mercoledì 31 luglio 2013

"IO CHE AMO SOLO TE" DI LUCA BIANCHINI


Indubbiamente un libro gradevole, molto scorrevole e assolutamente adatto alla  stagione estiva è l’ultima fatica letteraria di Luca BianchiniIo che amo solo te” (Mondadori), titolo tratto dalla omonima canzone di Sergio Endrigo e che ne fa da colonna sonora.

Il romanzo in molti suoi passaggi e personaggi ricorda opere cinematografiche e teatrali che, a mio sommesso avviso, l’Autore aveva ben presente durante la stesura del libro.

Don Mimì, una delle figure principali della narrazione, rimanda nella sua descrizione fisica e, specialmente, in quella dei baffi, Pasqualino  Settebellezze,  interpretato da Giancarlo Giannini nel famoso film di Lina Wertmuller, ma anche in qualche suo aspetto caratteriale il Don Mimì  della grandiosa commedia di Eduardo de Filippo Filumena Marturano.

La tragi-comica  personalità di Orlando, omosessuale, rimanda la mente alle storie raccontate in Manuale d’Amore 2 (di Giovanni Veronesi) da Sergio Rubini e Antonio Albanese e, in maniera meno leggera e più sofferta,  in Mine Vaganti (di Ferzan Ozpetek) da Riccardo Scamarcio e Alessandro Preziosi.

Al pari di queste due pellicole, il racconto è ambientato nell’entroterra pugliese, in cittadine di cui lo Scrittore esalta il provincialismo e i dettagli piccolo-borghesi, facendoli diventare motivo di ironia, strappando più di qualche sorriso al divertito lettore.

La trama si snoda intorno ai preparativi del matrimonio fra Chiara e Damiano, sino al giorno delle nozze e alle ore che si snoderanno successivamente.

Come tutte le commedie all’italiana che si rispettano, dietro l’organizzazione dell’evento e parallelamente alla storia ufficiale di ogni singolo personaggio,  esiste un altro racconto, ad una vicenda se ne cela un’altra, una vicissitudine ne svela un’altra.

Chiara è figlia della vedova Ninella (umile sarta) e sorella di Nancy, diciassettenne che ha come obiettivo primario imminente la perdita della verginità (regolarmente con l’idiota di turno Tony). Damiano, figlio della ricca famiglia Scagliusi, re delle patate locali, balbuziente quanto basta per creare delle  simpatiche gheg, si sposa perché così va fatto e perché ad un certo punto un uomo si deve sistemare. E’ così che gli ha insegnato Don Mimì, il padre, sposato con Matilde, donna che ce l’ha sempre con il mondo interno.

Orlando  -  altro figlio di Matilde e don Mimì e  fratello di Damiano - si fa usare senza ritegno da un altro uomo (l’innominato), latore delle  stesse tendenze -  ma sposato e con prole -  che si presenterà al matrimonio, determinando una vis comica simile alla migliore tradizione latina di Terenzio e Plauto, rafforzata dalla pantomima di Orlando di fingersi  eterosessuale portandosi in Chiesa, a mò di fidanzata,  Daniela, che in realtà è lesbica e convive con un’altra donna.

La verità è che i consuoceri si amano da quando erano ventenni. Don Mimì ha dovuto sposare Matilde e non Ninella a causa del fratello di quest’ultima, zio Franco, al tempo arrestato per essere implicato in un affare di contrabbando.

Ninella e don Mimì non hanno mai spesso di amarsi e solo a messa, al momento della comunione, possono lanciarsi uno sguardo furtivo: al taglio della torta, finalmente, potranno concedersi un romantico e struggente ballo.

Chiara e Damiano si sono sposati al posto loro.

Interessanti anche i personaggi secondari, la cui raffigurazione non può non far balenare ad ognuno di noi il ricordo di parenti lontani che hanno passato  il tempo a spettegolare, a mettere bocca su tutto, ad impicciarsi di ogni piccola cosa che riguardasse gli altri, che  conoscevano  sempre la cosa migliore da fare e, al momento del pranzo nuziale, davano  il meglio di se stessi: “ci voleva un po’ più…ci voleva un po’  meno…..”.

Cosimo (cugino di Damiano), Mariangela (cugina di Chiara) e, soprattutto, la zia Dora, moglie di Zio Donato, fratello del defunto marito di Ninnella, incarnano mirabilmente tutto questo.

Non posso non spendere una ultima  parola sui saggi consigli forniti da Ninella alla figlia  Chiara alle soglie del “grande passo”, di cui uno, credo,  possa  risultare -  qualora seguito -  particolarmente efficace: “Nel dubbio fatti i cazzi tuoi!”


Fabrizio Giulimondi

martedì 30 luglio 2013

FABRIZIO GIULIMONDI: NON SI DISTORCA IL PENSIERO DEL PAPA!




"Si scrive tanto della lobby gay. Io ancora non ho trovato nessuno che mi dia la carta d’identità, in Vaticano. Dicono che ce ne siano. Ma si deve distinguere il fatto che una persona è gay dal fatto di fare una lobby. Se è lobby, non tutte sono buone. Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla? Il catechismo della Chiesa cattolica dice che queste persone non devono essere discriminate ma accolte. Il problema non è avere queste tendenze, sono fratelli, il problema è fare lobby: di questa tendenza o d’affari, lobby dei politici, lobby dei massoni, tante lobby… questo è il problema più grave.". (Papa Francesco, sull'aereo Rio de Janeiro- Roma)

lunedì 29 luglio 2013

"FEAR AND DESIRE"("PAURA E DESIDERIO") DI STANLEY KUBRICK: 29-30-31 LUGLIO NEI CINEMA



 Un'immagine tratta dal film "Fear and desire"

L’evento tanto atteso della proiezione “Fear and Desire”  (“Paura e Desiderio”), pellicola in bianco e nero del 1952 del grande regista Stanley Kubrick (che al tempo aveva manifestato la volontà – non esaudita -  che fosse distrutta), completamente restaurata dalla Library of Congress, almeno al cinema Barberini di Roma (spettacolo del 29 luglio,  ore 21.00), è stato una delusione cocente, visto che già dopo un una manciata di minuti (dei 62 di durata) il sonoro ha cessato di funzionare e l’operatore non è riuscito a ripristinarlo, mentre  le immagini successive  sono apparse sullo schermo a sprazzi e  in maniera  confusa e sconclusionata.
Devo dire che nell’accedere alla sala ero già rimasto perplesso dalla presenza di contenitori di pop corn  e bicchieri di  coca cola ancora giacenti sulle poltroncine e non rimossi dagli addetti alla pulizia.
Il costo del biglietto – almeno quello! -  ci è stato rimborsato.
Per gli amanti del Maestro: dalle poche scene viste e il poco sonoro ascoltato “Fear and Desire” (“Paura e Desiderio”) non è certo Arancia Meccanica o Shining.


Fabrizio Giulimondi

domenica 28 luglio 2013

STEPHEN KING "JOYLAND"

Joyland
Stephen King sta alla letteratura horror, thriller, noir e gotica come Steven Spielberg sta al cinema. Sthephen King, autore indiscusso e geniale della letteratura mondiale nel campo dell’horror, del thriller, del noir e del gotico,  nella  sua ultima creatura, nel  suo ultimo parto letterario dimostra ancora una volta la capacità extra ordinem  di stupire, coinvolgere, emozionare, spaventare, intenerire, far riflettere il lettore. Dopo centinaia e centinaia di libri, fra romanzi, raccolte, antologie, novelle, sceneggiature di decine di film di successo internazionale, racconti brevi, storie inedite ancora non pubblicate, è arrivato nelle librerie Joyland (Sperling & Kupfer). E’ stupefacente come Stephen King riesca, con la sua caratteristica scrittura scorrevole e morbida,  che si insinua  però nell’inconscio e nelle parti più remote e nascoste dell’animo umano, ad  intrattenere il lettore in amenità e cose piacevole o facete, per poi sferrare l’attacco quando meno la persona se lo aspetta.
Joyland è uno dei tanti parchi dei divertimenti degli Stati Uniti d’America. 
Dev è un ragazzo che soffre pene d’amore per essere stato lasciato dalla amata ragazza e vuole un periodo di distrazione, anche per alzare qualche dollaro per l’imminente università.
Madame Fortuna è una chiaroveggente, da fiera, da luna park, da baraccone, ma è a conoscenza di un  presagio che riguarda Dev.
Mike è un ragazzino di dieci anni con la distrofia muscolare, con una madre affascinante (Annie) ed un passato tormentato, ed un nonno integerrimo pastore protestante, il quale  imputa alle condotte della figlia la malattia del nipote, che ha il sapore di una maledizione divina.
Mike è come il bambino di “Il sesto senso”,  il film del 1999 di M. Night Shyamalan: vede fantasmi.
Dev si affeziona  a Mike e si innamora della madre.
Joyland è un luogo di divertimento, dove il divertimento si vende e  molti sono i personaggi che  ruotano intorno a Dev, ragazze e ragazzi, giovani e meno giovani, simpatici, accattivanti,  scostanti e psicopatici.
Poi c’è il tunnel dell’orrore, come in tutte le fiere, i luna park e i parchi di divertimento che si rispettano. Ma in quel tunnel qualche cosa è successo. Un particolare sfuggito a tutti – come nelle migliori produzioni cinematografiche di Dario Argento – fa comprendere un mistero che si trascina in quelle aree spensierate da anni: è un mistero fatto di spettri, di sangue, di morte, di assassini seriali.
Stephen King riesce a farci navigare nelle acque chete dei sentimenti, della delicatezza degli affetti, della nobiltà d’animo, sino a farci commuovere, per poi trascinarci  in un finale al cardiopalma, in una notte buia e tempestosa.
Non ci sono i momenti terrifici di Pet Sematary (1983), ma la presenza ectoplasmatica di esseri dell’Aldilà sarà il mezzo che il Maestro adopera per far comprendere ad Annie, dichiaratamente atea, che qualcosa oltre noi esiste: Dev sa che l’Ultraterreno  c’è  perché lui  nel tunnel qualche cosa ha percepito, al pari di Tom che qualche cosa ha visto e di Mike che qualche cosa ha percepito, ha visto ed  ha udito.
E’ rara un’ opera black che riesce a provocare brividi e inquietudine,  insieme alla malinconia che solo rapporti profondi lasciano una volta che sono andati e si sono persi nel passato.

Fabrizio Giulimondi


sabato 27 luglio 2013

UN ALTRO FILM MARVEL: "WOLVERINE - L'IMMORTALE" DI JAMES MANGOLD


Wolverine -  l'immortale di James Mangold è anni luce distante dai super eroi creati dalla mente prodigiosa di Stan Lee e dalla filmografia della Marvel.
I Fantastici Quattro, l’Uomo Ragno, Thor, Devil, Lanterna Verde, Ghost Rider, Capitan America, Iron Man, Hulk, sia nella versione comics che in quella cinematografica,  hanno una struttura completamente diversa e senz’altro più leggera rispetto alla figura di James Howlett detto Logan, ossia Wolverine, mutante e highlander, immortale, frutto delle menti di Len  Wein,  Herb Trimpe e di John Romita Sr.,  reso famoso grazie alla  pubblicazione compiuta dalla  Marvel Corno.
Tutto ha inizio il 9 agosto del 1945 , quando un secondo sole esplode nel cielo di Nagasaki e Wolverine, prigioniero dei giapponesi, fa scudo con il proprio corpo invulnerabile ad un soldato nipponico che aveva mostrato una certa pietas nei confronti dei prigionieri. Lo spettatore dovrà attendere oltre i titoli di coda per capire se il tycoon dagli occhi a mandorla manterrà questo suo stato di grazia oppure no.
Logan, in arte Wolverine, con i suoi artigli stile Freddy Krueger in Nightmare   e il suo aspetto licantropesco,  manifesterà il proprio rude e virile fascino  - che attrarrà senza meno più di un spettatrice -  quando l’interprete  Hugh Jackman  dismetterà le vesti di cavernicolo.
Wolverine si differenzia dagli altri personaggi  del mondo Marvel per il suo modo poco elegante di porsi, per la sua perenne battaglia contro se stesso. E’ definito un uomo che soffre, tormentato ogni notte della sua esistenza da incubi, perseguitato da sensi di colpa per essere diverso, dal rimorso di fare del male a chi ama. Per questo aveva deciso di non amare più!
Il film è, per certi versi, braccato dalla quasi costante presenza della donna che Logan aveva amato in passato, uccisa dai suoi stessi artigli. La proiezione è perseguitata da un continuo ricordare al nostro protagonista che le persone a cui tiene, muoiono. Forse è per questo che accetta di fare ciò che gli verrà chiesto. Forse è per questo che torna ad essere un soldato, un samurai senza padrone: un suronin.
Hugh Jachman -  unico attore statunitense (escludendo un’altra mutante dei tanti X Men di cui Wolverine fa parte), circondato da una miriade di interpreti del sol levante - fa immergere il pubblico in un action movie che,  a differenza delle altre pellicole con marchio Marvel, risulta essere  più vicino al genere Manga: eccessivi elementi di violenza non rispettosi della tradizione dei fumetti e dei lavori di Stan Lee, e qualche swear words di troppo!
Le attrici hanno la fisiologia propria delle eroine Hentai e Anime.
Torrenti di samurai e ninja vorticano tumultuosamente intorno a  Wolverine ed alla sua protetta, la bella nipote del magnate giapponese, Maestro Yashida.
Anche la mafia della Terra dai fiori di loto, la Yakuma, svolgerà un ruolo da protagonista nella trama convulsa e piena di lotte, di combattimenti  e di concitate corse……… verso l’Ignoto.
Troverete in certe ricostruzioni robotiche i primi personaggi fumettistici  giunti sul piccolo schermo dal Giappone in Occidente verso la fine degli anni settanta: Mazinga e Jeeg Robot
Un duplice consiglio: un Ni da parte mia e un Si convinto -  per gli amanti del cinema  action-fantasy in salsa Marvel all’ orientale -  da mia figlia Alessia.

Alessia e Fabrizio
Giulimondi                                                   


martedì 23 luglio 2013

DEMOCRAZIA, SONDOCRAZIA, WEBCRAZIA: E I PARTITI?

Fra tutte le formazioni sociali che elaborano e traducono i dati della realtà politica a livello di Stato - apparato, peculiare e preminente posizione occupa il partito politico come associazione di individui accumunati da una visione di parte degli interessi generali della Comunità statale. Elementi costitutivi del partito risultano, pertanto, essere la pluralità di persone, il patrimonio e lo scopo. In merito a questo ultimo e al suo raggiungimento non può non esservi una organizzazione stabile.
Il ruolo fondamentale della azione dei partiti nella vita ordinamentale dello Stato è riscontrabile nella loro rilevanza costituzionale. Occorre distinguere una posizione costituzionale del partito come strumento privatistico (associazione non riconosciuta) indispensabile per la determinazione della politica nazionale, ed una situazione di vera e propria incorporazione dello Stato come istituzionalizzazione ed attribuzione al partito della qualità di organo stesso di formazione della volontà statale. Questa bipartizione trova riscontro nei due diversi tipi di sistemi giuridici e politici che l’occidente ha conosciuto: quelli delle democrazie bi o multipartitiche e quelle – per fortuna in via di estinzione – dei Paesi a socialismo reale.
L’incardinazione del partito politico nella compagine costituzionale italiana è avvenuta nel 1948 in forza dell’art. 49 della Carta Costituzionale: ” Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. La disposizione in esame costituisce una evidente specificazione dell’art. 18 Cost. (libertà di associazione), che rende la costituzione di un partito politico non un diritto, bensì una libertà.
Occorre chiedersi se solo i cittadini iscritti ai partiti concorrono alla creazione della vita politica nazionale. La risposta non può essere che negativa alla luce della interpretazione testuale della espressione“concorrere” utilizzata nel citato art. 49 Cost. e, della concomitante esistenza della libertà di associazione sancita nell’art. 18 Cost., che danno luogo ad un pluralismo associativo teso a contribuire allo “svolgimento della personalità umana” (art.2 Cost.), al "pieno sviluppo della persona umana e all'effettiva partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese" (art.3 Cost.).
L’associazionismo politico, strutturato in partiti e non (pluralismo politico), costituisce un valore costituzionale ineliminabile ed immediatamente caratterizzante il nostro ordinamento istituzionale: i partiti concorrono alla realizzazione della politica nazionale unitamente alle altre forze politico-sociali.
L’azione dei partiti di partecipazione alla politica nazionale si svolge in seno al c.d. Stato - comunità e non al c.d. Stato - apparato, ove si persegue un indirizzo politico generale attraverso l’azione “di parte” del Governo. Il concorso alla determinazione della politica nazionale è operato per mezzo del metodo democratico, che non deve indirizzarsi solamente all’esterno della struttura-partito (ad esempio: nella manifestazione delle idee, nella soluzione da approntare per le questioni di interesse generale o in costanza delle competizioni elettorali), bensì anche nella sua organizzazione interna, nella esistenza di normazione quali statuti, atti costitutivi e vari interna corporis, oltre nel rispetto della o delle “correnti” di minoranza.
La funzione pubblica di rilievo costituzionale esercitata dal partito può e deve indurre organi statuali a ciò preposti a verificare certamente non l’aspetto più propriamente ideologico di esso (a meno che esso non incida sui principi fondamentali della Repubblica, le libertà poste a base dell’ordinamento giuridico italiano, i diritti riconosciuti e garantiti dalla Carta Costituzionale e il diritto comunitario), ma il contenuto delle sue fonti di diritto, gli aspetti squisitamente comportamentali a livello verticale fra dirigenti, quadri e associati, oltre che orizzontale fra “pari grado”. Il nostro ordinamento non conosce lo strumento previsto dall’art. 21 della Costituzione germanica che assegna al Tribunale Costituzionale Federale il potere di dichiarare la incostituzionalità di un partito politico qualora, per la sua finalità o per il comportamento dei suoi vertici o dei suoi simpatizzanti, si prefigge di danneggiare o eliminare l’ordinamento fondamentale democratico e liberale o di minacciare l’esistenza della Repubblica.
E’ il collegamento fra partito e rappresentanza politica che negli ultimi anni è stato messo in discussione, al pari del binomio rappresentanza e rappresentatività politica.
« Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto. ». Così si espresse alla Camera dei Deputati Benito Mussolini il 16 novembre 1922, dopo la Marcia su Roma del 28 ottobre 1922: il collegamento fra partito e rappresentanza politica era stato cancellato, il binomio rappresentanza-rappresentatività annullato.
La storia in verità non insegna nulla e i dittatori in camicia nera e i tiranni in camicia bruna e rossa possono tornare, per questo è opportuno una breve disamina su questi temi.
Si suole generalmente affermare che l’elezione con metodo democratico di selezione dei governanti conferisce a questi la qualità dei rappresentanti: ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione (art.67 Cost).
La figura della rappresentanza tratteggiata dalla cennata disposizione non si identifica in nulla con l’omonimo istituto civilistico. Il codice civile, agli artt. 1387 e seguenti, prevede che i negozi giuridici stipulati dal soggetto rappresentante nel nome e nell’interesse del soggetto rappresentato producono effetti direttamente in capo a quest’ultimo, mentre la rappresentanza, qualificabile come politica, prevista nella Carta Costituzionale, ha elementi costitutivi di ben altra natura: gli eletti non rappresentano una determinata parte della collettività, ossia il partito o l’area politica che li ha espressi inserendoli nelle liste elettorali, ma l’intera Comunità nazionale; non sussiste alcun rapporto giuridico fra rappresentante e rappresentato, non essendovi, a mente dell’art. 67 Cost, alcun vincolo di mandato (il che comporta la piena libertà di azione e decisionale del parlamentare nel transitare per qualsivogliaragione da un gruppo all’altro e nel non adeguarsi alle direttive di voto del capogruppo); non esiste il potere da parte degli elettori di revocare gli eletti.
La rappresentanza politica, che senza dubbio ha una consistenza ectoplasmatica, è stata definita dal Romano e dal Biscaretti rappresentanza di interessi generali; dal Mortati rappresentanza di interessi collettivi visti nel loro insieme; dal Lavagna rappresentanza di opinioni; dal Giannini struttura organizzatoria intesa a collegare mediante elezioni un gruppo ad un ente esponenziale; dal Balladore Pallieri come una figura che caratterizza alcuni organi per il cui mezzo la volontà popolare è presente nel governo dello Stato.
Quanto stabilito dalla Costituzione determina l’inevitabile sanzione di grave incostituzionalità di quei comportamenti posti in essere da alcuni gruppi dirigenti nello svolgimento della attività di controllo quasi manu militari degli intendimenti politici dei componenti del proprio gruppo parlamentare, adoperando metodi somiglianti più a quelli utilizzati da alcune sette religiose o presunte tali, che alle consuete metodologie di dialettica politica interne ai partiti, che per tale ragione di devono dotare statutariamente di organi interni ove mediare le diverse tesi in gioco (Consigli, Congressi, Giunte Esecutive, Uffici di Presidenza, Gran Giurì et similia)
Rappresentanza (politica) e rappresentatività vanno tenute distinte fra di loro.
La prima attiene al momento della autorità, la seconda a quello della libertà e trova il suo fondamento nel consenso, nella corrispondenza e nella adesione al sentimento popolare da parte degli eletti, nella consonanza fra governanti e governati, quando i primi riescono a tradurre in termini normativi i valori e le istanze dei secondi.
Ho dipinto sinteticamente – e me ne scuso – a mo' di quadro espressionista, argomenti che meriterebbero ben altra stesura e impegno, ma talora anche poche pagine possono far intendere all'accorto lettore ciò che si vuole significare.
La democrazia da quando il Popolo italiano ha cessato di cantare Giovinezza ha già avuto una prima degenerazione nella “sondocrazia”, in cui le società demoscopiche da strutture di accertamento del sentire popolare su qualsivoglia vexata quaestio, si sono tramutate in organismi di condizionamento della medesima ad opera del committente di turno.
Ora la democrazia sta subendo una ancor più terribile minaccia, la webcrazia, strumento utilizzato simulatamente per effettuare il passaggio dalla democrazia rappresentativa (corpo elettorale- elezione dei rappresentanti parlamentari – nomina del governo; oppure corpo elettorale, nomina immediata non solo dei rappresentanti parlamentari ma anche del Capo dello Stato o del Governo) alla democrazia diretta. Il web che interloquisce immediatamente, in tempo reale, fra istanti e decidenti, tra corpo elettorale e governanti, nella panacea della immedesimazione di rappresentato e rappresentante, in cui il rappresentante è il rappresentato perché nell'istante del bit v’è la traduzione della volontà popolare nella formulazione giuridica-legislativa-politica.
La Storia non insegna nulla: Mussolini, Hitler, Franco, da Lenin, a Stalin, a tutti i tiranni sovietici, a Mao, a Pol Pot, a Pinochet e Videla, sono stati visti come l’incarnazione dello “Spirito” del Popolo, delle Classi Lavoratrici, del Proletariato, delle Classi operaie, dei Descamisados, della Nazione, della Patria.
Cinquantadue milioni di morti nella seconda guerra mondiale; cento milioni di morti ad opera dei vari regimi comunisti; sei milioni di ebrei sterminati dall'Orrore nazionalsocialista; tre milioni sterminati da Pol Pot in Cambogia; decine di morti anche per denutrizione grazie a Mao che amava tanto il suo Popolo e lo rappresentava direttamente contro l’imperialismo americano, capitalista e borghese; un guerra civile in Italia che ancora permane perché al Duce servivano poche migliaia di morti per sedersi al tavolo della pace.
Le dittature e le tirannidi spesso non si impongono con un putsch o con una blitzkrieg, ma si insinuano nascostamente prima nelle menti e nei cuori delle persone, per poi installarsi saldamente nelle loro anime. Ebrei e armeni non sono stati sterminati in un giorno solo, ammantandosi il Male Assoluto di umanità, proprio come sta avvenendo in questi anni con le normative olandesi sulla eutanasia che sta provocando la morte di migliaia di malati mentali o il progetto down syndrome free in Svezia.
Il web che sto adoperando in realtà è un non luogo, dove persone senza volto, anonime, che si nascondono spesso dietro ad un nickname, possono dire qualsiasi cosa senza controllo, spesso senza potere essere sanzionate penalmente o civilmente, senza che le eventuali affermazioni erronee, false o infondate possano essere – se non percorrendo una procedura complessa e farraginosa – rimosse ( V. il mio articolo su questa stessa Rubrica sul “diritto all’oblio”): tutto è riposto al discernimento degli utenti, discernimento posseduto anche dai tedeschi nel 1933 e dai sovietici nel 1917 .
Calato lo strumento democratico nel sistema informatico sorgono, fra i tantissimi, due enormi problemi.
Nel primo ci imbattiamo con il Titolo IV (rapporti politici) della Costituzione (artt.49-53) che indica come condizione necessaria ed imprescindibile il possesso della cittadinanza italiana da parte di coloro che esercitano, ad esempio, il diritto al voto (comunale, regionale, nazionale,referendario): il web consente anche allo straniero abitante ai confini della Terra di intervenire e partecipare.
Secondo ostacolo di non poco momento: quali sono gli organi accertatori, validatori e verificatori della correttezza procedurale in relazione ad una realtà quale il web che ingloba “Tutto e il suo esatto contrario ” e che neanche gli organismi preposti alla sicurezza nazionale di Paesi come gli Stati Uniti o Israele riescono a “gestire”?
Spero che la storia qualche cosa ci insegni.

Fabrizio Giulimondi

La presente pubblicazione è depositata presso la  SIAE e tutelata a sensi della normativa vigente sul diritto d’autore.
Citerò il giudizio dinanzi l’Autorità Giudiziaria competente chiunque copi totalmente o parzialmente il testo senza il mio consenso preventivo.
Fabrizio Giulimondi


lunedì 22 luglio 2013

FABRIZIO GIULIMONDI: LA RICERCA SVOLTA DAI FISICI DELL'UNIVERSITÀ STATALE DI CHIETI-PESCARA “GABRIELE D'ANNUNZIO” E' PRIMA A LIVELLO NAZIONALE


 
22.07.2013 -  L'A.N.V.U.R. (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) ha pubblicato i risultati della Valutazione della Qualità della Ricerca (V.Q.R.) per il periodo 2004-2010. Il gruppo dei ricercatori di Fisica che opera presso il Dipartimento di Neuroscienze e Imaging e l'I.T.A.B. (Istituto Tecnologie Avanzate Biomediche) ha conseguito un importante risultato: la qualità della ricerca svolta nel periodo di riferimento ha permesso, infatti, all'UdA di collocarsi al primo posto tra le università italiane per l'area della Fisica (Area 2). Si tratta di un importante risultato che ripaga l'impegno dei nostri ricercatori e del nostro Ateneo, già ampiamente riconosciuto a livello internazionale. Tale successo testimonia che si possono conseguire obiettivi di qualità, anche al di fuori delle grandi università, grazie all'identificazione di progetti strategici, in questo caso nell'ambito della Fisica applicata alle Neuroscienze.

 

 

FABRIZIO GIULIMONDI: UNA STORIA DI REDENZIONE E DI SPERANZA "NON MI AVRETE MAI" DI GAETANO DI VAIO E GUIDO LOMBARDI

“Gli occhi di Pitbull sono accecati dall’odio. Non vedono più.

Io invece incomincio a vedere. Lo vedo adesso il dolore negli occhi degli altri, persino in quelli del Pitbull vedo quel dolore così forte e profondo da renderlo un animale. Un dolore antico come quello che mi porto dentro da sempre anch’io.

Prima non potevo permettermi di vederlo. Ogni volta che per un attimo si accendeva la luce e intravedevo qualcosa, la vita mi obbligava a spegnerla. La malavita. Dovevo essere anch’io un animale, per stare in mezzo agli altri animali. E soffiavo come un disperato su quella dannata fiammella per continuare a rimanere al buio. Ma ora questa luce rischiara tutto. Mi fa vedere”

E’ il finale -  carico di attesa, attesa che sa di speranza, speranza che sa di vittoria, vittoria dell’uomo sull’animale, del chiarore sulle tenebre -  del romanzo autobiografico “Non mi avrete maidi "Gaetano Di Vaio e Guido Lombardi (Einaudi).   A differenza dello scuro  che permane fino all’epilogo del lavoro letterario  di Walter Siti “Resistere non serve a niente”, immeritatamente vincitore del Premio Strega 2013 (e già oggetto di commento in questa Rubrica), “Non mi avrete mai è un inno reale e non simbolico alla possibilità che ognuno ha  di farcela, di non farsi dominare dal Male, di non cedere all’opzione della violenza e del crimine che in certi ambienti e in determinate esistenze è costantemente e imperiosamente presente.

Non mi avrete mai voi della camorra! Non mi avrete mai voi che volete farmi diventare un assassino e con gli  ammazzamenti e con il sangue volete darmi il benessere!

Gaetano Di Vaio oggi è un produttore cinematografico indipendente, ma ieri era una specie di mito della microcriminalità  di Piscinola, nella zona nord di Napoli:  uno spacciatore, un ladro, un rapinatore.

Gaetano di Vaio racconta la prima parte della sua vita con lucida, drammatica, allucinante chiarezza, senza reticenze, senza omissioni, senza omertà. La storia è quella di Giovanni Capone che passa  dal basso dove viveva in un monolocale con altre dodici familiari, alla cella dell’Inferno di Poggioreale, la casa di reclusione partenopea,  dove in uno spazio di tre metri per cinque ci convivono forzatamente in quindici.

Gaetano Di Vaio - Salvatore Capone, sposato con Lucia (all’età di quattordici anni) e con un figlio Antonio, immerge il lettore nell’angosciante e irrespirabile realtà che si vive all’interno di in Istituto che potrebbe ospitare 800 detenuti e che, invece, ne accoglie 2.200; dove alcuni agenti di polizia penitenziaria -  prigionieri loro stessi di quelle mura-  sfogano il loro quotidiano stato di frustrazione adoperando, come se nulla fosse,  ogni genere di violenza contro i detenuti; ove esiste la stanza zero nella quale i tossici in crisi di astinenza vendono massacrati con calci e pugni e dove durante il periodo di isolamento,  a cui gli  ospiti sono sottoposti per la più lieve mancanza, ricevere la visita della squadra della morte è prassi consolidata.

In questo permanente orrore  vi sono sprazzi di umanità  nel gesto di un agente di custodia, Annunziata, che porta un gelato a Salvatore Capone mentre si trovava in isolamento e attendeva la razione giornaliera di manganellate  o in Popo, un omone innocente, imputato di associazione di stampo camorristico a causa di una intercettazione telefonica erroneamente interpretata dagli organi inquirenti,  e poi assolto dopo tre anni di galera ( a Poggioreale!), che presta  libri a Capone e spiegandone il contenuto gli da una speranza, una chiave  di lettura degli accadimenti, gli fornisce una possibilità di adoperare il cervello, di mantenere vivo  l’intelletto, di conservare  accesa una fiammella che possa tenuamente baluginare dentro la  scatola cranica.

Non mi avrete mai camorristi! non mi avrete mai assassini! non mi avrete mai! Salvatore Capone – Gaetano Di Vaio dirà “No!” al capo famiglia di zona e sceglierà un’altra vita, perché l’uomo ha sempre un’altra scelta, ha sempre, un’altra possibilità, ha sempre un altro percorso da poter intraprendere.

Mentre vi incuneerete per i corridoi, le latrine, i bagni, le docce, le celle e gli uffici mostruosi e danteschi di Poggioreale, mentre seguirete le gesta  trasudanti turpitudine fra strada, galera e San Patrignano di Salvatore Capone,  e sentirete l’assenza di umanità dei suoi compari, distrutti dalla droga e annientati dal delitto, galleggiando fra disposizioni di diritto penitenziario e regole “non  scritte” che si impongono fra guardie e galeotti, fra espressioni gergali dialettali (che abbisognerebbero di note esplicative a piè di pagina) e slang penitenziario e delinquenziale, sarete accompagnati come colonna sonora dai brani di Nino D’Angelo, innanzi i Vostri occhi passeranno le scene del film di Nanni Loy Detenuto in attesa di giudizio con Alberto Sordi. Ad un certo punto Vi sembrerà di ascoltare  la canzone Pensa di Fabrizio Moro, mentre il Vostro ricordo sarà intasato dalle  centinaia di scritti su Enzo Tortora e sulla sua detenzione da innocente a Poggioreale, come Poppo.

Un’ ultima annotazione: splendida la descrizione della notte insonne di Salvatore Capone, che deve decidere se mandare una lettera di richiesta di aiuto per la moglie che si stava facendo la fame all’amico camorrista – il che voleva significare consegnarsi all’uscita di prigione mani a piedi a lui – oppure al capitano Onofri per chiedere di ottenere un lavoro intra moenia, per poter così mantenere la famiglia con la paga che avrebbe ricevuto.

La notte ricorda quella manzoniana dell’Innominato nei Promessi Sposi.

Alla fine sceglierà il lavoro, onesto, che rende dignitosa la vita anche di un uomo per  lungo tempo in vinculis,  lo sottrae all'abbrutimento, alla umiliazione, alla promiscuità animalesca, riconoscendo in tal maniera  un senso alla giornata, allo svegliarsi la mattina e all'andare a letto  la sera.

Farà lo scrivano -  lettere e lo scrivano -  spesa…….e poi Salvatore Capone,  in arte Gaetano Di Vaio,  andrà a dormire “perché aveva sonno”.

Fabrizio Giulimondi

domenica 14 luglio 2013

FABRIZIO GIULIMONDI: LEGGETE "AVEVANO SPENTO ANCHE LA LUNA" DI RUTA SEPETYS, E' IMPERDIBILE!

Avevano spento anche la lunaNon è affatto facile commentare un romanzo storico come Avevano spento anche la Luna della scrittrice lituana Ruta Sepetys (Garzanti), che alla sua ottava edizione fortunatamente continua a riscuotere portentoso successo fra il pubblico.
Non è per nulla agevole perché quando si parla di uno dei tanti stermini che il comunismo ha compiuto nel mondo; quando si affronta la storia di popoli deportati solo perché si rifiutano di assoggettarsi al dominatore russo; quando si ricordano famiglie cancellate in quanto non allineate in ogni pertugio all’ideologia marxista; quando l’attenzione va a individui orribilmente destrutturati sino alla peggiore eliminazione fisica e mentale, solo per la loro appartenenza a categorie professionali disprezzate da Josif Stalin, scrivere, valutare, recensire, analizzare, scrutare, viene avvolto tutto in una nube tossica di rabbia, di inquietudine e di impotenza, che offusca l’azione intellettiva di chi approccia il testo, il quale si pone una semplice domanda: perché nelle scuole italiane (e non solo) di queste vicende, di fatti che hanno coinvolto decine di milioni di essere umani, non si parla o se ne parla poco e in modo superficiale?
Dei milioni di morti, di torturati nel corpo e nell’anima, di deportati  mutilati anche dei più minimali diritti ad opera dei seguaci della falcia e martello, vi sono unicamente sparute reminiscenze nei libri scolastici.
Nel 1940 l’Unione Sovietica occupò gli Stati baltici di Lituania, Lettonia ed Estonia. Di li a breve il Cremlino emanò elenchi di persone considerate antisovietiche che sarebbero state uccise, imprigionate o deportate in schiavitù in Siberia. Medici, insegnati, avvocati, membri dell’esercito, scrittori, imprenditori, musicisti, artisti e persino bibliotecari, tutti erano considerati antisovietici e vennero aggiunti alla lista sempre più lunga di coloro destinati allo sterminio di massa.
Le prime deportazioni ebbero luogo il 14 giugno 1941.
Quel giorno, fra le decine di migliaia di uomini e donne, ragazzi e bambini, prelevati dalla polizia segreta politica N.K.V.D. (poi diventato il famigerato K.G.B.), v’è Lina Vilkas con sua madre Elena e il fratello Jonas. Il padre Konstas è già scomparso fra i dedali dell’inferno rosso. Konstas, marito gioviale di Elena e affettuoso padre di Lina e Jonas, ha una colpa imperdonabile sanzionabile con il dolore e la morte: è il rettore della università!
Inizia il “viaggio”.
Durerà sei settimane.
Sarà fatto su un treno generalmente adoperato per il trasporto dei maiali.
Nei vagoni saranno stipati centinaia di disperati che dormiranno dove defecano, urinano, vomitano, si nutrono (si nutrono?), bevono (bevono?), muoiono.
Fra i criminali, più precisamente ladri e  prostitute – questa è la dicitura riportata sulle lamiere esterne del treno -   v’è anche un neonato strappato alla madre appena reciso il cordone ombelicale: perirà maciullato fra i binari dove è stato gettato in corso dal buco della latrina.
I “porci” i “fascisti” compiono un viaggio allucinante per sei settimane, al cui termine giungeranno in un luogo che crederanno l’inferno, non conoscendo ancora la Geenna vera, la meta finale: la Siberia. È li che Lina condurrà dodici anni della sua esistenza. La condanna penale inferta da un tribunale del popolo è di venticinque, per essere stata concepita da Constas Vilkas, delinquente per il regime russo per ricoprire il ruolo rettore della università.
Le temperature ricordano quelle descritte in Centomile gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi. L’incubo vissuto dai personaggi – tutti egualmente potenti, senza distinzione di importanza e presenza nella trama, dal Calvo, all’Uomo che caricava gli orologi, all’Uomo dai capelli grigi, alla Bambina con  la bambola, alla Scorbutica – richiama alla mente subitaneamente quello vissuto in Arcipelago Gulag da Aleksandr Solzenicyn. Lina: “ …Dissenteria, tifo e scorbuto si diffonderanno nel campo. I pidocchi banchettavano sulle nostre piaghe aperte “.
I detenuti vivevano nelle yurte da loro stessi costruite con le nude mani su una lastra di pietre e ghiaccio con pezzi di tronchi, fango, sabbia e muschio, e il luogo del massacro era l’Artide, ai confini del Polo Nord, mentre le guardie rosse vivevano al caldo ben nutrite, fisicamente pronte ad impartire ai prigionieri la quotidiana dose di sevizie e umiliazioni.
Ma il comunismo nella sua ferocia non è riuscito a togliere la fede e l’amore a quelle popolazioni. E il Natale, nonostante loro, sarà nascostamente festeggiato, lodando il bambino Gesù di essere ancora lì, ancora vivi, ancora uniti.
Lina è una artista, disegna abilmente con le mani aggraziate di una ragazza di  quindici anni. Userà pezzi di carta su cui imprimerà figure e immagini, grazie alle quali vorrà fare sapere cosa è diventata la sua vita e da chi e cosa è circondata. I disegni saranno adoperati come messaggi,  un po’ come nella fiaba di  Pollicino, passandoli all’insaputa dei carnefici, a chiunque incontri, in modo che di mano in mano possano arrivare al padre, per fargli sapere che sono ancora vivi, per chiedergli di sbrigarsi a tornare da loro per liberale, perché il padre aveva il difetto di essere in ritardo. Invia nell’ombra queste rappresentazioni grafiche al papà che non  si sa dove sia, non si sa se sia ancora vivo.
In quella assoluta e tenebrosa assenza di umanità, in quel concentrato di odio e di violenza, v’è uno sprazzo di umanità, nel medico che arriva inaspettato nel gulag, inviato da una giovane appartenente all’Armata Rossa, la cui coscienza riesce a bucare lo strato cementificato dell’indottrinamento ideologico del socialismo reale.
La giornaliera angoscia dove non sussiste alcun barlume di luce è descritta straordinariamente dalla Autrice e dai suoi personaggi (di cui il medico è l’unico realmente esistito, mentre gli altri simbolicamente esprimono i venti milioni di deportati e ammazzati dal regime comunista sovietico negli anni dell’impero stalinista) con il Salmo 102 della Bibbia, che, fra l’altro, recita: “i  miei giorni declinano come ombre e io come erba inaridisco”. E ancora Lina, amante dell’arte del pittore norvegese  Edward Munch, in un passo dell’opera, esclama: “Munch è principalmente un poeta lirico del colore. Lui sente i colori, ma non li vede. Invece vede il dolore, il pianto e l’inaridimento.”. Dolore, pianto, inaridimento: il gulag, il campo di concentramento, le eliminazioni di massa di tutti quelli che non sottostanno all’U.RS.S., che osavano non essere russi, che si ribellavano alla dittatura totalitaria comunista, totalitaria come il nazionalsocialismo, con cui Stalin aveva fatto il patto di non aggressione nel 1939 (c.d. “Patto segreto Molotov – Ribbentrop”).
Nonostante il buio più profondo, ove non sussiste alcun lontano baluginio di bagliore, l’amore nella famiglia, la solidarietà ove tutto manca, la fede in Dio, non cessa di esistere: ”Al fine ho imparato che, anche nel profondo dell’inverno, dentro di me regnava un’indicibile estate” (Albert Camus).
Il contrasto fra presente e passato, orrore demoniaco e il caldo tepore degli affetti familiari del prima, la netta linea di demarcazione fra nero e bianco, fra  scuro e chiaro, viene posto in evidenza al termine di molti paragrafi, ove in corsivo viene riportato il racconto di uno stralcio di vita di “ieri”, agganciato agli eventi, alle parole, alle  espressioni, alle  immagini, alle idee, che si rinvengono nella storia dell’”oggi”.
La truculenta e bieca malvagità di “oggi” si impatta con un momento che rimanda allo “ieri”, quando  Lina e Jonas vivevano nella loro bella casa con i genitori e il tempo trascorreva placido fra compiti, studi, disegni, letture, compleanni e normalità, sino all’affacciarsi del Male Assoluto, sotto la specie visiva del volto di Josif Stalin, sotto la visuale estetica della Armata Rossa, sotto il rumor di ferraglia della occupazione che questa compirà delle Nazioni baltiche e della brutalità della stella rossa nella abitazione dei Vilkas, da dove la famiglia  verrà strappata ancora in vestaglia, in procinto di andare a letto.
La inesistenza  di anima nel gulag non toglie la capacità di provare affetti a chi la nobiltà ce l’ha dentro: Lina si innamorerà del giovane Andrius – padre vittima della barbarie del sol dell’avvenire e madre costretta a prostituirsi per far si che non facciano saltare il cervello al figlio-  e, così come la Divina Provvidenza riunirà Renzo e Lucia, i due ragazzi si ritroveranno.
Struggente il finale: Lina e Andrius lasceranno in seno alla terra nera pregna del sangue lituano, le loro memorie e i loro disegni, perché il giorno in cui saranno scoperti, il mondo sappia, racconti, non dimentichi e non ripeta.
Questo libro va letto perché troppi silenzi, nascondimenti e omertà vi sono intorno alla ideologia comunista, consentendo ancora uno stravagante alone romantico di giustizia sociale, quando il marxismo, nelle sue variegate sfaccettature, versioni  e interpretazioni, ha condotto alla morte  circa C-E-N-T-O  M-I-L-I-O-N-I D-I P-E-R-S-O-N-E, oltre allo svuotamento interiore di intere popolazioni dell’est europeo e di una consistente porzione dell’Asia, che dal 1991 stanno affrontando una difficile, travagliata e lunga transizione democratica, economica, sociale e spirituale.
Questo libro, di straordinaria tragicità, in alcuni suoi passaggi particolarmente impressionante, deve essere letto per non vedere più in manifestazioni giovanili sventolare la bandiera rossa con la falce e martello, perché quel simbolo è menzione di morte, di fame, di sete, di distruzione, di annientamento di generazioni intere di uomini e donne, ragazzi e ragazze, di umiliazione, di sofferenza e tortura, di negazione dei più ancestrali diritti di ogni persona, di cancellazione di Dio.
Ruta Sepetys, dopo una lunga ricerca attraverso le rimembranze  della propria famiglia, dei suoi parenti, dei suoi amici, ci consegna pagine memorabili di commozione, lacrime, dolore, rabbia, odio, dolcezza, sentimenti e resurrezione.
Un terzo di lituani, estoni e lettoni non ci sono più, cancellati nei gulag: i loro nomi anonimi saranno ricordati ad uno ad uno mentre leggerete Avevano spento anche la Luna…..nella notte polare delle prigioni siberiane.
“Mi hanno tolto tutto. Mi hanno lasciato soltanto il buio e il freddo. Ma io voglio vivere. A ogni costo.”.
Fabrizio Giulimondi


mercoledì 10 luglio 2013

"RESISTERE NON SERVE A NIENTE" DI WALTER SITI, VINCITORE DEL PREMIO STREGA 2013

Mi chiedo quale sia la ragione per la quale il Premio Strega 2013 sia stato assegnato al   romanzo storico-contemporaneo “Resistere non serve a niente” di Walter Siti (Rizzoli).
Attraverso la narrazione della vita, delle vicissitudini, dei fatti e dei misfatti di Tommaso viene raccontata l’alta finanza e, per mezzo della di lui “fidanzata” (come si possono essere fidanzate in quell’ambiente) Gabriella,  l’alta moda.
Tommaso è un ragazzo di una  borgata romana, figlio di un criminale in vinculis, intabarrato nel proprio lardo a causa di assunzione di troppo cibo da disfunzione alimentare. Il ragazzo ha però cervello: molto capace in matematica si laurea in economia e commercio e, dotato di fino intuito per la macroeconomia, vola verso il mondo dell’alta finanza. Qui gestisce masse informi di denaro “fantasma”, senza alcun aggancio alla attività produttiva reale dell’uomo. E’ denaro e basta e  gli consente una vita oscenamente di lusso e completamente priva di etica.
L’Autore gongola nella descrizione di ammucchiate, manifestando la propria preferenza per la sodomia. Si palesa al lettore la conoscenza attenta di Siti per gli scritti di Pier Paolo Pasolini -  di cui ha curato tutte le opere – tanto che possiamo dire che "Resistere non serve a niente” è la trasposizione di  Ragazzi di vita e Una vita violenta nel mondo del lusso, del sesso (rigorosamente consumato senza alcun sentimento), del’Apparire sull’Essere e del denaro, tanto denaro, denaro che vorticosamente rotea intorno a vite insulse, luride. L’Autore, facendosi aiutare da molti consulenti, compie una panoramica, anche di natura terminologica e gergale, sulla finanza internazionale e sulle  sue contiguità con le grandi organizzazioni malavitose  transnazionali.
Al termine della lettura, però,  non rimane nulla, tranne il nichilismo che si coglie già nel titolo e che non lascia alcun residuo di  speranza, nessuna  luce dopo il buio.
Forse, a parte le orge lesbico - sodomitiche, il sogno descritto da Walter Siti in cui  Berlusconi viene vivisezionato, smembrato e scuoiato, ha solleticato parte della Giuria e dei Grandi Elettori, consentendo il riconoscimento del più prestigioso premio letterario italiano ad una opera  anni luce al di sotto,  per qualità, contenuti, valore, forza, comunicazione, coinvolgimento ed estetica, al secondo classificato Le colpe dei padri di Alessandro Perissinotto (recensito in questa stessa Rubrica).


Fabrizio Giulimondi

lunedì 8 luglio 2013

RICCARDO MUTI AL TEATRO DELL'OPERA: LEZIONE SU VERDI E IL NABUCCO

Ho assistito alla lezione che Riccardo Muti ha mirabilmente tenuto al Teatro dell’Opera di Roma questa  sera 8 luglio sulla vita di  Giuseppe Verdi e sul  Nabucco, opera scritta dal sommo Maestro nel 1862.
Forse il più grande direttore dì orchestra al mondo ha spiegato ogni singolo passaggio della sinfonia con accuratezza ed ironia, aiutato   da  cinque cantanti operistici, attraverso le cui voci l’udito dello  spettatore ha passato  in rassegna   tutti i timbri vocali.
Verdi è il più grande musicista italiano e le sue melodie hanno accresciuto e arricchito l’Umanità di armonia e bellezza. Eppure, come ha detto Riccardo Muti, l’esecuzione di un brano di Mozart, di Beethoven, di Schubert è realizzata da parte del pianista  con un atteggiamento corporeo, con una postura, con una movenza e una gestualità delle mani che imprimono alle note una solennità e una grazia che non si rinvengono  nelle esecuzioni italiche ed estere dei  lavori verdiani.
Storpiamo anche la grandezza dei nostri più grandi compositori! Siamo esterofili anche nella mise en scene delle opere concertistiche dei giganti della musica classica patria, diminuendo il sublime che v’è nei nostri Autori e implementando oltre misura le cadenze e le armonie straniere.
Come ha detto il Maestro Muti, dobbiamo riconsegnare alla nostra musica quell’aura di sacralità, di religiosità, di nobiltà e  di aristocrazia che spetta ad ogni  stella del firmamento lirico italiano, dando la possibilità  ai tanti giovani talenti italiani di palesarsi nei palcoscenici dei prestigiosi teatri della Penisola.


Fabrizio Giulimondi

martedì 2 luglio 2013

"ACCABADORA" DI MICHELA MURGIA


Con il termine sardo femina accabadora, oppure femina agabbadòra, comunemente accabadora (s'accabadóra, "colei che finisce", probabilmente dallo spagnolo acabar, "finire", "terminare") si suole  indicare una donna che uccideva persone anziane in condizioni di malattia tali da portare i familiari o la stessa vittima, a richiedere l’ eutanasia. Non c'è unanimità sulla storicità di queste figure, non ritenendo molti antropologi che siano realmente esistite, mentre  quelli ad esse favorevoli, valutano che  il fenomeno si sia sviluppato solamente nell’ area delle Marghine, di Planargia e della Gallura.

La pratica non doveva essere retribuita dai parenti dell'anziano essendo la liquidazione di un compenso contraria ai dettami religiosi e della superstizione.

Diverse sono le pratiche di uccisione utilizzate dalla  accabadora: si dice che entrasse nella stanza del morente vestita di nero e con il volto coperto, togliesse dall'ambiente ogni tipo di manufatto riconducibile alla sfera del sacro e  procedesse alla sua eliminazione  tramite soffocamento con un cuscino. E’ così che l’”Accabadora” raccontata da Michela Murgia (Einaudi Numeri Primi), vincitrice del Premio Campiello 2010, pratica la “dolce morte” agli anziani di un piccolo villaggio sardo nel protrarsi della prima guerra mondiale.
La storia parte lenta, sonnecchiante, un po’ noiosa, talora di non facile comprensione, fra costumi, riti e curiosità culinarie  sarde.  Con il trascorrere della lettura la narrazione si fa però  avvincente, lievemente ansiogena e inquietante, se vogliamo a tinte fosche.
Due sono le protagoniste: Tzia Bonaria, sarta ma, alle bisogna,  accabadora,  e Maria, la di lei fill’e anima, antico istituto giuridico  sardo che consentiva ad una famiglia povera di dare in una sorta di adozione  o affidamento un figlio ad una persona, anche sola, ma in agiate condizioni economiche.
Tzia Bonaria prende con sé Maria, crescendola dall’ età di otto anni ai dodici come una figlia, finché quest’ultima scopre il secondo vero mestiere della “madre”, al momento in cui viene praticato su un ragazzo che, nel compimento di una azione vandalica incendiaria, era stato attinto ad una gamba da una pallottola, arto che gli sarà amputato una volta divenuto putrescente.
Maria fuggirà nel  continente ove farà la bambinaia a Torino a due ragazzi, una bambina e un adolescente, che porta con sé  un segreto. Del tragico  mistero ne sarà partecipe Maria e tale conoscenza muterà il rapporto fra i due, non più di tata e fanciullo. La ragazza tornerà, cacciata dall’ alcova, nell’ Isola, dove troverà la madre adottiva devastata da un ictus…… e ciò che aveva giurato che mai avrebbe fatto, sarà compiuto!



Fabrizio Giulimondi