tutti i membri del gruppo parlamentare dei repubblicani ed alcuni di quello democratico debbono pronunziare il fatidico al momento della votazione della modifica costituzionale.
Il Senato aveva già approvato  l'emendamento aggiuntivo alla Costituzione (XIII emendamento) l'8 aprile 1864, con 36 voti a favore e 6 contrari. Però,  una volta che il suo scrutinio  passò all’altro ramo del Congresso, sorsero  i problemi, con il suo respingimento da parte dell’Aula.
Solamente a seguito della sua riproposizione, sotto l’attenta supervisione del Presidente Lincoln e l’utilizzo da parte di questi dei cennati trucchetti e arguzie,  il 31 gennaio 1865, dopo  una battaglia infuocata con momenti di alta tensione fra appartenenti alle  wright e left wings e in seno, persino,  alle  medesime,  la Camera approvò il testo  con 119 voti a favore e 56 contrari: la schiavitù era definitivamente abolita!
Manca però un ultimo passaggio: la  ratifica del testo da parte degli Stati.
Con apparente pacatezza e visibile determinazione Lincoln - mirabilmente incarnato da Daniel Day-Lewis,  che ne esprime anche nelle pieghe più intime le  profonde concezioni umane e cristiane, sino a far sentire alla platea l’amore che il popolo americano nutriva per lui  -  nel ricevere la delegazione degli Sati secessionisti del Sud che vengono a trattare la resa, fa capire loro senza giri di parole che la Storia si è compiuta e l’umanità non può tornare più indietro: capitolazione immediata degli eserciti sudisti e repentina riammissione a pieno titolo nel tessuto ordinamentale degli Stati Uniti d’America di quelli  secessionisti,  previa ineludibile  accettazione della abolizione della schiavitù e, pertanto, promovimento della ratifica della proposta emendativa da parte anche  dei loro governi territoriali.
Il  Segretario  di  Stato William H. Seward formalizzò l'avvenuta ratifica il 18 dicembre 1865 del XIII emendamento che recita in siffatta maniera: ” Sezione I: La schiavitù o altra forma di costrizione personale non potranno essere ammesse negli Stati Uniti, o in luogo alcuno soggetto alla loro giurisdizione, se non come punizione di un reato per il quale l'imputato sia stato dichiarato colpevole con la dovuta procedura.
Sezione II: II Congresso ha facoltà di porre in essere la legislazione opportuna per dare esecuzione a questo Articolo
Verso la conclusione della proiezione, durante la commossa lettura di queste poche ma copernicane righe, mi sono riecheggiate  le parole di Abraham Lincoln  e di Martin Luther King.
«…..Or sono sedici lustri e sette anni che i nostri avi costruirono su questo continente una nuova nazione, concepita nella Libertà e votata al principio che tutti gli uomini sono creati uguali. Adesso noi siamo impegnati in una grande guerra civile, la quale proverà se quella nazione, o ogni altra nazione, così concepita e così votata, possa a lungo perdurare”…. e ancora Lincoln, sempre il 19 novembre 1863,  alla cerimonia di inaugurazione del cimitero militare di Gettysburg (oggi il  Gettysburg National Cemetary):“… che noi qui solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano; che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo di popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra. 
E potente è l’invocazione che il reverendo  Marthin Luther King il 28 dicembre 1963 lanciò durante la marcia per il lavoro e la libertà davanti al Lincoln Memorial di Washington: “….E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: ‘Liberi finalmente, liberi finalmente, grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente!’.”.

Fabrizio Giulimondi







venerdì 25 gennaio 2013

CARMINE ABATE:"LA FESTA DEL RITORNO"


Carmine Abate, vincitore del premio Campiello 2012 con ”La collina del vento”, nel 2004 ha scritto “La festa del ritorno” (Oscar Mondadori), novella amarcord di sapore felliniano, fra italiano, dialetto calabrese e lingua arbereshe (idioma albanese diffuso in alcune zone del Meridione), parla  di ricordi, di nostalgiche descrizioni di paesaggi e boschi calabresi, di profumi e sapori dimenticati di quelle Terre.
Come ne La Collina del vento, vengono  raccontate  la vita di una umile famiglia di campagna e le vicissitudini del pater familias emigrante in Francia, con il cuore sempre vicino a quello della moglie - che passa il tempo  ai fornelli per preparare le prelibatezze che il marito dovrà gustare al suo ritorno -   e dei tre figli -   che attendono spasmodicamente di rivedere il  padre ogni Natale - .
Il  Natale è la festa della unità familiare e delle tradizioni: “ La sera della Vigilia, dice l’emigrato ai famigliari lontani in una canzone popolare, a tavola mettete il piatto mio” (Marcello Veneziani,  “Dio, Patria e Famiglia”).
E’ qui che l’Autore tocca corde vibranti di toccante commozione e raggiunge elevati livelli  emozionali.
Vi sembrerà di sentire sulla Vostra pelle il calore del grande fuoco che viene acceso la notte del 24 dicembre dinanzi la Chiesa del paese, in attesa della messa di mezzanotte e dello stupore che susciterà il  presepe vivente.
Anche Voi siederete  intorno al fuoco insieme al resto della Comunità, che nello  scambiarsi gli auguri dirà a se stessa: “la lontananza non ci ha separato!”.

Fabrizio Giulimondi.

mercoledì 23 gennaio 2013

FABRIZIO GIULIMONDI:INAUGURAZIONE ANNO ACCADEMICO 2013

inaugurazione anno accademico 2012/2013



24 GENNAIO 2013: INAUGURAZIONE DELL'ANNO ACCADEMICO 2013 DELLA UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CHIETI-PESCARA "GABRIELE d'ANNUNZIO"

prof. Fabrizio Giulimondi

martedì 22 gennaio 2013

RAUL MONTANARI:"IL TEMPO DELL'INNOCENZA"


Il tempo dell'innocenza di Raul Montanari (Delai editore) ha un incipit ad alta tensione, con una spruzzata di autentica paura che si sprigiona nei lettori nelle prime cinquanta pagine, per poi diluirsi in suspance e attesa degli eventi, come quei film dell’orrore che con lunghe carrellate di corridoi fanno stare in trepidazione lo spettatore, spaventato da quello che lo aspetta al voltar dell’angolo.
Montanari è il padre del genere post noir, ossia il giallo a tinte thriller senza detective né  indagini accurate, arricchito in questo romanzo dalla presenza di elementi magici.
La storia si dipana fra Milano, Bergamo e il lago d’Iseo e vede tre ragazzi, Damiano, Ivan e Ermanno, coinvolti da un presagio di Regine, la madre di quest’ultimo, le cui doti divinatorie le mostrano un terribile futuro per il figlio e conseguenze dirompenti per le esistenze degli altri due, oltre delle intriganti figure, soprattutto femminili, che roteano intorno a loro.
La strega adopera le rune (in lingua gotica: cose segrete) per predire gli accadimenti, ossia  ventiquattro segni dell’alfabeto, più uno che non porta alcun  simbolo,  di origine vichinga, teutonica e celtica, indicati con i nomi di antiche divinità nordeuropee.
Avvincente e misterioso “Il tempo dell’innocenza”  prende completamente il lettore, che   si divora in poche ore le pagine fino all’inatteso finale.
Spiace la nota stonata – tra l’altro non consentanea alla natura e al contenuto stesso del lavoro in commento -  causata da vetero pregiudizi politico-laicisti che talora si palesa fra le righe del libro, per colpa della quale compare inspiegabilmente e spregiativamente il nome di Berlusconi in una bella descrizione di stile manzoniano del lago d’Iseo; vengono assegnati nella trama  i ruoli più infamanti  a coloro che l’Autore dipinge con tratti inevitabilmente riconducibili all’area destroide; e, sono inseriti i sacerdoti – tutti o quasi -  fra coloro che solitamente berciano con il potente di turno.
Peccato tanta miopia in un racconto che merita di essere senz’altro letto!

Fabrizio Giulimondi

domenica 20 gennaio 2013

"STONER" DI JOHN WILLIAMS


Stoner
Stoner dello scrittore texano John Williams (Fazi editore) è un libro bello e struggente, molto bello e molto struggente.

E’ un romanzo intimistico e introspettivo, ambientato nella prima metà del ‘900 a Columbia, capitale del South Caroline.

E’ un capolavoro dalle splendide descrizioni, attente e minuziose, delle persone, delle loro movenze e del loro mondo interiore, degli oggetti e dei luoghi.

E’ l’opera letteraria la cui ossatura è la tristezza, la lirica della tristezza.

William Stoner, contadino da fanciullo, studioso di letteratura anglo-americana da ragazzo e, poi, per quarata anni, immutabile ricercatore presso l’università, è avviluppato dalla tristezza. Neanche la sua passione per i libri fuoriesce nelle sue aride lezioni,  costellate da parole dure come pietre (pietra in inglese stone, non un caso il cognome Stoner), pronunziate durante le pedanti spiegazioni.

Stoner è martirizzato nella vita privata dalla moglie Edith, figura tragica, costantemente in bilico fra fragilità caratteriale e patologia psichica e, nella vita professionale, dal direttore del suo dipartimento accademico, le cui angherie punteggiano tutta la storia.

La figlia Grace, così amata dal protagonista ma da lui medesimo in realtà abbandonata a sé stessa, scivolerà lentamente ma inesorabilmente verso l’alcolismo.

Stoner conoscerà uno sprazzo di felicità con l’amante Katherine, giovane neo laureata che muove i primi passi lavorativi nel campo dell’insegnamento presso l’ateneo di Columbia: “ Siamo stati felici, vero?....”Eravamo felici, più felici di chiunque altro. Fino all’inevitabile futuro….e contemplò con incommensurabile tristezza quel loro ultimo sforzo di sorridere che assomigliava alla danza della vita su un corpo morto.”

Alla gioia è concesso poco tempo e la tristezza e il dramma prenderà fatalmente e definitivamente possesso del racconto, fino alla morte di Stoner: le parole da egli spese nel parlare degli  ultimi  istanti della sua esistenza  sono di rara e commovente bellezza.

Peter Cameron nella postfazione afferma: ”E la verità è che si possono scrivere dei pessimi romanzi su delle vite emozionanti e che la vita più silenziosa, se esaminata con affetto, compassione e grande cura, può fruttare una straordinaria messe letteraria. E’ il caso che abbiamo davanti.”.

Ultime due  annotazioni.

L’uso dei vocaboli è affascinante: l’Autore ama molto il verbo baluginare e l’aggettivo feroce, reiteratamente adoperati nel corso della scrittura, al pari dell’utilizzo di espressioni configurate in lingua italiana dalla fusione  di più parole inglesi, come l’italica bovindo, ossia la finestra a loggia sporgente, conseguente alla traduzione della combinazione dei termini anglosassoni bow e window.

Accattivanti i richiami alle vicende storiche che coinvolsero gli Stati Uniti durante la prima e seconda guerra mondiale, oltre i riferimenti approfonditi e puntuali alla letteratura britannica e nordamericana.

Fabrizio Giulimondi.

sabato 19 gennaio 2013

"MAI STATI UNITI" DI CARLO VANZINA




Mai Stati Uniti di Carlo Vanzina, con facce note del cinema italiano come Ricky Menphis, Ambra Angiolini, Vincenzo Salemme e Maurizio Mattioli, fa passare una ora e mezza senza pensieri  alle famiglie (a parte il solito condimento di male parole).
I cinque protagonisti, tre uomini e due donne, che sconoscono l’uno l’esistenza dell’altro, sono convocati da un notaio - un po’ mariuolo – che rivela loro di essere fratelli dal lato del padre, morto e le cui ceneri sono dentro un’urna: se questa sarà portata in uno specifico  posto del Grand Canyon per essere svuotata nelle acque di un fiume, riceveranno ciascuno di essi una ingente somma di denaro a titolo di eredità.
Nel solco della  tradizione della commedia all’italiana, con una punta di sentimentalismo e molte gheg con  conseguenti risate di gusto, “Mai Stati Uniti vale il costo del biglietto.
Colonna sonora country non male.

Fabrizio Giulimondi

mercoledì 16 gennaio 2013

MO YAN, PREMIO NOBEL 2012 PER LA LETTERATURA: "LE SEI REINCARNAZIONI DI XIMEN NAO"


Le sei reincarnazioni di Ximen Nao

Mo Yan (il cui significato è riconducibile a “non parlare”), pseudonimo dello scrittore e sceneggiatore Guan Moye, è nato in Cina, nella provincia dello Shandong, da una famiglia di contadini, il 17 febbraio 1955. Per molti anni ha lavorato al dipartimento culturale delle forze armate della Repubblica Popolare. Ha scritto numerose opere narrative, fra cui i romanzi, i racconti  e le novelle di maggior pregio sono Sorgo Rosso (1997), L’uomo che allevava i gatti (1997), Grande seno, fianchi larghi (2002) e Il supplizio del legno di sandalo (2005). Nello stesso anno ha vinto il premio  Nonino per la letteratura internazionale.
Nel 2012 gli è stato assegnato il Nobel per la letteratura.
Le sei reincarnazioni di Ximen Nao (Einaudi editore), è un lavoro corposo formato da 730 pagine, cinque parti e cinquantotto capitoli, che immerge il lettore per tutta la durata del libro in un mondo fisico e metafisico molto più distante delle reali latitudini spaziali e lontananze temporali.
Primo gennaio del 1950: Ximen Nao, un ricco proprietario terriero, è stato giustiziato dai suoi mezzadri alla vigilia della rivoluzione comunista cinese condotta da Mao Zetong (26 dicembre 1893 - 9 settembre 1976). Da due anni vive nel mondo delle tenebre. Sebbene subisca i più dolorosi e crudeli supplizi, rifiuta di pentirsi: è convinto di avere avuto una vita giusta e di essere stato immeritatamente condannato. Re Yama, il terrifico signore della morte, stufo di lui,  gli conferisce la possibilità di reincarnarsi nei luoghi ove ha vissuto la sua vita terrena. Ximen Nao crede di poter riprendere possesso della moglie, delle due concubine, della terra e degli altri suoi averi. In realtà il suo corpo rinascerà animale e prenderà le sembianze, nell'arco di cinquanta anni, di un asino, di un toro, di un maiale, di un cane e, infine, di una scimmia.
Seppur collocato ad un livello inferiore della gerarchia delle forme di vita in seno alla natura, Ximen Nao mantiene un ruolo di protagonista e di “capo” nelle sue diversificate vestigia animali, non cessando mai di essere l’unico e il vero dominus del romanzo.
Al momento di congedarsi dagli inferi e di tornare nel nostro mondo, Ximen Nao si rifiuta di bere una pozione che gli consentirebbe di dimenticare il passato e di liberarsi progressivamente delle pulsioni umane, del desiderio, dell’odio, della sete di vendetta: vuole che  le esperienze avute come  essere umano rimangano saldamente impresse nella sua memoria di bestia.
Giungerà il momento in cui re Yama  consentirà a lui di riassumere l’aspetto di uomo: il 31 dicembre del 2000, la notte che vedrà la nascita del nuovo millennio, nascerà un bambino di nome Lan Qiansui (translitterato: Lan mille anni), con un corpo piccolo e magro e la testa insolitamente grande, una memoria eccellente e una parlantina sciolta. È il “bambino dalla testa grossa” che il giorno del suo quinto compleanno incomincerà la narrazione della propria esistenza dal primo gennaio 1950.
Lan Qiansui è la sesta e ultima reincarnazione di Ximen Nao: il cammino di liberazione dal fardello del rancore è stato completato e re Yama ha consentito che egli riacquistasse fattezze umane.
Il racconto  è di grande effetto e pieno di spunti di notevole interesse intellettuale.
Ogni pagina è pregna di detti e adagi popolari, leggende, concezioni filosofiche ed esistenziali orientali, di motti, proverbi e saggezza cinese, di usanze matrimoniali e funerarie e consuetudini locali, di credenze mediche e pratiche farmacologiche, di principi buddisti e pensieri confuciani, di teorie marxiste-leniniste ed interpretazioni ideologiche maoiste,  di costumi sociali e storie di vita rurale quotidiana, di descrizioni della struttura economica socialista e dell’ordinamento verticistico del partito comunista cinese a livello centrale  e periferico.
Ogni pagina palesa l’opulenza dei gerarchi di partito rispetto alle misere prospettive delle miriadi di agricoltori, allevatori ed operai, obbligatoriamente astretti fra di loro in comuni e alle loro anonime ed umili abitazioni tutte eguali, con il mobilio marcescente e l’aria di cui il lettore ne respira  chiaramente la polverosità.
Ogni pagina dipinge la campagna similmente ad una pittura facendone sentire l’intensità dei profumi. Da ognuna di esse trapelano cultura, tradizioni e mentalità contadina e filtrano gli effluvi delle frittelle cucinate nelle strade e l’afrore delle case, il ticchettio delle scarpette folcloristiche femminili dell’estremo oriente, il tamburellare secco degli zoccoli agresti maschili, il clangore, la confusione e l’inquinamento dei grandi centri urbani, dove si muovono disordinatamente masse di persone come pulviscolo nel vento. L’odore delle eroine del romanzo  si propaga, facendo  immaginare il  loro  modo di vestire e la particolarità dell’acconciatura dei capelli; parimenti affascinante è il trattamento che ogni pagina riserva agli uomini, abbondantemente descritti nella loro fisicità e nella loro maniera di fare, di comportarsi e di manifestare le proprie abitudini, ponendoli a confronto con l’altra metà del cielo.
Il sottofondo di ogni pagina è la nenia provocata dagli strumenti musicali tipici e di antica fattura, con sonorità talora tediose, mentre le medesime pagine  scandagliano la famosa ars culinaria con gli occhi a mandorla che trasforma in pietanza qualsivoglia vivente, bipede o quadrupede che sia, eccettuati ovviamente gli ominidi.
Ogni pagina è ricca della geografia dei luoghi, generosa nella rappresentazione della  flora che adorna i paesaggi del Paese dei fiori di loto  con un variopinto florilegio di piante, boccioli e corolle, sempre attenta ad ogni genere di animale e ai molteplici aspetti faunistici, non disattendendo le metodologie di coltivazione degli appezzamenti di terreno e le tecniche di allevamento del bestiame.
Ogni pagina esalta teneri rapporti familiari e coniugali e forti vincoli solidaristici familiari.
Numerosi sono i riferimenti ad opere letterarie, teatrali e  cinematografiche dell’epoca rivoluzionaria, inclusi i continui richiami (finzioni artistiche? stratagemmi? artifizi letterari?) agli  scritti -  di cui vengono riportati interi brani - dello stesso Mo Yan, che assume nella storia le vesti di un  onnipresente personaggio, con caratteristiche professionali (e umane?) identiche allo stesso Autore, un po’ antipatico, primo della classe e pedante.
Non solo: anche la grande letteratura russa viene presa in esame, come quella rappresentata da Il placido Don di Michail Solochov, attraverso il quale il Premio Nobel descrive potentemente lo strazio dell’innamorato che perde all’improvviso la propria  amata.
L’approccio favolistico ricorda Erodoto, la visuale è fantasiosa e l’ottica visionaria  fa pendant con i grandi cineasti cinesi e giapponesi. Lunghi periodi legano scene ivi descritte di particolare intensità erotica ad alcune immagini della pellicola L’impero dei sensi del recentemente scomparso regista giapponese Nagisa Oshima, immagini  che appaiono fugacemente in chi legge come sprazzi, quasi subliminari, di ricordi.
Viene ripercorsa la storia della Cina - con il supporto di chiare note esplicative  a piè di pagina e di minute sintesi nel prologo di ogni capitolo -  dalle prime dinastie antecedenti alla nascita di  Cristo; alle due guerre cino-giapponesi (1894-1895; 1937-1945); all’era comunista maoista, sorta con la sconfitta nel 1949 a Nanchino ad opera dell’esercito di liberazione popolare guidato da Mao delle milizie condotte da Chiang  Kai-shek, leader del Partito Nazionalista del Kuomintang, diventato poi il movimento di maggioranza che ha governato per anni Formosa (oggi Repubblica di Cina su Taiwan); alla guerra di Corea (1950-1953) e  alla rivoluzione culturale (1967-1969), al termine della quale ha trionfato la tradizione ortodossa maoista su quella maggiormente “riformista” di Deng Xiaping, nuovo segretario del partito comunista cinese nel 1978, dopo il breve interregno biennale di Hua Guofeng (1976-1978),  conseguente alla  morte di Mao il 9 settembre 1976. Il dittatore- tiranno - fatherland ha lasciato decine di milioni di morti alle sue spalle a cagione dei  laodai, i campi di lavoro e di rieducazione sorti nel 1957 su tutto il territorio nazionale (di cui in questi giorni il Governo cinese ne sta ponderando la chiusura), affini  ai Gulag sovietici e ai lager nazisti, oltre che a seguito delle scellerate e criminali politiche agricole e della forzata industrializzazione realizzata manu militari. Mo Yan, degli orrori di quella stagione,  ne parla in penombra, soffusamente, velatamente.
Gli ultimi capitoli si ambientano in una Cina bifronte sul piano sociale, fra modernità e feudalesimo, centaura sotto l’aspetto economico, tra capitalismo e socialismo reale, saldamente totalitaria a livello politico-governativo.
Un cupo moralismo fa da scenario alle vicende di tutti gli attori che si affacciano, anche secondariamente, nella trama, implementato, invece che ridotto, dall’avvento del sol dell’avvenire.
Il finale è delicatamente poetico, dolcemente drammatico, malinconicamente triste, reso tenuamente crepuscolare da un tramonto nascosto – se presterete attenzione -  fra le pieghe delle parole e delle righe.

Fabrizio Giulimondi

venerdì 11 gennaio 2013

FABRIZIO GIULIMONDI VI INVITA ALLA MOSTRA "ANIME DI MATERIA"


Quando strumenti di morte si trasformano in Arte    (Fabrizio Giulimondi)

immagine mostra wak wak

ANIME DI MATERIA

La Libia di Ali WakWak


Roma, Complesso del Vittoriano
Gipsoteca
Piazza dell’Ara Coeli, 1

16 gennaio - 28 febbraio 2013



“Anime di materia” è la suggestione con cui l’artista libico Ali WakWak ha voluto accogliere quanti entreranno in contatto con le sue opere per presentare la realtà della nuova Libia. La mostra, che sarà ospitata al Complesso del Vittoriano dal 16 gennaio al 28 febbraio 2013, si prefigge di presentare l’universo artistico del più importante scultore libico contemporaneo attraverso una quarantina di sculture di grandi dimensioni realizzate a partire dall’aprile 2011, due mesi dopo la rivolta libica, con elmetti, armi da fuoco, munizioni, utensili bellici, che diventano figure antropomorfe e zoomorfe.
“Ossessionato dalle immagini della guerra, Ali WakWak cerca di ricreare la vita dalla morte attraverso i resti di mezzi e armi trovati sul fronte; bossoli, fucili, mitragliatori, veicoli militari, serbatoi. […] Così si ricrea vita dalla morte. Tutto il suo lavoro è incentrato sulla rinascita dopo la distruzione, come ricostruire un Paese, noi stessi, attraverso lo stesso materiale - ora bruciato, rotto, divelto - che ha causato la morte dei nostri simili. Come questa stessa materia, non modificata ma solo plasmata attraverso gli occhi dell’artista, di colui che ama – può riprendere vita e divenire un qualcosa di diverso, di bello, un messaggio di fiducia nel futuro” (Elena Croci).

La mostra è promossa da Health Ricerca e Sviluppo, spin-off dell’Università di Bologna impegnata nel settore scientifico sanitario, in collaborazione con Camera di Commercio di Roma e si avvale del patrocinio del Ministero degli Affari Esteri, del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, della Presidenza della Regione Lazio e di Roma Capitale, nonché del Ministero degli Esteri, del Ministero della Cultura di Libia, Charity Libyan Disable e il King Senussi’s Castle Museum di Bengasi. L’esposizione è sostenuta da Eni ed è organizzata e realizzata da Comunicare Organizzando. La curatela è di Elena Croci.

L’importanza non solo culturale, ma anche diplomatico-relazionale della mostra, è segnalata dal vivo interesse dimostrato da istituzioni più o meno esterne al mondo dell’arte, che hanno deciso di fornire il loro contributo attivo per la sua realizzazione. Secondo il Sindaco di Roma Capitale, on. Gianni Alemanno, “il significato dell’iniziativa non è di carattere unidimensionale, ossia esclusivamente artistico-culturale, ma va rintracciato nell’enorme potenzialità che tradizionalmente l’arte possiede nel costituire un vettore per permettere l’attivazione - o il rilancio - dei rapporti tra i gruppi umani, in particolare quelli degli Stati. Anime di materia assume, quindi, un aspetto bidimensionale in quanto a latere delle emozioni suscitate dalle opere di Ali WakWak, costituisce un momento nevralgico per ritessere le fila dei rapporti tra l’Italia e la Libia, dalla cui condizione dipende non solo il benessere di due popoli, ma la stabilità dell’intera macro-regione del Mar Mediterraneo”.
La partecipazione alla presentazione della mostra del Pro Rettore per la Cooperazione e i rapporti internazionali di “Sapienza” Università di Roma, Antonello Folco Biagini, interviene a conferma dell’interesse della comunità scientifica del più grande Ateneo d’Europa per “una terra come la Libia i cui destini, senza voler andare a scavare troppo nei secoli, durante il XX e il XXI secolo si sono continuamente intrecciati con quelli dell’Italia. Una casualità della storia - ricorda Biagini - ha voluto che il cambio di direzione impresso dalla rivoluzione del 2011 abbia preso forma proprio nell’anno del centenario della guerra italo-turca, che portò alla creazione della Libia come soggetto politico unitario. Si tratta di un mutamento radicale che deve costituire un’opportunità per le relazioni tra le due sponde del Mediterraneo non solo in settori tradizionali - come quello della sicurezza e dell’energia - ma anche in campi dove esistono potenzialità ancora non del tutto espresse come quello della conservazione dei beni culturali, della medicina e dell’innovazione scientifica”.
Quindi una sinergia tra attori pubblici e privati perché, come ha commentato Giorgio Noera (Hrs): Ali WakWak ci ha dato lo strumento contagioso per accendere la sensibilità e creare alleanze fuori dagli schemi conosciuti”.

Obiettivi

Dal campo della cultura e dei rapporti individuali, passando per gli scambi commerciali e la cooperazione internazionale, per arrivare alla dimensione politico-diplomatica, la “nuova Italia” e la “nuova Libia” mantengono un minimo comun denominatore fondamentale con il passato: la posizione centrale nel Mediterraneo.
Costituendo la via preferenziale per la comunicazione tra Estremo e Medio oriente, Europa e costa atlantica delle Americhe, l’ordine nei Paesi che si affacciano su questo Mare risulta determinante per gli equilibri mondiali. Lo stato dei rapporti tra Italia e Libia, di conseguenza, assume un’importanza centrale sia a livello regionale che a livello globale. Il rilancio dei nostri rapporti in tutte le dimensioni si può tradurre nel gettare le basi per la nascita di un “nuovo Mediterraneo”, che rappresenti uno dei tasselli fondamentali per la stabilità mondiale.


La mostra

Il lavoro di Ali WakWak restituisce anima alla materia, trasformando oggetti di morte in bellezza e rinascita. Ali WakWak da sempre si serve del legno e del ferro per raccontare la sua passione, il suo pathos, la sua affezione dell’anima che trova corpo per mezzo della materia. Le sue esperienze, la sua vita in una Nazione attraversata da una storia dolorosa, personale e collettiva, danno ulteriormente forma alla materia raggiungendo un significato ancora più tangibile: uomini, donne e animali fatti di elementi surrogati di guerra. Vita dalla morte, rinascita dalla latenza di pezzi di ferro che hanno urlato distruzione per molto tempo. L’artista si avvale dell’arte quale arma universale e non smette di sognare e sperare, facendo della sua guerra personale una lotta silenziosa.
Ognuna delle sue opere è dotata di un’unicità, è sì la risultante di pezzi di armi assemblate, ma racconta un’emozione. Il ferro ha mutato la sua essenza e, come Pinocchio, da un frammento di legno muto è divenuto luminoso, irradiando ancora energia per qualche centimetro dalla sua superficie tattile.
Il lavoro della materia di Ali WakWak è come una nota musicale e la sinfonia che ne risulta è molto forte, assordante; sta a noi comprendere che questa volta il rumore non è quello della guerra ma quello di una forza vitale prorompente le cui vibrazioni sono ora rivolte verso un pieno futuro positivo.
La mostra vuole mostrare la rinascita della Libia che, come una fenice, dalle ceneri si rigenera con nuova energia e nuovo splendore.
“Bisogna accettare ciò che è stato rotto, accogliere il brutto e integrarlo nella nostra storia come un fatto naturale; un qualcosa che però non ostacoli la visione di un futuro migliore. Le cose rotte non devono essere buttate via, dimenticate - vanno trasformate, plasmate in un messaggio positivo. Tutti i feriti, coloro che hanno lottato per la libertà sono molto importanti per il Paese, la vita continua anche per loro” (E. Croci).
Come scrive Claudio Strinati“questa mostra è un esempio veramente efficace di che cosa possa significare l’unione di Arte e Politica, di libera ispirazione e di impegno civile. […] Ali WakWak ha vissuto sulla sua pelle i disastri del suo paese, la Libia, e ha fatto quello che tanti artisti, in epoche anche molto lontane dalla nostra, hanno cercato di fare: ha raccolto, cioè, gli elementi negativi generati dalla guerra, dall’oppressione, dal male e dalla morte e ne ha fatto i mezzi privilegiati di comunicazione di vita, di speranza, di fedeltà agli ideali artistici, riuscendo a conseguire un risultato di tragica derisione e, insieme, di arguto ammonimento. Prende materiali bellici e conferisce loro una forma totalmente diversa rispetto a quella per la quale sono stati fabbricati, combinandoli insieme e rielaborandoli, in modo tale da sollecitare in chi guarda lo sbalordimento, l’indignazione e persino la risata, dietro la quale si manifestano però solenni e definitive meditazioni”.




Partners: Camera di Commercio di Roma, Eni
Collaboratore tecnico: Rai Teche

Organizzazione e realizzazione: COMUNICARE ORGANIZZANDO

Catalogo: Gangemi Editore

Orario: dal lunedì al giovedì: 9.30 – 18.30; venerdì, sabato e domenica: 9.30 – 19.30
L’accesso è consentito fino a 45 minuti prima dell’orario di chiusura
INGRESSO GRATUITO
Per informazioni: tel. 06/69202049

Ufficio Stampa Comunicare Organizzando:       Paola Saba
                                                                                  tel. 06/3225380, fax 06/3224014
                                                                                  cell. 329/9740555
                                                                                  e-mail : p.saba@comunicareorganizzando.it
                                                                                  tel. 06/3225380, fax 06/3224014
                                                                                  email: c.mollica@comunicareorganizzando.it
                                                                                  

giovedì 10 gennaio 2013

FABRIZIO GIULIMONDI STRACONSIGLIA "RUMORI FUORI SCENA" AL TEATRO VITTORIA DI ROMA

Di Michael Frayn
con Viviana Toniolo, Annalisa Di Nola, Stefano Messina, Roberto Della Casa, Carlo Lizzani, Elisa D'Eusanio, Claudia Crisafio, Andrea Lolli, Sebastiano Colla
Regia di Attilio Corsini
Dal 26 dicembre 2012 al 13 gennaio 2013


“Non funzionerà mai qui da noi, è humour inglese”. Lo aveva detto Attilio Corsini a proposito di “Rumori fuori scena” di Michael Frayn, nel 1982. Poi, insieme a Viviana Toniolo, si convinse che forse si poteva tentare. “Rumori”, come affettuosamente viene chiamato lo spettacolo da chi ne fa parte, come si fa con un figlio al quale si dà un diminutivo, nel 2013 festeggerà i 30 anni dal suo debutto italiano. La storia, per chi ancora non la conoscesse, è quella di una compagine di attori alle prese con uno spettacolo da mandare in scena, tra equivoci, gag, dietro le quinte. Una commedia perfetta, nel testo originale, nella traduzione, nell’adattamento, nella regia e nell’interpretazione. Alcuni degli attori che facevano parte della prima versione, sono ancora in scena. Orgogliosamente, dopo quasi diecimila repliche. E il pubblico, non solo quello del Vittoria, continua a chiedere: “Ma quando lo rifate?” Rispondiamo: dal 26 dicembre al 13 gennaio.  
Più di ogni altra frase, valga un aneddoto spesso raccontato da Stefano Altieri, uno dei pilastri della compagnia Attori & Tecnici: “Durante il secondo atto, l’attore Sandro De Paoli svenne in scena. Alla richiesta da parte dei colleghi di “C’è un medico in sala?” scoppiò una fragorosa risata. Passarono quasi cinque minuti prima che un dottore salisse in palcoscenico a prestare soccorso.

martedì 8 gennaio 2013

FABRIZIO GIULIMONDI COMUNICAZIONE PAGINA FACEBOOK UNIVERSITA' GABRIELE D'ANNUNZIO


L’università degli Studi di Chieti-Pescara “Gabriele d’Annunzio” è su Facebook all’indirizzo: 

"http://www.facebook.com/browse/admined_pages/?id=100001572375058#!/universitadannunzio"


Circa 12mila “like” e 2500 visualizzazioni per ogni post pubblicato.

Nella pagina istituzionale di Facebook  vengono riportate le news già pubblicate sulla home-page del portale di Ateneo (www.unich.it) che informano sulle iniziative e le attività della d’Annunzio e della comunità accademica in generale.
L’account “Università G. d’Annunzio”, oltre ad essere seguito soprattutto dagli studenti, principali fruitori del Social Network, offre anche ai giornalisti uno strumento per conoscere in tempo reale le attività dell’Ateneo ed avere a disposizione un archivio fotografico.