martedì 3 settembre 2013

FABRIZIO GIULIMONDI: RELAZIONE SUL FENOMENO DEL "TERRORISMO" ESAMINATO SOTTO LA VISUALE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE, EUROPEO E COMPARATO


·        Premessa

Nelle ultime decadi, un gran numero di strumenti giuridici in materia di terrorismo internazionale sono stati prodotti, con un'impennata della attività normativa  tanto internazionale quanto nazionale  dopo i tragici eventi dell'11 settembre 2001.


Non che sia facile, in questo momento, immettere norme nel tessuto connettivo ordinamentale interno, comunitario ed internazionale, in questa materia, tanto più che già prima il fenomeno mal si prestava ad essere combattuto con i  soli mezzi di contrasto del diritto penale: la storia non si presta facilmente ad essere compressa nelle aule di giustizia.
L'azione terrorista può legarsi a qualsivoglia obiettivo, ideologia politica o concezione religiosa (purtroppo non solo a quella  islamica o Sik ma anche a quella cattolica che è stata posta alla base della “guerra”  - per fortuna cessata -  dell’I.R.A. in Irlanda del Nord avverso l’esercito unionista) e,  indifferentemente, ad un determinato territorio o nazione, nonché costituire il braccio armato di movimenti di liberazione nazionale, ovvero avere le caratteristiche di rete terroristica transnazionale.

Il fenomeno terroristico esprime  sempre più un altissimo livello di pericolosità: l’incidenza delle condotte  terroristiche sulla sicurezza delle popolazioni, invero, è aumentata in presenza  di una serie di condizioni, non ultime la vocazione dei terroristi a suicidarsi (riprendendo la tradizione scintoista praticata in Giappone durante la seconda guerra mondiale dai kamikaze) per portare lo sterminio fra la popolazione civile inerme (prevalentemente donne e bambini), oltre l’utilizzo del progresso tecnologico.


Gli Stati hanno  in qualche maniera  perso il monopolio della minaccia agli altri Stati: la sfida proviene da singoli  individui o reti che agiscono a livello sub-statale e non territoriale, che utilizzano materiali e risorse che sfuggono al monopolio statale.

L’aggravamento della minaccia terroristica ha riflessi di non poco momento sulla  repressione di ordine penale, ponendola sempre più in contatto la materia giuspenalistica  con gli interventi di ordine militare.

È diventato arduo, inoltre, individuare quale siano gli Stati legittimati a procedere contro i terroristi. Si sono fatti evanescenti i criteri di collegamento  territoriale per il corretto esercizio della giurisdizione, tendendo a ridursi ad uno: quello della nazionalità delle vittime.

In alternativa a questo percorso la Comunità internazionale provvede alla istituzione di organi giurisdizionali sopranazionali.  


Vi è, poi, il modo in cui la Comunità internazionale ed i singoli Stati hanno affrontato la questione della individuazione e della punizione dei colpevoli. È noto come l'emergenza abbia indotto alcuni Stati, segnatamente  gli Stati Uniti, a trovare vie di cooperazione diverse da quelle tradizionali, soprattutto in materia d'estradizione,  e come tale approccio abbia incontrato resistenze nei Paesi europei, anche a causa della istituzione, negli USA, di tribunali speciali per i crimini di terrorismo. La stessa applicazione della pena capitale in molti Stati della Confederazione statunitense rappresenta  non solo per l'Italia un  ostacolo all'estradizione attiva verso gli USA.
Quanto alla Comunità internazionale, essa ha risposto all'attacco massiccio del terrorismo in modo imponente. Anche qui non sono mancate, tuttavia, le polemiche, vuoi legate all'organismo da cui promanano gli strumenti apprestati, vuoi legate alla rigidità di questi ultimi.
Sotto il primo profilo, si è lamentato che la reazione delle Nazioni Unite alla minaccia terroristica si sia fondata quasi esclusivamente su Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza: non sono pochi a ritenere che quest'ultimo, nel disporre in materia di terrorismo, abbia applicato in modo troppo estensivo il concetto di tutela della pace e della sicurezza mondiale, così operando una vera e propria invasione di campo ai danni della Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Sotto il secondo profilo, è stato soprattutto il sistema del congelamento dei beni dei terroristi,  unitamente alla  redazione delle liste di terroristi (ricordo sommessamente che Hamas che ha ministri nel governo della Autorità palestinese e il braccio politico di  Ezbollah che ne ha nel governo libanese sono in questa lista) da parte del Comitato sanzioni del Consiglio di sicurezza e del Consiglio dell'Unione europea,  a suscitare rilievi. Le critiche investono in particolare l'automatismo del meccanismo del congelamento e l'impossibilità, per le autorità nazionali amministrative e giudiziarie, di compiere qualsivoglia valutazione sulla congruità dell'inserimento del soggetto nella lista.
Le prime difficoltà stanno sorgendo anche a livello nazionale, nel momento in cui la legislazione introdotta nel dicembre 2001 comincia ad entrare nella fase applicativa. Il concetto di ''associazione terroristica di stampo internazionale'', in particolare, non ha ancora trovato una certa definizione sistemica: l'interpretazione di questa figura criminosa a partire dall’orrore dell'11 settembre divide i nostri tribunali degli ordinamenti statuali, soprattutto per quanto riguarda l'elemento dello scopo terroristico, che per alcuni deve esternarsi nel proposito serio e preciso di compiere atti di violenza determinati, mentre per altri  può avere carattere generico.










Il fenomeno del terrorismo, in aggiunta a questioni politiche, etiche e di strategia militare, solleva numerose questioni di diritto, che spesso trovano il loro presupposto nella questione della definizione.
Il tema è antico, ma torna periodicamente d'attualità: dopo i tragici eventi delle Twin Towers molto si è dibattuto se tutti i Talebani, e non soltanto i militanti di Al Qaeda, dovessero considerarsi terroristi. Gli accadimenti degli ultimi mesi e gli studi sulla  struttura sociale delle comunità talebane dimostrano che esse sono tutte composte da tribù ricollegabili alla etnia pastun, tutte unite nel credo islamico fondamentalista, codificato nel “decalogo” dei divieti e dei doveri del buon mussulmano -  “decalogo” che incarna il diritto talebano che ha regolato  la vita della popolazione afghana sino all’intervento bellico nel novembre 2011 -  e tutte praticanti la metodologia terroristica  tradizionale( sequestri e taglio della gola) e moderna (kamikaze e uso di armi da guerra, anche di potenza micidiale). Sicuramente i talebani sono terroristi che per cultura e tradizione si differenziano dalla pratica del terrore  islamica fondamentalista siriano – iraniana e arabo – palestinese, non appartenendo né all’area culturale – religiosa  sciita né a quella sunnita.

   Ad ogni modo solo i più oltranzisti tra i paesi islamici, oramai, rifiutano di considerare atti di terrorismo gli attacchi contro civili operati dalle 'bombe umane' palestinesi, afghane o irachene (con una robusta partecipazione da parte dei servizi iraniani) ma è significativo ricordare che fu proprio la qualificazione dei kamikaze palestinesi come terroristi ad impedire ai Paesi membri dell'Organizzazione della Conferenza Islamica nell'aprile del 2003  di accordarsi su di una definizione flessibile del fenomeno, idonea ad includere i palestinesi suicidi.


Sul piano del diritto internazionale, il punto è cruciale: dire che cosa si intenda per terrorismo significa stabilire i confini del fenomeno, con riferimento non solo ai reati comuni dello stesso tipo  omicidio, sequestro di persona, etc.  ma anche, e soprattutto, rispetto a condotte che il diritto internazionale considera  legittime se compiute da Stati sovrani.


La questione della definizione di terrorismo costituisce, a ben vedere, il presupposto di qualsiasi analisi di diritto internazionale condotta in questo settore: ad esempio,  se gli atti di terrorismo siano in sé 'illegali' secondo il diritto internazionale, e su quali basi; in quali circostanze uno Stato  vittima possa legalmente rispondere con le armi ad atti di terrorismo e nei confronti di chi; quando ci si trova innanzi ad un terrorista individuale, ad uno Stato che sostiene l’azione terroristica (c.d. “Stati  canaglia”),  ovvero che semplicemente la tollerano. In sintesi: quando l'uso  della forza militare in campo internazionale sia legittimo.


È, qui, coinvolta la delicatissima questione della giustificabilità degli atti di terrorismo, anche da un punto di vista strettamente penale: si pensi al rilievo della questione della motivazione politica della condotta ed alle conseguenze in tema di estradizione. I fatti dell'11 settembre 2001 hanno, d'altra parte, determinato l'accelerazione di un processo che era già in atto sul piano internazionale, e che si risolve nella caduta di una serie di barriere, in materia soprattutto di cooperazione giudiziaria e di diritto di asilo, nei confronti di chi venga considerato 'terrorista' e, nell'applicazione di tutta una serie di sanzioni  non di natura bellica (congelamento dei beni, embargo ecc.) nei loro confronti.
   Va, infine, ricordato che l'armonizzazione delle legislazioni è momento fondamentale della lotta al crimine: le strutture che operano a livello internazionale, con basi in diversi Paesi, sfruttano i vuoti giuridici spesso derivanti dai limiti geografici delle indagini; inoltre, le differenze nella costruzione dei reati costituiscono un serio ostacolo alla cooperazione giudiziaria e di polizia: basti pensare al fatto che la doppia incriminabilità è considerata condizione indispensabile di molte forme di assistenza giudiziaria e di estradizione.


Astrattamente, non è difficile costruire una definizione di terrorismo. Essa dovrebbe includere tre elementi essenziali: a) violenza (attuale o minacciata); b) obiettivo 'politico' (anche se misto ad una spinta religiosa) comunque concepito; c) 'audience' tendenzialmente vasta (supportata da un abile uso del mezzi di comunicazione di massa, incluso l’”odiato” internet).


La definizione di 'atto di terrorismo' potrebbe, quindi, essere, più o meno, la seguente: "minaccia o uso di violenza con l'intento di causare timore in un determinato gruppo di persone, al fine di conseguire un obiettivo politico".
Questo è, in effetti, a grandi linee, lo schema seguito nelle legislazioni nazionali, rispetto alle quali, in ogni caso, la questione della definizione di terrorista, atto terroristico, finalità terroristica difficilmente costituisce un problema: a livello interno è facile intendersi, perché il parametro è costituito dai soggetti o organizzazioni che, in quel determinato momento storico, esercitano una minaccia qualificata contro quello Stato ( ad es. in Italia le Brigate Rosse o l’Eta in Spagna). La questione sarà, nei casi concreti, risolta dagli interpreti. Questo è il motivo per cui i legislatori nazionali sovente non sentono neppure il bisogno di definire il fenomeno.
L'elemento della finalità politica è di indubbia essenzialità, perché consente di distinguere l'atto di terrorismo da analoghi reati comuni (ad esempio dagli omicidi di un serial killer). Tuttavia, è assai raro riscontrarne la presenza non solo negli strumenti internazionali (convenzionali o no), ma anche nelle legislazioni antiterrorismo nazionali.

·          La Decisione quadro del Consiglio sulla lotta contro il terrorismo


La Decisione quadro non fu emessa allo scopo di fornire una definizione di terrorismo, che servisse da modello per i Paesi dell'Unione Europea: la finalità di tale Atto era l'armonizzazione delle legislazioni nazionali, affinché le divergenze tra le normative non costituissero un ostacolo nella cooperazione giudiziaria e di polizia per reati di terrorismo. In qualche modo, tuttavia, può dirsi che l'Unione Europea si è indirettamente inserita   con questo strumento  nel dibattito sulla definizione di terrorismo.


La base giuridica della Decisione quadro è costituita dall'art. 31 lett. e)  e dall'art. 34, paragrafo 2, lettera b) del Trattato sull'Unione Europea. Essa, come tutti gli strumenti di questo tipo, è ''vincolante per gli Stati membri quanto al risultato da ottenere, salve restando la competenza delle autorità nazionali in merito alla forma e ai mezzi.


Al momento in cui fu emesso il provvedimento, si riscontravano, in effetti, notevoli divergenze nelle legislazioni nazionali dei Paesi membri, tuttora in parte esistenti: alcuni Stati non hanno norme specifiche in materia di terrorismo e sanzionano gli atti terroristici come reati comuni; altri hanno leggi nelle quali i termini "terrorismo" o "terrorista" compaiono esplicitamente, senza definizioni di sorta.   Tale è il caso della Germania e dell'Italia (ove, peraltro, si fa anche riferimento alla ''eversione dell'ordine democratico''). In altri casi si utilizzano, per indicare il fenomeno terrorismo o la finalità terroristica, circonlocuzioni di vario tipo: il codice penale francese fa riferimento ad atti che turbano gravemente l'ordine pubblico con l'intimidazione o il terrore; il codice penale portoghese parla di pregiudizio agli interessi nazionali, di alterazione o sovvertimento del funzionamento delle istituzioni di Stato, di costrizioni nei confronti delle pubbliche autorità e di intimidazioni alle persone o alla popolazione. Il codice penale spagnolo, similmente a quelli francese e portoghese, allude alla finalità di sovvertire l'ordine costituzionale e di turbare gravemente la pace pubblica.


La legislazione del Regno Unito in materia, il Terrorism Act del 2000, è probabilmente quella che affronta il tema in modo più compiuto e sistematico. Il terrorismo vi è definito come un'azione o una minaccia d'azione mirata a "influire sul governo o a intimidire la popolazione o una parte di essa", con "l'azione o la minaccia d'azione compiuta allo scopo di promuovere una causa politica, religiosa o ideologica". Tale azione deve comportare "violenze gravi contro una persona", "gravi danni ai beni" o determinare ''un grave rischio per la salute e la sicurezza della popolazione o di una parte della popolazione".  


La Decisione quadro si applica a tutti i reati di terrorismo preparati o commessi all'interno dei confini dell'Unione Europea, indipendentemente dal loro obiettivo, compresi gli atti terroristici contro gli interessi di Stati che non sono membri dell'Unione Europea, ove compiuti sul territorio dell'Unione. Da questo punto di vista, la Decisione riflette pienamente l'impegno della Unione Europea nella lotta contro il terrorismo a livello mondiale, e non soltanto nel proprio limitato ambito.
Questo provvedimento non contiene soltanto articoli in tema di definizione di reati terroristici e sanzioni, ma anche disposizioni in materia di cooperazione giudiziaria, di scambio di informazioni, di protezione ed assistenza alle vittime, all'art. 1 fornisce un ampio elenco di reati terroristici, imponendo agli Stati membri l'obbligo di garantire che essi siano puniti come tali.
La maggior parte di tali condotte è già considerata come reato nei codici penali degli Stati membri, ma sovente, come detto, è considerata reato comune. La Decisione quadro impone che, quando tali condotte sono compiute intenzionalmente da un individuo o un'organizzazione contro uno o più paesi, le loro istituzioni o popolazioni (intendendo per popolazioni anche le minoranze) a scopo intimidatorio e al fine di sovvertire o distruggere le strutture politiche, economiche o sociali di tali paesi, tali reati siano considerati reati terroristici. Si è, in tal modo, con riferimenti testuali sia a legislazioni degli Stati membri, sia a convenzioni internazionali, tentato di offrire una definizione della cosiddetta 'finalità politica', elemento di indubbia essenzialità in questa materia, poiché consente appunto di distinguere l'atto di terrorismo da analoghi reati comuni.

D’altronde è il “movente”politico l’elemento essenziale, anzi unico, che muove l’azione terroristica. L’azione terroristica si identifica con lo scopo politico. L’azione terroristica è modalità di azione politica, è politica “pura” che si esplica e agisce per il tramite del mezzo violento. I terroristi concepiscono la politica come violenza e l’imposizione della propria visione politica manu militari. Scindere il fenomeno terroristico dalla sfera della politica è un non senso ed è irrealistico. Il terrorismo islamico l’11 marzo 2005 ha probabilmente scelto il governo di Madrid: è un dato di fatto, avvalorato dai politologi, che Zapatero non avrebbe mai vinto le elezioni se Al Qaeda non avesse messo le bombe alle stazioni madrilene e Aznar non avesse spudoratamente mentito sulla matrice interna della loro collocazione.

 Molte volte le organizzazioni terroristiche possiedono una raffinata capacità e strategia  politica , tanto che,  prima di agire , studiano dettagliatamente la situazione politica, partitica, sindacale, economica, sociale e finanziaria dello Stato ove vogliono compiere la propria opera distruttiva.
 Tra le condotte rilevanti figurano, anche se solo minacciate: l'omicidio; le lesioni personali gravi; i sequestri di persona; la cattura di ostaggi; le distruzioni di vasta portata di strutture pubbliche o private (ove potrebbero rientrare gli atti di violenza urbana), di infrastrutture, compresi i sistemi informatici, nonché mezzi di trasporto; la fabbricazione e fornitura di armi o esplosivi, comprese le armi atomiche, biologiche e chimiche; la diffusione di sostanze contaminanti; gli incendi, le inondazioni o esplosioni; l'interruzione della fornitura di acqua, energia o di altre risorse fondamentali.


Come si vede, sono prese in considerazione anche condotte, come quelle contro l'ambiente, meno violente di quelle che attentano direttamente alla vita ed alla integrità della persona, ma, tuttavia, potenzialmente altrettanto dannose.
L'art. 2.2 prevede la punibilità delle condotte di direzione, partecipazione e finanziamento, in qualsiasi forma, di una organizzazione terroristica.
Di essa si fornisce al comma 2,1 una definizione che riprende il testo dell'Azione Comune 21 dicembre 1998 relativa alla incriminazione ed alla partecipazione ad una associazione criminale: organizzazione strutturata, di più di due persone, stabile nel tempo, che agisce in modo concertato allo scopo di commettere dei reati terroristici. La formulazione di questo comma lascia agli Stati membri la facoltà di decidere come definire esattamente il reato di partecipazione ad organizzazione terroristica: non è facile, in effetti, fornire una definizione di associazione criminale valida per tutti i Paesi europei: qui si trattava, invero, di armonizzare le legislazioni di ordinamenti i sia di civil law, cui è nota la figura della 'association de malfaiteurs', e di common law, che non conoscono nei loro sistemi l'associazione per delinquere, ma solo la 'conspiracy', istituto che sta a metà strada tra l'associazione per delinquere ed il concorso di persone nel reato.


   La Decisione quadro del Consiglio è mezzo normativo quanto mai opportuno, dal punto di vista della facilitazione della cooperazione giudiziaria e di polizia tra gli Stati europei in materia di terrorismo,  aggiungendosi ad altri importanti atti giuridici europei specificamente rivolti – talora in via esclusiva, talora assieme ad altri gravi reati – alla lotta al terrorismo. Vanno richiamati in particolare la Decisione Quadro del Consiglio relativa alle squadre investigative comuni (13 giugno 2002); la convenzione Europol , la cui competenza fin dal 3 dicembre 1998 si estende anche ai reati di terrorismo, ed all'interno della quale il 21 settembre 2001 è stata costituita una squadra specializzata in materia di lotta al terrorismo; la Decisione del Consiglio 28 febbraio 2002 relativa alla costituzione di Eurojust; la Decisione quadro del Consiglio relativa al mandato d'arresto europeo ed alle procedure di consegna tra Stati membri del 13 giugno 2002.
   Tra gli strumenti preesistenti all'11 settembre, ma di rilievo nella lotta al terrorismo, vanno richiamate le convenzioni relative alla procedura semplificata di estradizione tra gli Stati membri dell'Unione Europea (10 marzo 1995) ed all'estradizione tra gli Stati membri dell'Unione Europea (27 settembre 1996), contenenti previsioni importanti, come l'irrilevanza della motivazione politica ai fini della decisione sulla richiesta, per reati di terrorismo.
   Va inoltre ricordata l'Azione Comune del 21 dicembre 1998, relativa alla punibilità della partecipazione a un'organizzazione criminale negli Stati membri dell'Unione Europea, che affronta il tema dei reati di terrorismo e l'azione comune del 15 ottobre 1996 sull'istituzione e l'aggiornamento costante di un repertorio di competenze, capacità e conoscenze specialistiche nel settore dell'antiterrorismo, per facilitare la cooperazione fra gli Stati membri nella lotta al terrorismo.


V’ è poi, naturalmente, la normativa su cui si fonda, nell'Unione, il sistema del congelamento dei beni dei terroristi e, in particolare, il Regolamento del Consiglio n. 2580/ 2001  del 27 dicembre 2001 ed il Regolamento n. 881/2002/CE del 27 maggio 2002.






La Decisione quadro sull'armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di terrorismo ben potrebbe servire da modello in una convenzione contro il terrorismo delle Nazioni Unite.


Né questa, né altre definizioni, tuttavia, sono state mai accettate in tale ambito.


Qui, in effetti, la difficoltà di definire il terrorismo è politica, non giuridica: a differenza di ciò che avviene in ambiti regionali ristretti, quali l'Unione Europea o il Consiglio d'Europa, invero, a livello universale non vi è omogeneità di principi giuridici e, soprattutto, di politiche nei confronti del fenomeno terroristico.
   Quando le Nazioni Unite si posero per la prima volta il problema, negli anni '70 (vi erano stati ripetuti dirottamenti aerei a opera dell’OLP e di Settembre Nero), il dibattito si incentrò sulla necessità stessa di avere una definizione di terrorismo.
Da un lato vi erano coloro che ritenevano che una risposta normativa ad una condotta penalmente illecita non poteva ragionevolmente essere offerta se non ci si accordava su quale condotta fosse realmente proibita.

Altri ritenevano che fosse meglio procedere pragmaticamente, dal momento che un accordo sulla definizione probabilmente non sarebbe stato mai trovato: in quegli anni, invero, in piena guerra fredda, era difficile trovare una definizione di terrorismo comune ai due blocchi.
   Al tempo stesso, già all'epoca dovette prendersi atto del fatto che il costruire una definizione di terrorismo presentava aspetti di difficoltà tecnica non indifferenti.
   Ciò fu subito evidente ai componenti del Comitato ad hoc sul terrorismo, istituito dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1972.
   L'elemento della finalità politica, ad esempio, appariva ai più essenziale. E tuttavia, alcuni obiettarono che il suo inserimento nella definizione di terrorismo l'avrebbe possibilmente resa insufficiente a contenere tutti i possibili significati del termine. Si fece riferimento ad alcuni gravissimi crimini diretti contro la libertà individuale e, tuttavia,  non ispirati dalla motivazione politica, come la presa di ostaggi.  

All'interno del Comitato ad hoc, alcuni consideravano il terrorismo come caratterizzato da determinati tipi di condotta; altri ritenevano che fosse l'oggetto della condotta a distinguere il reato di terrorismo; altri ancora la finalità dell'agente.
   Ben presto alcuni Stati (prevalentemente a base religiosa islamica) sollevarono la questione del 'terrorismo di Stato' (pensando ad Israele): dal punto di vista strettamente giuridico, solo l'individuo può naturalmente essere giudicato 'terrorista'. Tuttavia, non è mancato nella storia delle Nazioni Unite chi ha fatto riferimento ad una nozione giuridica di terrorismo di Stato: talora il termine è stato utilizzato con riferimento a Stati che finanziano, addestrano o anche semplicemente incoraggiano i terroristi; talora, invece, l'espressione 'terrorismo di Stato' fu utilizzata semplicemente per stigmatizzare certa politica coloniale o l'invasione di altri Stati.

 
Ci si chiese, ulteriormente, se per essere considerato terrorista un individuo debba agire su spinta ideologica, ovvero se anche un mercenario – per esempio – possa essere ritenuto tale.


Le divergenze, all'interno del Comitato ad hoc, furono tali che nel rapporto all'Assemblea Generale, nel 1979, esso evitò ogni tentativo di offrire una definizione del fenomeno.

·        Terrorismo e lotte di liberazione nazionale


In effetti, deve riconoscersi che il mondo non concorda per nulla su chi debba considerarsi terrorista e chi no.

 Le divergenze non investono solo i casi-limite, ciò le organizzazioni la cui attività è al limite tra sovversione ed estremismo politico legale, e le cd. "umbrella organisations", che pur operando legittimamente a livello politico – contengono al loro interno o sono strettamente collegate ad organizzazioni di dichiarata matrice terroristica (basta pensare al partito nord - irlandese dello Sinn Féin braccio politico dell’IRA).
Il punto focale è, in realtà, costituito dalla qualificazione delle condotte poste in essere nel quadro delle lotte di liberazione nazionale.


Se gli Stati occidentali erano preoccupati che una definizione di terrorismo potesse essere utilizzata per includervi il 'terrorismo di Stato', mentre gli Stati africani e medio-orientali non hanno mai voluto accettare una definizione che – enfatizzando il ruolo di attori non statuali – non facesse differenze fra terrorismo in senso proprio e lotte di liberazione nazionale.
In linea generale, il diritto internazionale considera le lotte di liberazione nazionale legittime o, quantomeno, disciplinate da strumenti internazionali diversi da quelli penali, quali quelli rientranti nel diritto umanitario internazionale. Il formale riconoscimento, nella Carta delle Nazioni Unite (art. 1 par.2) del diritto dei popoli alla propria autodeterminazione costituisce il punto di riferimento fondamentale, ma vanno in proposito anche richiamate le Convenzioni di Ginevra del 1949 insieme ai due Protocolli addizionali del 1977.
   Proprio in forza della legittimazione offerta dalla Carta, il tema della differenza tra atti di terrorismo e lotta per l'autodeterminazione o per la liberazione da regimi oppressori, coloniali e razzisti fu ben presto portato all'attenzione delle Nazioni Unite dai Paesi in via di sviluppo, ottenendo – all'epoca – sostanziali riconoscimenti di principio: l'importante Risoluzione della Assemblea Generale n. 46/51 del 9 dicembre 1991, al paragrafo n. 15, sottolinea la sostanziale differenza tra terrorismo e diritto dei popoli, in particolare di quelli soggetti a regimi coloniali e razzisti, a lottare per l'autodeterminazione, la libertà e l'indipendenza. Nella Convenzione contro la presa d'ostaggi del 1979, all'articolo 12, le condotte poste in essere da chi lotta per la propria indipendenza furono, addirittura, espressamente escluse dal campo di applicazione della Convenzione.
   Già all'epoca, tuttavia, si stava parallelamente affermando il principio che nessuna protezione potesse essere riconosciuta dal diritto internazionale a coloro che, come i terroristi, violavano regole di condotta internazionalmente riconosciute e che, anzi, la reazione fosse, nei loro confronti, legittima.
   Fu dopo il raid in Libia del 14 aprile 1986 che gli Stati Uniti – chiamati a giustificare la violazione del territorio di uno Stato sovrano – sostennero, per la prima volta nella storia del diritto internazionale, che l'attacco perpetrato da individui od organizzazioni terroristiche  – e non da un altro Stato – poteva fondare l'esercizio del diritto di autodifesa (articolo 51 della Carta) e, pertanto, quello del ricorso all'uso della forza da parte dello Stato aggredito.


La reazione statunitense fu, all'epoca, condannata ex pluribus, ma suscitò una quantità di questioni di diritto internazionale: se gli atti di terrorismo siano in sé 'illegali' secondo il diritto internazionale e su quali basi; in quali circostanze uno Stato – vittima possa legalmente rispondere con le armi ad atti di terrorismo e nei confronti di chi: terroristi individuali, Stati che sostengono i terroristi ovvero che semplicemente li tollerano.

Tutto ciò che attiene, in generale, all'uso legittimo della forza in campo internazionale, questione tuttora aperta (rectius rafforzata a seguito delle due c.d. guerre preventiva in Iraq e in Afghanistan), ma al di fuori dell tema trattato in questa relazione. Qui basti ricordare che la prima volta in cui le Nazioni Unite affrontarono esplicitamente la questione degli Stati sostenitori di terroristi fu nel caso Lockerbie: il Consiglio di Sicurezza  affermò che i Paesi che sostengono terroristi violano l'articolo 2.4 della Carta, e che, pertanto, la reazione nei loro confronti si qualifica come legittima difesa.

Mi vengono  alla mente organizzazioni islamiste al pari di Ezbollah ed  Amas, gruppi terroristici di matrice islamica a Timor Est e in Indonesia  come i  guerriglieri Tamil  e i Fratelli musulmani  in Algeria e in  Egitto, oltre gruppi terroristici marxisti nell’area Caucasica, supportati  più o meno platealmente da Stati del Medio Oriente o della’Africa settentrionale e dell’est asiatico.
   Ciò che rileva, ai fini di questa analisi, è che dagli anni ottanta in poi si è affermato gradualmente il principio che gli atti di terrorismo sono ontologicamente  illegittimi per il diritto internazionale. A ciò corrispose la graduale accettazione di tale principio da parte dell'opinione pubblica. Quella occidentale, in particolare, è stata certamente influenzata, in tal senso, dall'evoluzione del conflitto mediorientale: gli attacchi contro civili da parte dei palestinesi sempre più sono stati sentiti come ingiustificabili, anche da chi prima considerava le azioni dei palestinesi legittime contro l'oppressione straniera.
   Di tale mutata sensibilità si ha evidente riscontro nelle Risoluzioni dell'Assemblea Generale.

   Ad una lettura delle Risoluzioni contro il terrorismo della Assemblea Generale, dal '91 ad oggi, può riscontrarsi come l'aspetto di danno e pericolo per la sicurezza della Comunità mondiale derivante dal terrorismo sia decisamente enfatizzato rispetto al riconoscimento del principio (pur ribadito con forza dalle Nazioni Unite in altri settori di intervento), del diritto irrinunciabile dei popoli ad affrancarsi da regimi oppressori. Viene, allo stesso tempo, affermato con forza che gli atti di terrorismo sono ingiustificabili da chiunque commessi,  qualunque ne sia la motivazione, ideologica, religiosa o politica dell'autore.
   Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha unito la sua voce a quella della Assemblea Generale con un vigore ed un linguaggio mai uguagliati in precedenza: basti pensare alle Risoluzioni 1267 del 1999 e 1333 del 2000, dirette contro Bin Laden, Al Qaeda ed i Talebani, ed le Risoluzioni 1373 e 1377 del 2001, nonché 1390 del 2002.
   Nelle Risoluzioni successive all'11 settembre, il principio della ingiustificabilità degli atti di terrorismo è affermato oramai in modo perentorio: qualsiasi affermazione giustificazionista di azioni terroriste urta oramai fortemente contro la sensibilità della comunità internazionale.



·        Il tema delle lotte di liberazione nazionale nelle Convenzioni Nazioni Unite


   Come ho cercato di dimostrare, non esiste alcuna definizione in alcun Atto internazionale afferente il terrorismo.


   L'unico trattato multilaterale che contenga una definizione di terrorismo è la Convenzione contro il terrorismo della Organizzazione della Conferenza Islamica del 1999, ove le lotte di liberazione sono espressamente escluse dall'ambito della definizione. È ben vero che, nella Convenzione contro la presa d'ostaggi delle Nazioni Unite, fu introdotto un elemento definitorio 'a contrario', perché le condotte poste in essere da chi lotta per la propria indipendenza sono espressamente escluse dal campo di applicazione della convenzione. Tuttavia, si tratta di una disposizione introdotta nel 1979 e mai rinnovata in Trattati successivi.


   Si è detto della essenzialità, in una astratta definizione di terrorismo, dell'elemento teleologico politico comunque concepito.
   Tuttavia, se già è raro riscontrarne la presenza in strumenti internazionali non convenzionali, in alcun modo si fa riferimento alla finalità politica in Trattati delle Nazioni Unite in materia di terrorismo: delle dodici convenzioni finora adottate, dieci non contengono neppure la parola 'terrorismo' mentre due (le più recenti) la riportano solo nel titolo, e non nel testo. In undici non è indicata espressamente alcuna finalità, grazie anche al fatto che la finalità terroristica poteva considerarsi implicita in relazione alla condotta presa in considerazione: presa di ostaggi, dirottamento di aereo, collocazione di bombe in luogo di pubblico transito, etc..

Nella Convenzione contro il finanziamento del terrorismo, dove era, invece, necessario inserire qualche elemento tipizzante, per definire la finalità terroristica si utilizzarono circonlocuzioni, evitandosi di menzionare espressamente obiettivi politici o di eversione.
   La totale disparità di vedute su che cosa debba intendersi per terrorismo, divenne evidente nel negoziato per la redazione della  Convenzione per la repressione del terrorismo dinamitardo del 1997. Qui per la prima volta, in un documento delle Nazioni Unite contro il terrorismo, fu stabilito che le condotte disciplinate dalla Convenzione non avrebbero potuto mai considerarsi come politiche, ai fini del diniego della richiesta di estradizione. Ciò, peraltro, corrispondeva ad una tendenza oramai da tempo in atto in strumenti internazionali.
   La vera novità, in una Convenzione di tipo penale, era invece costituita dall'articolo 19,  in base al quale le attività delle forze armate militari di uno Stato erano escluse dal campo di applicazione della Convenzione. sia durante un conflitto armato sia ''nell'adempimento dei doveri'' del militare.
   Il principio, in sé, non era nuovo, costituendo il corrispettivo delle disposizioni il materia di 'legittimo combattente' contenute in strumenti del diritto umanitario. La novità era costruita dall'inserimento in una
convenzione penale della 'esenzione' dal suo campo di applicazione di una determinata categoria di individui (gli appartenenti ad un esercito regolare statuale).
   La mancanza di una parallela, espressa esclusione per i combattenti in lotte di liberazione indusse nei Paesi islamici la convinzione che la disposizione fosse stata costruita per giustificare il ''terrorismo di Stato'' di Israele e per sanzionare le condotte analoghe poste in essere dai palestinesi.
   All'epoca, la disposizione fu, dopo un estenuante negoziato, accettata dai Paesi islamici, adottata e riuscì ad entrare  in vigore. Nella successiva Convenzione per la lotta al finanziamento del terrorismo del 1999, la questione fu sopita, perché la condotta presa in considerazione non era riconducibile a quella delle  forze armate di uno Stato.

·        Il tema delle lotte di liberazione nel progetto di Convenzione globale contro il terrorismo


La questione è, invece, riesplosa nel negoziato della Convenzione globale contro il terrorismo. Benché la convenzione si trovi attualmente in una fase di stallo forse senza soluzione – quantomeno in tempi brevi – sembra utile, per una migliore comprensione del tema, richiamare alcuni punti nodali del negoziato, concernenti appunto la questione della definizione del fenomeno in parola.

I proponenti indiani omisero, nella redazione del progetto, ogni riferimento testuale a definizioni di terrorismo, lasciando libero spazio a proposte di emendamento sul tema. L'obiettivo politico che i Paesi  a base maggioritaria musulmana specificamente si prefiggevano non era celato: legittimare  l'Intifada palestinese come resistenza legittima all'occupazione israeliana.


   Nel negoziato della Convenzione globale, le proposte testuali dei Paesi islamici rifletteveno precisamente tale obiettivo. Era naturale che tali proposte si scontravano con la posizione che gli occidentali avevano sempre tenuto in materia.


  •  L'articolo 18 della Convenzione globale contro il terrorismo
     


 Al fine di escludere espressamente dal campo di applicazione della Convenzione globale contro il terrorismoi ''combattenti contro l'occupazione straniera'', i Paesi maomettani hanno nel negoziato preferito proporre un emendamento in tal senso all''articolo 18 del progetto indiano, piuttosto che tentare la via più ardua della introduzione di una definizione di terrorismo che non contempli tale categoria di combattenti.


   L'art. 18, comma 2, del progetto indiano, nella attuale formulazione è identico all'articolo 19 della Convenzione contro il terrorismo a mezzo esplosivi e   stabilisce che: "La Convenzione non si applica a quelle attività compiute dalle forze armate durante un conflitto armato che sono disciplinate dal diritto internazionale umanitario, intese le espressioni 'forze armate' e 'conflitto armato' nel modo in cui sono intese nel diritto internazionale umanitario stesso…".
   I Paesi aderenti all'Organizzazione della Conferenza Islamica avrebbero inteso aggiungere nel comma 2 una espressa menzione ai combattenti contro l'occupazione straniera.


   Gli occidentali hanno un forte argomento, già utilizzato durante il negoziato della Convenzione contro il terrorismo dinamitardo, avverso tale proposta: quest'ultima è inutile, in quanto le condotte dei movimenti e dei popoli che lottano per l'autodeterminazione sono già escluse dall'ambito di applicazione della Convenzione globale, sulla base della attuale formulazione dell'articolo 18.
   La ratio dell'articolo 18, infatti, è quella di stabilire una demarcazione tra l'ambito di applicazione della Convenzione globale da un lato e del diritto internazionale umanitario dall'altro: la Convenzione contro il terrorismo non si applica a quelle categorie che il diritto internazionale umanitario definisce come 'forze armate' nel corso di un 'conflitto armato'.
   I Trattati contro il terrorismo contemplano un certo numero di condotte normalmente poste in essere in tempo di pace, quali la presa di ostaggi, il dirottamento aereo, etc. Atti di terrorismo, tuttavia, possono essere commessi altrettanto facilmente in stato di guerra, interna o internazionale. Di conseguenza, un certo numero di trattati multilaterali, di cui i principali sono le Convenzioni di Ginevra del 1949, ed i due Protocolli addizionali del 1977, contengono disposizioni che bandiscono in tempo di guerra condotte riconducibili alla nozione di 'terrorismo'.
   L'art. 3 delle Convenzioni di Ginevra, ad esempio, proibisce certi atti contro "persone che non hanno parte attiva nelle ostilità", durante un conflitto armato a carattere internazionale. Tra questi atti sono contemplati la violenza contro la persona, in particolare l'omicidio, la mutilazione, la tortura, trattamenti umilianti e degradanti. Il secondo Protocollo vieta al combattente condotte rivolte ''contro la popolazione civile come tale…'' e consistenti in ''atti di violenza il cui fine primario è spargere il terrore nella popolazione civile'' (art. 51.2). Il terzo Protocollo, poi, espressamente proibisce gli ''atti di terrorismo'' (art. 4.2).
   L'art. 18 costituisce il corrispettivo di tali disposizioni e vale, pertanto, a ribadire un criterio, quello della demarcazione fra diversi ambiti, già precedentemente affermato.


   La disposizione rinvia alle definizioni elaborate dal diritto internazionale umanitario con riferimento non solo alle "attività" cui la convenzione non si applica, ma anche ai soggetti di tali attività, e cioè gli appartenenti alle forze armate durante un conflitto armato.


   Rilevano a tale  proposito i due Protocolli addizionali alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, già richiamati.

 Il primo  all'art. 43 qualifica come "forze armate" tutti i gruppi ed unità organizzati subordinati ad un capo, anche se essi rappresentano un governo o un'autorità non riconosciuta dalla Parte avversa. Il secondo, all'art. 1, estende la nozione di legittimo combattente alle "forze armate dissidenti ed ai gruppi armati organizzati" che, sotto comando, esercitano il controllo di una parte del territorio della Parte avversa, e sempre che non si tratti di atti isolati e sporadici di violenza. Nello Statuto della Corte Penale Internazionale, poi, possono indirettamente rinvenirsi ulteriori estensioni della nozione generale di “legittimo belligerante”.
   Da questa analisi emerge, quindi, che l'esimente prevista dall'art. 18 va estesa, per rinvio, alle condotte di tutti quei gruppi armati o movimenti diversi dalle forze armate regolari di uno Stato, che rispondono ai requisiti sopra delineati e ad altri eventualmente ricavabili dal diritto umanitario.
   La formulazione dell'articolo 18 ben riflette due principi: da un lato che l'esimente, dal punto di vista dei soggetti, si applica solo agli individui od organizzazioni che rientrano nella nozione di legittimo combattente, ai sensi del diritto internazionale umanitario. Dall'altro lato, che l’esclusione  dall'applicazione della Convenzione si verifica solo nella misura in cui si applica il diritto internazionale umanitario: unicamente, pertanto, se la condotta del combattente si mantiene nelle sue tipiche manifestazioni, e non se si esplicita in atti di terrorismo contro la popolazione civile, aventi le caratteristiche sopra delineate.


   I rappresentanti degli Stati  occidentali, in spirito di compromesso, si erano dichiarati disponibili a rendere esplicito il criterio della parificazione tra forze armate regolari e gruppi armati combattenti, estendendo l'esenzione prevista per le forze armate ai 'parties to a conflict', mentre   l'Unione Europea  propose di inserire nell'art. 18 un espresso riferimento al principio di autodeterminazione dei popoli, quale riconosciuto nella Carta delle Nazioni Unite.

   Invero, l'espressa esclusione proposta dai paesi islamici solamente per  chi combatte contro l'occupazione straniera – escludendo qualsiasi altra categoria di combattente -  da un lato avrebbe introdotto una ulteriore distinzione nell'ambito della stessa categoria delle forze armate ed equiparati, dall'altro sarebbe stata troppo chiaramente e provocatoriamente riferita ad un solo tipo di lotta armata, quella palestinese, per poter essere accettata (che ieri qualcuno poteva riferire ai terroristi in terra irachena e domani in terra siriana).


  • Ulteriori riflessioni
          

La convergenza su una definizione di terrorismo per tutti accettabile, è obiettivo importante: la lotta contro il terrorismo ha bisogno di condivisione degli obiettivi e di una base il più possibile allargata. La felice conclusione di una convenzione contro il terrorismo delle Nazioni Unite servirebbe, da questo punto di vista, a riaffermare l'ampiezza della coalizione globale contro il fenomeno, riportando allo stesso tempo il tema nell'alveo dell'Assemblea Generale.
   Sarebbe riduttivo riportare  il terrorismo in esame nel campo del mero diritto penale. E’ indubbiamente un  fenomeno criminale,  ma sarebbe miope e controproducente trattarlo solamente come tale, alla stregua di una qualunque condotta penalmente rilevante, anche se particolarmente efferata, lesiva di una norma penale incriminatrice di valenza internazionale. Il fenomeno va condotto nella  latitudine più ampia della politica. Solo all’interno di essa  può essere ben configurato  questo fenomeno e solo inquadrandolo come espressione di “azione politica” condotta con metodologie estremamente violente e pericolose per lo stesso genere umano,  potrà essere combattuto con maggiore determinazione ed efficacia.



 -considerazioni sulla soggettività internazionale

Il diritto internazionale è il diritto della comu­nità degli Stati;  le norme internazionali, seb­bene tendano oggi a regolare qualsiasi tipo di rapporto ed anche rap­porti interni alle varie comunità statali, si indirizzano formalmente agli Stati, cioè creano diritti ed obblighi per questi ultimi.

Occorre chiedersi se, accanto agli Stati, che senza dubbio sono i principali pro­tagonisti della scena internazionale, vi siano altri enti cui il diritto inter­nazionale formalmente si rivolga e, quindi,  possano considerarsi anch’essi come soggetti.

 In primo luogo v’è da precisare che  il diritto internazionale si rivolge allo Stato -organizzazione e che tale organizzazione in tanto è presa in considera­zione, in quanto  esercita effettivamente il proprio potere su di una comu­nità territoriale. Il requisito della effettività è essenziale. I Governi che... non governano non hanno da gestire interessi di rilievo sul piano internazionale( Il governo Karzai esercita il proprio potere su tutto il territorio dell’Afghanistan o solamente su Kabul?).

Va pertanto negata la soggettività ai Governi in esilio.

   Analogamente  ai Governi in esilio, deve essere valutato il fenomeno delle organizzazioni, o fronti, o comitati di libe­razione nazionale (come  al tempo l’Organizzazione per la Liberazione della Pale­stina), che abbiano sede in un territorio straniero, avendo quivi costitui­to, fin dall’inizio, una sorta di organizzazione di governo.

E’ opportuno rappresentare che l’OLP, è stata  regolarmente invitata a partecipare, senza diritto di voto, alle sedute degli organi delle Nazioni Unite in cui si dibat­tono questioni che la interessano: partecipava ai lavori di altre organizzazioni internazionali ed ha «uffici» (non rappre­sentanze diplomatiche) in vari Paesi, compresa l’Italia:  ciò non significa che si sia in presenza di un soggetto di diritto internazionale.

Secondo la giurisprudenza di legittimità italiana (Cassazione sent.. 28.6.1985 n. 1981, in RDI, 1986), I’OLP ed anzi tutti i movimenti di liberazione nazionale — anche quelli non aventi un’organizzazione di governo installata nel territorio di uno Stato —godrebbero di una soggettività limitata allo scopo «di discutere, su basi di per­fetta parità con gli Stati territoriali, i modi ed i tempi dell’autodeterminazione dei popoli da loro politicamente controllati, in applicazione del principio di auto­determinazione dei popoli ritenuto norma consuetudinaria di carattere cogente (sull’autodeterminazione dei popoli). Esclusa, invece, la soggettività piena, la Corte ha negato al Capo pro tempore dell’OLP, Yasser Arafat, l’immunità accordata dal diritto internazionale ai Capi di Stati esteri. Quanto alla «soggettività limitata», nei termini indicati dalla Corte, ha scarso significato giuridico.

Oltre al requisito della effettività, un altro requisito è da conside­rare come necessario ai fini della soggettività internazionale dello Stato ed è quello della indipendenza o sovranità esterna,  ossia che l’organizzazione di governo non dipenda da un altro Stato.

Per individuare la sovranità di uno Stato e la sua autonomia da altri ordinamenti statuali non si può che ricorrere ad un elemento formale: è indipendente lo Stato il cui ordinamento sia originario, tragga la sua forza giuridica da una propria Costituzione e non dall’ordinamento giuridico o dalla Costituzione di altro Stato. Sul dato formale prevale quello reale, quando tutti gli elementi fattuali palesano l’ingerenza da parte di uno Stato straniero nell’esercizio del governo, ingerenza che può essere totale o afferire le scelte primarie di uno Stato: la politica economica, esterna, militare e sulla sicurezza. In tali evenienze  si sostanzia uno Stato fantoccio. A parte i Governi fantoccio del passato (Governo Quisling in Norvegia e Vichy in Francia durante l’occupazione nazista e, per alcuni,  la Repubblica Sociale Italiana), Stati fantoccio attuali possono essere considerati il Transkei e, sino al 1990, la Namibia, Stati formalmente indipendenti ma totalmente controllati dal governo Sudafricano. Ci si può porre il quesito se uno Stato controllato per la più gran parte del suo territorio da forze militari straniere possa considerarsi realmente sovrano e indipendente. L’Afghanistan è controllato nella parte sud dai talebani e per il resto del territorio dalle truppe delle Nazioni Unite e dall’esercito afghano. Anche le recenti vicende ci consentono di insinuare il dubbio che il governo afgano sia da considerare almeno a sovranità limitata sia sotto l’aspetto squisitamente territoriale che di azione di governo. Forse più  che uno Stato sovrano l’Afghanistan è un protettorato della Nazioni Unite, che possiede  una propria soggettività internazionale limitata ad alcune aree territoriali  per il tramite della autorità dell’ONU (come è avvenuto per la Namibia a partire dal 1990).

Una volta chiarito che un’organizzazione di governo diviene automaticamente soggetto di diritto internazionale quando esercita in modo effettivo ed indipen­dente il proprio potere su  una comunità territoriale, resta anche risolto il problema, assai dibattuto nella dottrina meno recente, della soggettività dei gruppi   insurrezionali.       Gli insorti, in quanto tali, non sono certo soggetti di diritto internazionale, ma solo dei cittadini  ribelli nei confronti dei quali il Governo se legittimo può pren­dere i provvedimenti che considera più opportuni. E’ la presenza di un governo considerato legittimo dalla più gran parte dei suoi cittadini( cosa che avviene quando si  svolgono elezioni democratiche e regolari) e dalla più gran parte della comunità internazionale che qualifica come “insorti”, “ribelli” o “terroristi” coloro che si oppongono al governo con strumenti extra ordinem, ossia al di fuori da quelli ordinariamente apprestati dall’ordinamento giuridico statuale di appartenenza.

A tale proposito è opportuno riprendere in discorso sulla autodeterminazione dei popoli e sui movimenti di liberazione nazionali.

  •  Autodeterminazione dei popoli

     Il principio di autodeterminazione è oggi una regola di diritto inter­nazione dei popoli riconosciuta  in testi convenzionali (ad es. Patti delle Nazioni Unite sui diritti umani), come tali vincolanti solo gli Stati contraenti, ma anche in ambito consuetudinario, in forza di  una prassi che si è sviluppata ad opera delle Nazioni Unite e che trova la sua base sia nella stessa Carta dell’ONU (art. 1, par. 2 e art. 55), sia in certe solenni Dichiarazioni di principi dell’Assem­blea generale dell’Organizzazione, come la Dichiarazione del 1960 sull’indipendenza dei popoli coloniali e quella del 1970 sulle relazioni ami­chevoli tra gli Stati. Anche la Corte  Internazionale di Giustizia ne ha riconosciuto l’esistenza come principio consuetudinario in due pareri resi su richiesta dell’Assemblea generale, il parere 21.6.1971 sulla Namibia  e il parere 16.10.1975 sul Sahara occidentale.

E’ opportuno precisare che una interpretazione troppo amplia e, quindi,  un uso distorto e, in qualche maniera, funzionale, di questo principio può portare ad avvallare la ribellione di qualsivoglia comunità sociale verso lo  Stato su cui essa insiste: sarebbe stata legittima la rivolta, anche armata, del popolo altoatesino contro il  Governo di Roma?

   Il principio di autodetermina­zione, in quanto principio giuridico ricavabile dalla prassi effettiva della generalità degli Stati e non in quanto slogan propagandato da questo o quel raggruppamento partitico, ha un campo di applicazione in realtà piuttosto ristretto. Esso si applica soltanto ai popoli sottoposti ad un Governo straniero, in primo luogo ai popoli soggetti a dominazione coloniale; in secondo luogo alle popolazioni di territori conquistati ed occupati con la forza (si pensi ai territori arabi occupati da Israele dopo il 1967).

    Come si legge nelle citate Dichiarazioni dell’ONU e, come è stato ribadito dalla Corte Internazionale di Giustizia, l’autodeterminazione comporta il «diritto» dei popoli sottoposti a dominio straniero di divenire indipen­dente, di associarsi  od integrarsi con altro Stato indipendente, di scegliere comunque liberamente il proprio regime giuridico.

Il diritto internazionale generale impone dunque allo Stato che governa un territorio non suo di consentirne l’autodeterminazione. Può anche sostenersi che, di fronte alla violazione di questo prin­cipio, gli altri Stati siano tenuti ad adottare misure di carattere san­zionatorio, come il disconoscimento di ogni effetto extraterritoriale agli atti di governo emanati nel territorio. Lecito è poi conside­rato, sempre dal diritto internazionale generale e sempre in conformità ad una prassi sviluppatasi ad opera delle Nazioni Unite, l’appoggio for­nito ai movimenti di liberazione nazionale (spesso dato da Stati dittatoriali come nel caso di Cuba che finanziò e aiutò militarmente i movimenti marxisti angolani che, preso il potere nel 1975, hanno imposto una feroce tirannide su una  popolazione che aveva appena ottenuto l’indipendenza dal Portogallo).

Tutto ciò premesso, si può parlare di un vero e proprio diritto soggettivo internazionale dei popoli sottoposti a dominazione straniera alla autodeterminazione? In realtà anche in questo caso, ed anzi con maggiore evidenza rispetto a quello delle norme riguardanti gli individui, i rapporti di diritto interna­zionale intercorrono in modo esclusivo tra gli Stati. È nei confronti della comunità internazionale nel suo com­plesso che sussiste l’obbligo per il Governo straniero di consentire l’autodeterminazione, ed  è nei confronti della comunità internazionale che gli Stati  hanno l’obbligo di negare efficacia extraterritoriale agli atti di Governo compiuti in violazione del principio in parola.

   Non è invocabile, altresì, la c. d. natura internazionale delle guerre di liberazione, sempre che con ciò non si voglia ribadire – ed il sottoscritto è di contrario avviso -  che alla lotta dei popoli per l’autodeterminazione, se armata, si possano applicare le norme consuetudinarie del diritto internazionale bellico valevoli per la  guerra fra Stati. Questa tesi è stata in effetti propugnata in sede di Nazioni Unite e, talora  accolta in alcune contrastate risoluzioni deIl’ Assemblea dell’ONU (ricordo che le risoluzioni dell’Assemblea non hanno, di per sé, forza vincolante), ma  sempre contrastata dal  gruppo dei Paesi occidentali, non è  sostenibile nei consessi internazionali (salvo non si voglia andare avverso una cementificata linea di pensiero europea, nordamericana e australiana)

Devono essere tenuti in considerazione i risultati della Conferenza sul diritto umani­tario  nei conflitti armati, Conferenza tenutasi a Ginevra tra il 1974 e il 1977 per integrare le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 sulla protezione, rispettivamente, dei feriti e dei malati delle forze armate in campagna, dei feriti, malati naufraghi delle forze armate navali, dei prigionieri di guerra e dei civili in tempo di guerra, ove, nel I Protocollo,  di precisa che  all’”Autorità rappresentante il popolo” non è attribuita la veste di parte contraente (se poi tale “Autorità” ha natura terroristica non viene nemmeno riconosciuta come tale, ma semplicemente come “nemico”, non avendo la dignità posseduta dagli Stati belligeranti sconfitti di accomodarsi  al tavolo della pace).

                                          Fabrizio Giulimondi

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