venerdì 31 gennaio 2014

"TUTTA COLPA DI FREUD" DI PAOLO GENOVESE

Locandina Tutta colpa di Freud

Immerso nelle atmosfere  delle bellezze romane e accompagnato da una   incantevole colonna sonora, l’ultima fatica  di Paolo GenoveseTutta colpa di Freud” racconta la  storia di un padre, troppo comprensivo, un po’ mammo  e molto psicanalista, e delle  tre figlie, tutte al pari attorcigliate in problemi amorosi.
L’amore -  vera malattia dell’essere umano – è  snocciolato attraverso le vicende vissute dalle  fanciulle, di cui una è lesbica e tenta di tornare alla normalità, l’altra una diciottenne  all’ultimo anno delle superiori  fidanzata con un uomo sposato di 50 anni e, l’ultima, innamorata di un cleptomane sordomuto.
Anche il padre ha il suo bel da fare con una donna misteriosa.
Cast tutto italiano di alto livello, in cui Marco Giallini, Alessandro Gassman, Claudia Gerini, Anna Foglietta e Laura Adriani sparigliano per tutta la durata del film.
Alcune gag sono spassosissime e il film si fa piacevolmente vedere.

Fabrizio Giulimondi


mercoledì 29 gennaio 2014

"LO SGUARDO DI SATANA - CARRIE" DI KIMBERLY PEIRCE

Locandina Lo sguardo di Satana - Carrie
Lo sguardo di Satana- Carrie” di Kimberly Peirce  è il remake del cult horror Carrie - Lo sguardo di Satana di Brian de Palma, tratto dall’omonimo  romanzo di Stephen King.
Gli anni settanta hanno prodotto i più celebri e bei film del terrore, come L’Esorcista, Rosemary’s Baby, Profondo Rosso, Il Presagio, Amityville Horror. Probabilmente i  film “di paura” realizzati in quel periodo rimangono  insuperati per qualità dei contenuti e delle scene, ma, soprattutto, per la sottile, astuta e, quasi subliminale,  capacità psicologica di penetrare negli anfratti dell’inconscio  e,  fargli partorire le angosce e i nascosti tormenti di ciascuno di noi.
Nei giorni d’oggi, in cui questo genere si è trasformato in splatter e frattaglie, alla Saw maniera, “Lo sguardo di Satana – Carrie” può risultare datato. Quelli della mia generazione che lo hanno visto al tempo, lo vedono come una ripetizione, mentre gli spettatori più giovani lo vedono “superato ” dagli  attuali “canoni estetici”.
V’è da dire che la ragazzina  con il potere telecinetico negli occhi, figlia e vittima di una madre pazza e circondata da adolescenti crudeli, nonostante ciò che combina durante il tradizionale ballo di fine d’anno al termine del ciclo della sua high school, continua a suscitare pietà e compassione.
Elemento di diversità rispetto alla  precedente versione è rappresentato dalla maggiore umanità di una delle protagoniste, che mostra una inaspettata crisi di coscienza dopo la moltitudine di infamie poste in essere avverso la povera Carrie.
Fabrizio Giulimondi



lunedì 27 gennaio 2014

"IL MESSIA SPOSO. LA METAFORA SPONSALE IN MC 2, 18-22" DI MICHAL TADEUSZ SZWEMIN


Il Messia Sposo. La metafora sponsale in Mc 2, 18-22” di Michal Tadeusz Szwemin (www.przegladkoninski.pl), breve saggio di un giovane sacerdote orionino polacco la cui età, cultura, preparazione  e attenzione al particulare,  conferiscono freschezza al fine intelletto, alla capacità di ricerca, alla sobrietà nella esposizione e alla curiosità teologica.

Lo scritto compie una analisi accurata, anatomica, chirurgica, puntigliosa, metodologicamente intransigente, su alcuni passi dei Vangeli e dell’Antico Testamento in merito alla  figura, nuova e dirompente, di Gesù come Sposo della Sua Chiesa.

 I testi Sacri vengono comparati, meditati e vivisezionati con approfondita saggezza, al pari della metodica adoperata dall’ingegnere genetico.

 L’Autore mostra un occhio attento ai dettagli, per il cui tramite disvela il “Tutto”.

Lavoro colto, erudito, dotto, con un affascinante e scientifico studio etimologico, storico e semantico,  di singole parole ed espressioni greche tratte dal Nuovo Testamento. Suggestiva e di grande interesse gnoseologico la dissertazione sulla centralità del digiuno nella Bibbia, sino a giungere all’uso di tale pratica in Cristo, vissuta in modo spiritualmente diverso e con un atteggiamento gioioso,  strumento  didattico e didascalico, di rinnovamento e rigenerazione dell’anima.

Al centro del lavoro di Michal Tadeusz Szwemin v’è il rapporto sponsale fra Cristo e la Chiesa, “metafora influente e fruttifera della Bibbia” – come riflette il cardinal Kasper nella sua prefazione – “sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento (…) anche i documenti del Concilio Vaticano Secondo ne danno abbondante testimonianza in una molteplicità di luoghi. Nessun’altra metafora esprime meglio il rapporto del tutto personale e intimo fra Dio e il suo popolo, fra Dio e ciascun uomo, la cui anima è inquieta fino a che non riposi in Dio (San Agostino), perché tutti noi siamo creati per l’amore (San Giovanni della Croce).

Le metafore e le parabole sono gli artifizi retorici e letterari privilegiati da Gesù per “comunicare” ad Apostoli e discepoli la “Veritas”, per  rappresentare, fa conoscere e palesare la Sua originaria e  teleologica natura e sostanza divina: partendo proprio dai versetti dell’Evangelista Marco 2, 18-22  emerge, con potente chiarore, che “Gesù è lo ‘Sposo’, Egli è ‘nuovo vestito’, ‘vino nuovo’. Egli è la persona che perdona i peccati (2,1-12), è medico per i peccatori (2, 15-17), è padrone del sabato e delle malattie (2, 23-3,6). La Sua identità si manifesta in diversi modi, ma sempre come non accettabile per i giudei. Questo ‘nuovo’ è incompatibile con il ‘vecchio’. “.

 Fabrizio Giulimondi

domenica 26 gennaio 2014

THE WOLF OF WALL STREET" DI MARTIN SCORSESE

Locandina italiana The Wolf of Wall Street
Una pantagruelica orgia di sesso, denaro e droga,  è il veramente brutto film di Martin ScorseseThe wolf of Wall Street”, basato su una storia vera, con  Leonardo Dicaprio (Golden Globe come miglior attore protagonista), la cui bravura si scioglie e scompare in un personaggio sgradevole e disgustoso.
Le tre ore di proiezione (all’inizio della terza ho alzato le terga dalla poltroncina e me ne sono andato) mostrano le bolge dantesche della finanza americana. In alcune scene, come quella che propone  una ammucchiata lesbo - etero – omo su un aereo,  o un’altra che propina allo spettatore un “mucchio selvaggio” gay nella villa del tycoon protagonista delle vicende, sembra di scorgere le terrifiche visioni infernali dipinte dai grandi pittori fiamminghi Bruegel e Bosch.
Unica nota sconcertante di colore: la pellicola è per tutti!

Fabrizio Giulimondi


sabato 25 gennaio 2014

" I MELROSE" - "LIETO FINE" DI EDWARD ST AUBYN

Lieto fineI Melrose
“L’eroina era la cavalleria. L’eroina era la gamba mancante della sedia, scolpita con tale precisione da combaciare al millimetro con il punto di rottura, fino all’ultima scheggia. L’eroina andava a posarsi delicatamente alla base del cranio e gli si avvolgeva intorno al sistema nervoso, come un gatto nero che si acciambella sul suo cuscino preferito. Era morbida e ricca come il ripieno di un piccione selvatico, lo stamparsi liquido della ceralacca su un foglio, un pugno di pietre preziose che passa da una mano all’altra(…) Il suo passato giaceva davanti a lui come un cadavere in attesa di essere imbalsamato. Ogni notte incubi feroci lo svegliavano, troppo spaventato per dormire, si liberava dalle lenzuola fradice di sudore e fumava una sigaretta dietro l’altra finché l’alba si affacciava nel cielo, pallida e sporca come le lamelle di un fungo(…) L’insonnia, gli stravizi alcolici, gli eccessi alimentari, il desiderio costante di solitudine che, se appagato, lo spingeva ad avere un bisogno estremo di compagnia(…) Il guaio era che, anche quando l’oggetto inseguito cambiava, l’angoscia dell’inseguimento restava. Si scoprì a precipitarsi verso un vuoto piuttosto che a fuggirne.”
Patrick è la figura centrale, tragica, devastante, di un romanzo complesso, denso, intrigato come il fitto  ricamo di un tappeto persiano, dello scrittore inglese Edward St Aubyn, composto da due volumi I Melrose” e “Lieto Fine” (Neri Pozza editore). Novecentosei  pagine che scavano senza reticenze nelle bassezze dell’animo umano, in un turbinio di stati d’animo esaltati da invidie e ipocrisie, malanimo, cupidigia e infamie di ogni sorta. I rapporti fra tutti i personaggi sono scevri di ogni affetto,  i sentimenti fra di loro non esistono, sostanziandosi unicamente nell’abominio di formalità dettate dall’ etichetta imposta dal bon ton  di una cupa high society britannica. La cinica spregiudicatezza, avida  di immoralità e di amoralità,  già mirabilmente incarnata  in  Lord Henry ne  Il Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, la riscontriamo nei personaggi del libro di Aubyn, specie nel padre di Patrick, David, pedofilo, stupratore, immondo in ogni aspetto del suo essere: “Ma non è questa la chiave di ogni educazione di successo? Trascorri l’adolescenza venendo promosso da torturato a torturatore, senza una donna tra i piedi che ti distragga.” La formazione inglese dei fanciulli, tramandata per generazioni, implacabile e crudele, i cui miasmi si respirano  in ogni poro del lavoro. David ne è il sommo vate: maligno, implacabile nella sua determinata e crudele lucida volontà distruttiva di ogni persona  stia intorno a lui, a partire dal figlio Patrick e dalla moglie Eleonor, bomba incendiaria ovunque vada. Patrick è nato da uno stupro e per essere stuprato,  Eleonor per essere umiliata, demolita nel corpo e nella mente, nutrendosi a quattro zampe come un cane, quotidianamente decomposta  per poi decomporre, svuotando di ogni ricchezza materiale e affetto il figlio Patrick, degenerando poi in una febbre filantropica,  che nasconde in realtà solo una strisciante e sempre più tumultuosa follia.
Il funerale di Eleonor è l’occasione per l’Autore per sballottare il lettore fra psicanalisi, filosofia, religione e letteratura, conducendolo per mano dai bassifondi dell’anima alla ingiustificata esaltazione di intelletti, che  null’altro sono che miseri profittatori e spregevoli egoisti.
L’illustrazione di Eleonor, giacente in un  feretro, è la plastica rappresentazione di ciò che è stata in vita, nella sua esteriorità corporea e nella sua intimità interiore: “L’assenza di vita di quel corpo così familiare, i lineamenti rigidi e ritoccati di quel viso che conosceva fin da prima di nascere, facevano tutta la differenza del mondo. Davanti a lui c’era solo un oggetto in transito, diretto verso l’ultima tappa del suo percorso. Al posto del giocattolo di gomma o dello straccetto che i bambini usano per far fronte alla assenza della madre, gli era stato offerto un cadavere, le dita ossute che stringevano una rosa bianca artificiale con i rigidi petali di seta, disposti sopra un cuore che non batteva più. C’era in quel corpo il sarcasmo della reliquia e insieme il prestigio della metonimia. Il cadavere stava a rappresentare con la  medesima autorevolezza sua madre e la sua assenza(…..) Eleonor aveva lasciato il mondo con scricchiolante lentezza, scivolando centimetro dopo centimetro nell’oblio
Patrick  protagonista indiscusso, ritto nel proscenio,  galleggia fra derive alcoliche, viaggi allucinatori ed estatici conseguenti alla  assunzione massiva di ogni tipo di droga, disgregazione mentale, autodistruzione,  disfacimento e annientamento fisico, sballottato fra desiderio di vendetta, rabbia, compassione, solitudine e disperazione. La potenza della figura di Patrick e le suggestioni da essa create riportano  alla contemporaneità la drammaticità stilistica, narrativa e contenutistica del teatro greco dell’epoca di Sofocle, Euripide ed Eschilo.
Abbondano le figure retoriche dell’ipallage, della metafora, della metalepsi, dell’ossimoro, della sinestesia e del tropo (o traslato).
Il racconto naviga in mezzo a composizioni floreali di parole, passeggia tra un florilegio di combinazioni di espressioni e aggettivi che fanno respirare al lettore a pieni polmoni una brezza lussureggiante di letteratura russa, anglosassone e nordamericana, da Cechov, Tolstoj e Dostoevskij a Oscar Wilde,  Edna O’ Brien,  Scott Fitzgerald e il  Nobel per la letteratura 2013  Alice Munro.
 “Profughi del tempo…, pazienza pedagogica… albero genealogico delle emozioni… claustrofobica agorafobia… penombra speziata del suo albergo… paludi mercuriali della prima astinenza,  e ancora una moltitudine infinita e incontenibile di giochi di parole,  divagazioni e voli pindarici, fughe dalla realtà, estrosa fantasia nel vezzo di compiere opere di metamorfosi dei vocaboli e nell’uso dei sinonimi e dei loro contrari, in forza dei quali lo Scrittore   dipinge “il foro interno” dell’ ”Uomo” nel suo precipitare verso le profondità della malattia psichica e abissali e putride miserie, “Uomo”  rappresentato attraverso le molteplici articolazioni della famiglia Melrose e la perversa cerchia dei suoi amici.
Il lettore peregrina nei meandri delle loro vite, rischiando talora di perdersi lungo il percorso di una trama complessa e pruriginosa, blandito e distratto da un periodare affascinante e musicale, che avvolge e sorregge una narrazione immersa in una corposa e, specie nella prima parte, implacabilmente dura e ferocemente veritiera, opera di genio e di creatività letteraria.

Fabrizio Giulimondi

mercoledì 22 gennaio 2014

"DISCONNECT" DI HENRY ALEX RUBIN

Locandina italiana Disconnect

Duro, implacabile, impietoso,  “Disconnect “di Henry Alex Rubin si muove al ritmo di riprese nevrotiche e schizoidi e dei brani ansiogeni tecno e rap di Max Richter.
Tre storie di nuclei familiari “senza famiglia”, senza affetti e senza legami, che vengono gettate nel frullatore del web e delle chat, ove pornografia minorile e scherzi informatici, coloriti di noia e di abissale superficialità,  si trasformano spasmodicamente in crimini e, fatalmente, in tragedia.
Ogni minuto di proiezione è un pugno allo stomaco e, soltanto allo scader del the end di un film che consiglio-sconsiglio ai ragazzi al di sotto dei quattordici  anni, i tre  drammi che esplodono contemporaneamente davanti agli occhi dello spettatore, sono trapassati da un  baluginio di speranza, che ha il gusto  di sentimenti veri, ritrovati, riscoperti e  che sa di un abbraccio dato da  una sorella al fratello in coma, dopo aver tentato di darsi la morte.
Fabrizio Giulimondi


lunedì 20 gennaio 2014

GEORGE ORWELL: "NEL TEMPO DELL'INGANNO UNIVERSALE, DIRE LA VERITA' E' UN ATTO RIVOLUZIONARIO"



"THE BUTLER - UN MAGGIORDOMO ALLA CASA BIANCA" DI LEE DANIELS

Magnificente e coinvolgente affresco che attraversa una porzione importante della  storia americana,  “The Butler – un maggiordomo alla Casa Bianca”, di Lee Daniels,  racconta la storia di Cecil Gaines e della sua famiglia e, per il suo tramite, della segregazione razziale e della lotta dei diritti civili negli U.S.A. dagli anni ’50 ad oggi.
Cecil, schiavo in un campo di cotone,  vede ammazzare il padre dal “padrone”, reo di un brutale stupro ai danni  della madre.
Di lì fuggirà per non essere ammazzato a sua volta e la vita lo condurrà ad essere un bravo “negro di casa”, ossia un maggiordomo,  che finirà a servizio, grazie alle proprie capacità,  alla White House.
Sullo sfondo appaiono, con tinte sfumate, i Presidenti degli Stati Uniti che Cecil servirà per venti anni: Dwight David Eisenhower (1953 – 1961); John Fitzgerald Kennedy  (1961 – 1963); Lyndon Baynes Johnson (1963 – 1969); Richard Nixon (1969 – 1974); Gerald Rudolph Ford (1974 – 1977); James Earl Carter (1977 – 1980); Ronald Wilson Reagan (1980 – 1988).
Ogni volto presidenziale narra un episodio  della lotta per l’affermazione della eguaglianza fra popolazione nera e quella bianca.
Il racconto degli orrori che i nigger hanno subito per anni lascia sgomenti e, seppur a pennellate, vengono ripercorsi i momenti salienti delle grandi battaglie e rivolte condotte  da Malcom X, Martin Luther King ed  altri grandi  leader afro-americani. Terribili le scene degli allenamenti a cui sono sottoposti i ragazzi neri per imparare a  resistere agli insulti e alle percosse,  per essere pronti ad  intraprendere azioni gandhiane alla conquista defli  spazi nei ristoranti destinati ai wasp.
Cecil (interpretato da Forest  Whitaker,  Premio Oscar nel 2007 come miglior attore in  L’ultimo re di Scozia), ha una moglie (la cui attrice è Oprah Winfrey,  famosa conduttrice per molti anni di seguitissimi talk show statunitensi) e due figli, che incarnano il diverso e violentemente contrapposto pensiero americano a cavallo fra gli anni sessanta e settanta: i nemici del sistema il primogenito, combattente non violento, per poi indossare il basco nero delle black panthers;   il patriottismo il più giovane, che morirà in  Vietnam. Due visioni alternative, radicalmente alternative, furiosamente alternative, che si unificheranno nell’amore fraterno e filiale.
La morte dell’uno sarà devastante anche per i rapporti fra Cecil e il figlio rimasto in vita che, dismessa la divisa delle pantere nere,  indossa i panni di un coraggioso e fattivo membro del Congresso.
Sarà la lotta per la liberazione di Mandela e per l’abolizione dell’apartheid in Sudafrica  a far riabbracciare  padre e figlio,  in un finale il cui sottofondo regalerà allo spettatore il sonoro originale  di  frasi fatidiche declamate da Presidenti favorevoli ai   rights of black people.
Yes, we can” di obamiana memoria echeggerà nel buio della sala, venuta via l’ultima immagine.
I brani musicali  gospel, blues, folk e country dei grandi singers di colore sono la splendida colonna sonora di un film che meritava, senza ombra di dubbio, almeno qualche nomination.
Stralci di cinegiornali del tempo e il richiami  in salsa  ideologica a pellicole come La calda notte dell’Ispettore Tibbs e Indovina chi viene a cena,  con un Sidney Poitier visto come uno Zio Tom, sono il tocco di classe finale.

Fabrizio Giulimondi



giovedì 16 gennaio 2014

"PHILOMENA" DI STEPHEN FREARS

Locandina italiana Philomena
Sulla scorta del film Magdalene scritto e diretto nel 2002 da Peter Mullan e vincitore del Leone d’Oro al Festival del cinema di Venezia nello stesso anno, anche la bella e struggente storia raccontata  da Stephen Frears  in “Philomena” è ambientata, almeno in una parte del suo sviluppo, nelle Case Magdalene. Questi istituti femminili, sorti fra L’Inghilterra e l’Irlanda nel XIX secolo e gestiti da suore cattoliche, accoglievano ragazze ritenute immorali, magari, per aver subito violenza sessuale, o per aver rifiutato di sposare un ragazzo che era stato imposto loro, oppure  in ragione di condotte ritenute al tempo peccaminose e in contrasto con la morale sociale.
Philomena, vissuta in Irlanda in uno di questi luoghi e  rimasta incinta nella totale ignoranza in materia sessuale, le viene tolto il figlio all’età di quattro anni per essere venduto ad una coppia americana, secondo un costume consolidato in  quegli anni.
Philomena oramai avanti negli anni, cercherà il figlio con il supporto di un giornalista defenestrato dall’entourage del Primo Ministro britannico,  seguendo un percorso doloroso cosparso di ricordi ed umiliazioni, che  condurrà l’azione scenica negli States e, di nuovo, al termine del  peregrinare,  in quella  casa  ove  tanta feroce ingiustizia fu perpetrata.
L’interpretazione affidata alla magistrale attrice inglese Dame Judith Oliva Dench, conosciuta come Judi Dench, non potrà non penetrare  l’anima dello spettatore, per la potenza ineguagliabile della espressività del volto e dello sguardo, talora buono e rassegnato, altre volte determinato e carico di passionale volontà,  contrassegnato dalla luce di occhi che cercano la gioia e  il riscatto, mai la vendetta,  nell’incontro con un figlio mai visto e di cui nulla si sa, neppure se sia ancora in vita.
Suggestivo il contrasto fra la religiosità intonsa e incrollabile di Philomena e lo sprezzante ed irriverente ateismo e anticlericalismo del suo “accompagnatore” (Steve Coogan).
Le abilità artistiche forgiate nella lunga esperienza teatrale rendono Judi Dench fra le più bravi attrici nel panorama mondiale, grazie alla intensa recitazione di cui abbiamo già goduto in Shakespeare in love sotto le vesti di  Elisabetta I d’Inghilterra, ruolo che le valse nel 1998 l’Oscar come miglior attrice non protagonista.
Fra le quattro nomination al Premio Oscar 2014 v’è anche la sua come miglior attrice protagonista: che il Fato le sia favorevole!

Fabrizio Giulimondi




domenica 12 gennaio 2014

"LA GRANDE BELLEZZA" DI PAOLO SORRENTINO: GOLDEN GLOBE COME MIGLIOR FILM NON IN LINGUA INGLESE E "NOMINATION" AL PREMIO OSCAR 2014 COME MIGLIOR FILM STRANIERO

Locandina del film La grande bellezza

Dopo alcuni lungometraggi, romanzi giunti sulla soglia del Premio Strega, pellicole apprezzate dalla critica, film di particolare valore estetico e corposo significato contenutistico, come Il Divo (2008) e This must be the place (2011), Paolo Sorrentino ha portato l'anno scorso nelle sale italiane La grande Bellezza, un’opera che, dopo aver vinto come miglior regista, miglior attore (Toni Servillo) e miglior film gli E.F.A. 2013 (European Film Awards), al Festival internazionale del cinema di Berlino, ha ricevuto a Los Angeles  il prestigiosissimo Premio Golden Globe  come miglior film non in lingua inglese,   prodromico - speriamo! -  alla assegnazione dell'Oscar 2014 come miglior film straniero, vista la nomination arrivata il 16 gennaio. Non si è fatto mancare neppure il londinese B.A.F.T.A. (British Academy of Film and Television Arts), che precede di quindici giorni il simile, ma più importante, Premio Oscar americano.
L’arte del regista Sorrentino oramai è indiscussa e non ha nulla da invidiare a quella immaginata dai grandi autori europei e statunitensi.
Film di pregio, intenso, pieno, suggestivo e completo, a tutto tondo, simbolico, articolato e complesso, arguto e disincantato, cinico e bonario, intelligente e delicato, La grande Bellezza vede un cast composto dal più importante cinema italiano, un florilegio di nomi raramente compresenti in maniera così massiva in un produzione cinematografica: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Galatea Ranzi, Roberto Harlitzka, Isabella Ferrari, Giorgio Pasotti, Vernon Dobcheff, Serena Grandi, Luca Marinelli, Giulia Di Quilio, Massimo Popolizio, Giorgia Ferrero, Pamela Villoresi, Carlo Buccirosso, Ivan Franek, Stefano Fregni.
Toni Servillo, oramai uno dei sommi interpreti del cinema italiano, primeggia su tutti nella parte del protagonista Jep Gambardella, anche se gli altri attori, ognuno per la propria parte, maggiore o minore che sia, danno quel tratto di penna, quella pennellata, quel tocco musicale, che rendono il lavoro corale grandioso e armonico.
Jep Gambardella è uno scrittore che ha pubblicato, decenni prima dell’inizio della storia, un romanzo di discreto successo.
Jep Gambardella è un giornalista di una rivista di cultura, arte e moda di buon accreditamento e diffusione.
Jep Gambardella è, soprattutto, il signore indiscusso della mondanità notturna romana. Da quando è giunto a Roma all’età di ventisei anni sino al compimento del sessantacinquesimo anno di età, non ha trascorso notte senza partecipare, ravvivare ed essere il protagonista di feste, cene, aperitivi, cocktail, organizzati da una borghesia festaiola quanto annoiata, imbolsita e intristita dal Nulla.
Sono il Nulla, Il Niente, il Vuoto, l’Inconsistenza, l’Insostenibile Leggerezza dell’Essere, il tessuto connettivo, la ragione sociale, il leit motif, il canovaccio della vita di Jep e dei compari mondani.
Il prologo del film è girato proprio nella villa di Gambardella, dove si sta svolgendo la sua festa di compleanno: per dirla con Angelo Branduardidanze, colori e allegria, canti e rumori, suoni di risa.
La mattina dopo, però, nulla della tristezza, della malinconia, dell’angoscia, del senso di inutilità, è stato in alcun modo rimosso, anzi, a dir del vero, tutto si è accresciuto.
E così è ogni sera, ogni notte e, poi, ogni risveglio.
Un concatenarsi di smarrimento in una apparente ricchezza e giocosità.
E’ quella borghesia romana ingolfata in un benessere stantio e monotono, non frutto di fatica e di lavoro, ma di rendite e di ricchezza altrui che provengono dal passato, da altre mani, da altri sudori.
E’ quella borghesia progressista, sempre dalla parte giusta, sempre con le idee giuste, sempre con le parole giuste sulle labbra pronunziate nel momento giusto.
E’ quella borghesia che ha le sue radici nel ’68 e che viene scenicamente interpretata con efficacia da Galatea Ranzi, politicamente impegnata da studentessa, dedita alla carriera e all’indottrinamento del figlio, secondo il corretto sistema valoriale che il " politicamente corretto" impone a questa sterile borghesia. Jep Gamabardella con poche, efficaci, potenti e dirompenti battute, che fuoriescono dalla sua bocca con elegante, aristocratica, nobile ferocia, smantella la signora il cui ruolo Galatea Ranzi ricopre abilmente.
La storia dell’impegno politico passato e dell’attuale capacità di essere donna e madre viene smascherata nella sua falsità e, tramite il suo disvelamento, viene messa alla berlina la borghesia dei salotti buoni, bigia e piena di soldi, arrogante nel porsi con gli altri, stravagantemente convinta di possedere una superiorità morale e culturale sulle genti, ma che, invero, consuma la propria esistenza nella assenza di valori autentici, idee vere, azioni concrete, obiettivi utili.
Jep sa questo, è cosciente che dalla pubblicazione del suo romanzo anni prima nulla ha più costruito il suo pur vivace ingegno, niente hanno più concepito la sua anima, il suo cuore, il suo intelletto, offuscati da una mondanità brulla, che gli brucia ogni serata e notata da decenni.
Jep vuole scomparire, come la giraffa (uno dei tanti elementi simbolici della pellicola) che un amico “mago” rende evanescente nell’ambiente.
Jep vuole dissolversi oppure ricominciare. Non si darà alla fuga al pari dell’ unico amico - raccontato da Carlo Verdone - disgustato da tanta inedia, da troppa superficialità e inganno, di cui la “fidanzata”(Anna della Rosa) è impareggiabile maestra, infame nel comportamento quotidiano, tatertyp della comune percezione della moralità delle tante ragazzotte che deambulano nottambule in ricerca del tutto e subito perché del domani non v’è certezza, idolatre dell’unico attuale dogma: denaro senza fatica e privo di etica.
Fra queste dame brillano per assenza di luce negli occhi la onnipresente a feste e cene Pamela Villoresi e, per ovvietà negli incontri sessuali, oramai riti scontati, Isabella FerrariSerena Grandi, nella suo truculento disfacimento fisico, fornisce plasticamente corporeità al vizio stratificato nel tempo.
Il personaggio interpretato da Verdone scappa disgustato e senza speranza, Gambardella no: rimane e cerca. Cerca qualche vibrazione che possa scuotergli cuore, riattivarli l’anima e galvanizzarne l’intelletto.
Non la trova certamente in un cardinale in predicato per il soglio pontificio (il sempiterno straordinario Roberto Herlitzka), pervicacemente attratto dalla goliardia terrena ed esperto dell’arte culinaria, irrimediabilmente allergico alla spiritualità: qui, nella rappresentazione cinematografica del principe della Chiesa, Sorrentino si avvicina sensibilmente agli stilemi propri delle opere di Fellini. L’aspetto lievemente luceferino dell’attore ben esprime l’assenza di religiosità dentro la coscienza dell’alto prelato.
La narrazione di questo cammino è punteggiato da scene improvvise, quasi subliminari, di suore che irrompono nella proiezione senza che tali apparizioni fuggevoli abbiano alcun senso, raffigurate in maniera ridanciana e un po’ volgare, quasi pasoliniana.
L’incontro con suor Anna in odore di santità traccia il confine fra un prima e un dopo.
Suor Anna è molto anziana e il regista la raffigura fisicamente simile a Madre Teresa di Calcutta, esasperandone però la rigidità dei movimenti, l’avvizzimento della pelle, il ragrinzimento dei tratti mimici, atteggiandola ad una mummia dalle fattezze somatiche incartapecorite. La suora non parla di povertà, ma la vive. E’ questo l’aspetto dirimente che separa l’ante con il post, lo “ieri” con il “domani”. I salotti radical chic fanno un gran parlare di miseria ma se ne tengono ben lontani, ingozzandosi di un quotidiano superfluo, andando a dormire mentre gli altri si alzano.
Forse per Jepi è il momento di andare, di riaccendere le passioni che molti anni addietro lo hanno spinto a scrivere e che una Roma, incupita da appartamenti illuminati dal baluginio della luce artificiale, ne ha spento lo scintillio interiore, quello che traduce le emozioni in parole, la tribolazione dei sentimenti in lettere: “ è tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura. Gli sparuti e incostanti sprazzi di bellezza, e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile: quel posto si chiama vita.” L’umanità che lo ha accompagnato nel tempo, circondandolo di effimero, rimane inalterata e il commilitone di tanta esteriorità privata della bellezza, Carlo Buccirosso, il più pervicace mondano delle terrazze della Capitale, non cesserà di proferire il suo Te chiavasse a qualunque femmina intercetti nel suo percorso danzante.
Lo stormo di gru che si alza nel cielo di Roma tinto dei colori del tramonto primaverile-estivo, dopo un lieve soffio emesso dalla bocca di suor Anna, descrive allegoricamente l’ultima notte di un Jep Gambardella, che vergherà di nuovo su pagine vuote da troppi lustri nuove sensazioni, narrate alla luce del giorno, mentre la notte lo vedrà dormiente giacere sul suo letto, incurante della lugubre ed sempre eguale mondanità che persisterà sulle splendide terrazze del centro di Roma.
Ora Gepy conosce sentimenti nuovi, non attraversati necessariamente dall’obbligato rispetto del codice del sesso, ma che si realizzano in pienezza nello scambio di affetti fra lui e una spogliarellista romanaccia (Sabrina Ferilli), la cui grave patologia di cui è affetta determinerà anche un momento drammatico, rendendo La grande Bellezza difficilmente classificabile e sussumibile entro una categoria specifica.
Gep Gambardella, ora, può aspirare alla Grande Bellezza, che trasparirà attraverso i pori di piazza di Spagna, di Trinità dei Monti, di piazza Navona e di via Veneto - non più teatro della sorniona dolce vita degli anni ’60 - , occhieggerà lungo quella linea sfocata che si intravede fra i tetti delle Basiliche e dei monumenti romani e il cielo e lo dirigerà, finalmente e fatalmente, verso un nuovo orizzonte…e un nuovo romanzo.


Fabrizio Giulimondi





"I SOGNI SEGRETI DI WALTER MITTY" DI BEN STILLER


Locandina italiana I sogni segreti di Walter Mitty
Onirico, surreale, se vogliamo leggermene comico, certamente meritevole di un Oscar per la eccellente fotografia, il film “I sogni segreti di Walter Mitty” (erroneamente tradotto dal titolo originale “The secret life of Walter Mitty”), con Ben Stiller, questa volta non solo meno balbettante e imbranato, ma anche  ottimo regista, affiancato alla fine da Sean Penn.

Il protagonista, Walter Mitty,  si incanta spesso e  sogna ad occhi aperti una realtà meno grama,  intervenendo con la fantasia sulla evoluzione degli accadimenti, facendo sì che, almeno nella sua mente,  la loro conclusione sia a sé favorevole.  L’esistenza  e l’irrealtà,  ad un certo punto,  si confondono, venendo a sfocarsi la linea di demarcazione  fra i confini dell’una ed i contorni dell’altra.

I paesaggi mozzafiato groenlandesi, islandesi e afgani,  donano un tocco di classe allo sviluppo narrativo, assolutamente consigliato alle famiglie.

Fabrizio Giulimondi
 

sabato 11 gennaio 2014

"IL CAPITALE UMANO" DI PAOLO VIRZI'

Locandina Il capitale umano

Avete scommesso sulla rovina di questo Paese e ci siete riusciti!”. Questa frase pronunziata da Carla Bernaschi, interpretata da  Valeria Bruni Tedeschi, racchiude l’”anima” dell’ultima fatica di Paolo VirzìIl capitale umano”, liberamente tratto dal libro Human Capital di Stephen Amidon.
Film ruvido, ben lontano dalla leggerezza di Passione Sinistra (recensito in questa stessa Rubrica), ambientato nelle località del brianzolo (a differenza del romanzo il cui set è il  Connecticut), “Il capitale umano” ha un montaggio interessante, che struttura la trama in  quattro capitoli.
La storia raccontata è sempre la stessa, ma nei primi tre “episodi” la visuale muta a seconda dalla prospettiva da cui viene osservata. I fatti sono i medesimi, ma interagiscono e si intrecciano diversamente  fra di loro. Non solo: l’approccio interiore e psicologico cambia,  di volta in volta, a seconda di quale sia il  personaggio che assume il ruolo di attore principale.
Il capitolo finale espone ciò che è veramente accaduto.
La  narrazione si snocciola in più avvenimenti che, al termine,  confluiscono nello  stesso finale, ossia in  un incidente automobilistico che cagiona la morte di una persona.
La determinazione pecuniaria del “valore” del deceduto è tecnicamente qualificata dagli agenti assicurativi “capitale umano”,  ed è introno a questo omicidio colposo che ruotano i rivoli illustrativi di ogni singola individualità.
Accanto ai grandi attori come Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi e Valeria Golino, si affiancano  giovani leve  già particolarmente talentuose, al pari di Serena Ossola, Luca Ambrosini e Guglielmo Pinelli, che incarnano le tre vittime del sistema mentale e comportamentale responsabile dell'attuale sfascio economico, finanziario e sociale. Tutti e tre sono rei di condotte ed atteggiamenti errati, ma almeno puri nel loro sbagliare, privi di malizia, colpevoli per generosità e amore, a dispetto delle loro famiglie, condannabili e condannati tout court, senza scampo, senza appello.

Fabrizio Giulimondi

venerdì 10 gennaio 2014

DIO PROTEGGA I NOSTRI MARO' E LI SALVAGUARDI DA UN POPOLO CHE STUPRA LE RAGAZZINE PER POI DARE LORO FUOCO

Questo blog ha come propria regola  toni morbidi immersi in luci soffuse, trattando temi giuridico - culturali, ma davanti a tanta infamia e innanzi a Governi che si occupano di tutto fuorché degli Italiani, è un dovere urlare!Fabrizio Giulimondi
Un presepe e una foto dei Marò scatenano l’ira della Cgil che urla: “Toglieteli subito”

domenica 5 gennaio 2014

"AMERICAN HUSTLE - L'APPARENZA INGANNA" DI DAVID O.RUSSELL

Locandina italiana American Hustle - L'apparenza inganna
“American Hustle - L'apparenza inganna” di David O. Russell, acclamato regista di The fighter e de Il Lato Positivo, credo non potrà non ricevere qualche meritato Oscar per lo straordinario cast di attori appartenenti al firmamento hollywoodiano.
Christian Bale continua ad allargarsi ed a restringersi nel fisico a seconda delle parti che ricopre, dallo smagrito ed emaciato figuro in L’uomo senza sonno, al più corpulento uomo - pipistrello in Batman begins, Batman il cavaliere oscuro e Batman il cavaliere oscuro – il ritorno, sino al panzuto e sovrappeso Irving Rosenfeld, abile imbroglione americano, affiancato alla seducente Sydney Prosser, ossia l’attrice  Amy Adams: solare e sognate protagonista del film Disney Come d’incanto, qui la troviamo in forma esuberante e particolarmente sexy e hot. Artista a tutto tondo la Adams riesce a transitare da ruoli leggeri ad altri maggiormente impegnativi e complessi come in quello in esame, in cui l’avvenenza fisica e seducente non travalica sulle capacità espressive truffaldine e manipolatrici, senza essere difettosa nella capacità di mostrare amore per  il proprio uomo e tenerezza per il di lui figlio, avuto insieme ad una donna dotata di particolare imbecillità ed ocaggine,  ottimamente incarnata da Jennifer Lawrance.
La Lawrence, oramai resa celebre al grande pubblico come eroina  in  Hunger Games, già era balzata agli onori delle cronache cineaste dopo aver ricevuto il Premio Oscar come migliore attrice protagonista ne Il lato positivo.
Bradley Cooper, che ricopre i panni di un agente federale (Richie DiMaso) molto zelante ai limiti dei una virulenta  patologia mentale, ha fatto parte  anche egli del team de Il lato positivo diretto David O. Russell. Per essere il “buono” è particolarmente sgradevole, andando sicuramente le simpatie degli spettatori per i due bricconcelli Irving Rosenfeld e Sydney Prosser, mascalzoni sì ma ben lontani dalle perniciose spire  politico-mafiose (dove la mafia è visivamente rappresentata dall’intramontabile volto rugoso di Roberto de Niro) nelle quali li getta il poliziotto out of mind, pur di incastrare a tutti i costi i “pezzi grossi”. In realtà alcuni di questi “pezzi grossi” non si sarebbero affatto avvicinati al crimine se non fossero stati ad esso veemente compulsati da un ricattato Irving Rosenfeld e dall’agente sotto copertura Richie DiMaso. Le manette scatteranno – meritatamente -  non solo per alcuni membri del Congresso e del Senato degli Stati Uniti D’America, ma anche per Carmine Polito (Jeremy Renner), stimato esponente politico del New Jersey che molto aveva fatto per la sua Comunità e che nessun atto  contra legem avrebbe consumato, se non astutamente a questo indotto.
Hustle in lingua inglese ha più significati: sballottamento, spinta, spintoni, attività febbrile, trambusto. L’hustle and bustle  prorompe  nei continui ed ininterrotti dialoghi, tessuto connettivo di un film agevolmente definibile come “la pellicola dei dialoghi incalzanti e serrati senza pausa, senza fiato, senza cesure, senza silenzi”, ritmati da una colonna sonora splendida composta da brani appartenenti a  tutto il miglior repertorio della musica country, blues, rock, jazz, disco, non senza le  sincretiche melodie di  Gershwin.
Unica nota stonata è il doppiaggio, non in linea con la grande tradizione italiana.
Che lo spettacolo abbia inizio!
Fabrizio Giulimondi





sabato 4 gennaio 2014

"UN BOSS IN SALOTTO" DI LUCA MANIERO


Certamente un film per le famiglie è “Un boss in salotto” di Luca Maniero, con un bel cast di bravi e bravissimi attori italiani, come Paola Cortellesi, Rocco Papaleo, Luca Argentero Angela Finocchiaro, Marco Marzocca, Massimo De Lorenzo.

In questa pellicola si registrano  ancora tracce dei due successi precedenti del regista “Benvenuti al Sud” e “Benvenuti al Nord”.                

Piacevole, intelligente, divertente, pulita, con forti basi valoriali, la trama vede l’irrompere in una tipica famiglia borghese altoatesina, composta da padre (Luca Argentero), madre (la inarrestabilmente  brava Claudia Cortellesi) e due figli, il fratello di quest’ultima (Rocco Papaleo), imputato per associazione a delinquere di stampo camorristico e agli arresti domiciliari in attesa della sentenza di primo grado.

La presenza non passa inosservata  ai vicini, agli amici e, soprattutto, al direttore dell’ufficio dove il padre presta servizio.

Le conseguenze saranno dirompenti e tutte positive in termini professionali e di agi per la famiglia, convinta che siano dovute per meriti propri, mentre in realtà sono cagionate unicamente dalla presenza del malavitoso parente, che svelerà anche le vere origini geografiche della sorella  (di cui si è sempre molto vergognata) ,  che non si chiama affatto Cristina, bensì  Carmela, ed è veracemente napoletana.

Andarlo a vedere non è sicuramente  uno spreco di denaro: risate e lacrimucce, sullo  sfondo  delle splendide vedute di Bolzano e San Candido, sono assicurate!

 Fabrizio Giulimondi
Locandina Un boss in salotto
 
 

 

venerdì 3 gennaio 2014

"LA CENA DI NATALE" DI LUCA BIANCHINI


La cena di Natale di «Io che amo solo te» Continuano le avventure amorose – fintamente nascoste agli occhi degli altri – di don Mimì e di Ninella, condite con le buffe vicende delle relative famiglie, raccontate in maniera accattivante da Luca Bianchini in “La cena di Natale (Mondadori), secondo tempo del romanzo “Io che amo solo te”.
Luca Bianchini sta alla Puglia come Carmine Abate sta alla Calabria e, il set scelto da entrambi della cena della Vigilia,  potrebbe accumunare “La festa del ritorno” (fra i finalisti del Premio Campiello 2004) al libro in commento, anche se la poesia, la melodicità e  la grazia di Abate, prevalgono senza incertezze sulla leggera comicità ed ironia di Luca Bianchini.
In “Io che amo solo te” avevamo lasciato sposi Chiara e Damiano. Adesso troviamo lei incinta e il marito alle prese con qualche problema conseguenziale alle corna messe sul capo della sposa, mentre la signora Matilde (la first lady), moglie di don Mimì, è alle fibrillanti prese con i preparativi dei festeggiamenti del Natale alla barese (ossia anche la sera del 24 dicembre), per mostrare a tutti  il prezioso dono ricevuto dal fedifrago  consorte.
Graziosa, ilare, nel solco  della tradizionale commedia italiana, la storia è liscia come l’olio, lo stile semplice e il libro si fa leggere in un solo boccone.
Vi ripropongo la recensione (già pubblica in questa Rubrica) di “Io che amo solo te”, perché credo ben inquadri i personaggi e i contorni della narrazione.
Buona lettura!
Fabrizio Giulimondi

Indubbiamente un libro gradevole, molto scorrevole e assolutamente adatto alla  stagione estiva è l’ultima fatica letteraria di Luca Bianchini Io che amo solo te” (Mondadori), titolo tratto dalla omonima canzone di Sergio Endrigo e che ne fa da colonna sonora.

Il romanzo in molti suoi passaggi e personaggi ricorda opere cinematografiche e teatrali che, a mio sommesso avviso, l’Autore aveva ben presente durante la stesura del libro.

Don Mimì, una delle figure principali della narrazione, rimanda nella sua descrizione fisica e, specialmente, in quella dei baffi, Pasqualino  Settebellezze,  interpretato da Giancarlo Giannini nel famoso film di Lina Wertmuller, ma anche in qualche suo aspetto caratteriale il Don Mimì  della grandiosa commedia di Eduardo de Filippo Filumena Marturano.

La tragi-comica  personalità di Orlando, omosessuale, rimanda la mente alle storie raccontate in Manuale d’Amore 2 (di Giovanni Veronesi) da Sergio Rubini e Antonio Albanese e, in maniera meno leggera e più sofferta,  in Mine Vaganti (di Ferzan Ozpetek) da Riccardo Scamarcio e Alessandro Preziosi.

Al pari di queste due pellicole, il racconto è ambientato nell’entroterra pugliese, in cittadine di cui lo Scrittore esalta il provincialismo e i dettagli piccolo-borghesi, facendoli diventare motivo di ironia, strappando più di qualche sorriso al divertito lettore.

La trama si snoda intorno ai preparativi del matrimonio fra Chiara e Damiano, sino al giorno delle nozze e alle ore che si snoderanno successivamente.

Come tutte le commedie all’italiana che si rispettano, dietro l’organizzazione dell’evento e parallelamente alla storia ufficiale di ogni singolo personaggio,  esiste un altro racconto, ad una vicenda se ne cela un’altra, una vicissitudine ne svela un’altra.

Chiara è figlia della vedova Ninella (umile sarta) e sorella di Nancy, diciassettenne che ha come obiettivo primario imminente la perdita della verginità (regolarmente con l’idiota di turno Tony). Damiano, figlio della ricca famiglia Scagliusi, re delle patate locali, balbuziente quanto basta per creare delle  simpatiche gheg, si sposa perché così va fatto e perché ad un certo punto un uomo si deve sistemare. E’ così che gli ha insegnato Don Mimì, il padre, sposato con Matilde, donna che ce l’ha sempre con il mondo interno.

Orlando  -  altro figlio di Matilde e don Mimì e  fratello di Damiano - si fa usare senza ritegno da un altro uomo (l’innominato), latore delle  stesse tendenze -  ma sposato e con prole -  che si presenterà al matrimonio, determinando una vis comica simile alla migliore tradizione latina di Terenzio e Plauto, rafforzata dalla pantomima di Orlando di fingersi  eterosessuale portandosi in Chiesa, a mò di fidanzata,  Daniela, che in realtà è lesbica e convive con un’altra donna.

La verità è che i consuoceri si amano da quando erano ventenni. Don Mimì ha dovuto sposare Matilde e non Ninnella a causa del fratello di quest’ultima, zio Franco, al tempo arrestato per essere implicato in un affare di contrabbando.

Ninella e don Mimì non hanno mai spesso di amarsi e solo a messa, al momento della comunione, possono lanciarsi uno sguardo furtivo: al taglio della torta, finalmente, potranno concedersi un romantico e struggente ballo.

Chiara e Damiano si sono sposati al posto loro.

Interessanti anche i personaggi secondari, la cui raffigurazione non può non far balenare ad ognuno di noi il ricordo di parenti lontani che hanno passato  il tempo a spettegolare, a mettere bocca su tutto, ad impicciarsi di ogni piccola cosa che riguardasse gli altri, che  conoscevano  sempre la cosa migliore da fare e, al momento del pranzo nuziale, davano  il meglio di se stessi: “ci voleva un po’ più…ci voleva un po’  meno…..”.

Cosimo (cugino di Damiano), Mariangela (cugina di Chiara) e, soprattutto, la zia Dora, moglie di Zio Donato, fratello del defunto marito di Ninella, incarnano mirabilmente tutto questo.

Non posso non spendere una ultima  parola sui saggi consigli forniti da Ninella alla figlia  Chiara alle soglie del “grande passo”, di cui uno, credo,  possa  risultare -  qualora seguito -  particolarmente efficace: “Nel dubbio fatti i cazzi tuoi!”



Fabrizio Giulimondi