domenica 30 marzo 2014

"ANDORRA" DI PETER CAMERON


Dopo aver letto l’ultima fatica letteraria di Fabio Stassi -  giunto secondo lo scorso anno al Premio Campiello con lo splendido  libro “L’ultimo ballo di Charlot” - “Come un respiro interrotto” (Sellerio), linguisticamente e stilisticamente affascinante quanto contenutisticamente sgradevole e, a tratti, blasfemo, ho gustato e degustato il romanzo “Andorra” (Adelphi) dello scrittore statunitense Peter Cameron.
L’eleganza e l’aristocrazia della scrittura avviluppa una storia che nasce sonnecchiante, per poi arricchirsi di elementi che rendono la trama sempre più coinvolgente, fino all'inaspettato  coupe de theatre finale.
Il microbico Principato di Andorra, situato lungo i Pirenei fra la Spagna e la Francia,  assume nel racconto di Cameron tratti immaginifici: collocato  sulle coste di un  mare inesistente, la cui capitale La Plata -  delicato scenario ove si svolge l’azione narrativa –  in realtà è il nome fittizio della vera città di Andorra la Vella.
I dialoghi che piacevolmente scorrono in ambienti alberghieri o all’aperto, le cui sonorità di sottofondo sembra di udire,  fanno pregustare al lettore una conclusione  a lui ignota.


Fabrizio Giulimondi

domenica 23 marzo 2014

" LEI " ( "HER") DI SPIKE JONZE

Locandina italiana Lei
 
Solitudine. Solitudine. Solitudine. Solitudine. Solitudine. Solitudine.

E ancora solitudine.

L’essere umano è un animale complesso e complicato, che sfugge a se stesso e, talora, non si governa, non si capisce, non si conosce: i rapporti sentimentali fra uomo e donna sono lo specchio di  questo e le relazioni fra individui sono segnate dal mistero dell’amicizia e dell’amore e, quindi, dalla emotività e, pertanto, dalla irrazionalità.

Una umanità indebolita ha paura di questo e non è più in grado di affrontare la bellezza della difficoltà della comunicazione con l’ “altro”: troppo difficile, troppo impegnativo. Più comodo  avere vicino  un animale, o ancor meglio,   una intelligenza artificiale, partorita dalla copulazione fra la genialità della mente umana ed un computer.

Theodore, interpretato da un magniloquente Joaquin Phoenix, sta divorziando da una donna che frequenta ed ama dai banchi della università. Theodore scrive toccanti lettere per conto di  fidanzati e sposi che non ne sono capaci e interagiscono tra loro attraverso di lui. Theodore si innamora di un OS (operative system), un sistema operativo,  sul set presente con la voce suadente, sensuale, inquietante di Samantha (nella versione originale americana incarnata da Scarlett Johansson, la Vedova Nera nelle produzioni Marvel, mentre in quella italiana doppiata dall’attrice Micaela Ramazzotti).

La presenza vocale di Samantha diventa quasi ansiogena, come è angosciante il mondo descritto nel film “Lei” (“Her”) -  Premio Oscar e Golden Globe come miglior sceneggiatura originale -  del regista, soggettista e sceneggiatore Spike Jonze.

Il mondo di Theodore si va sempre più popolando di monadi, di persone che non hanno più contatti “veri”, “reali”, “fisici”, che implicano emozionalità, rischio, gioia autentica al pari di autentica sofferenza. La città di Los Angeles è lo scenario grottesco ove gli abitanti parlano tra di  loro attraverso le mail scritte da Theodore e gli amanti non sono in carne ed ossa, ma  irreali e fittizi come gli OS.

Romantico? Drammatico? Senz’altro. Fantascientifico no: è solo l’anteprima  di un prossimo futuro, raccontato  nel passato dallo scrittore russo   Asimov e descritto dal filosofo tedesco  Leibniz. E’ unicamente  l’anticipazione di un  presente che si avvicina,  fatto di contatti non vocali o corporei, privati  della   fisicità e nascosti agli  sguardi,  sviluppati solamente attraverso sms, e mail e whatsapp.

 

Fabrizio Giulimondi  
 
 

giovedì 20 marzo 2014

"LA MOSSA DEL PINGUINO" DI CLAUDIO AMENDOLA

Locandina La mossa del pinguino
La mossa del pinguino”,  opera prima come regista del noto - sul grande e piccolo schermo -  attore romano e figlio d’arte Claudio Amendola, non convince fra lazzi talora divertenti e non poca noia.
Amendola con sé porta una porzione del cast dei Cesaroni e di Distretto di Polizia (anche qui Ricky Menphis ha come padre Sergio Fiorentini), con due innesti di valore come Ennio Fantastichini ed Edoardo Leo (che oramai imperversa nelle sale cinematografiche).
La mossa del pinguino è quella che fa l’animale artico quando è stanco e vuole risparmiare energie, mettendosi a pancia sotto e lasciandosi scivolare lungo il ghiaccio, giungendo agevolmente a meta, ed è la mossa del pinguino che suggerisce il figlio (il giovanissimo e promettente Damiano de Laurentis) ad uno dei co-protagonisti per ottenere un punto a carling.
E’ il carling, gioco stravagante, entrato nelle discipline olimpiche nel 1984, a costituire l’ossatura della trama e a fare da collante alle storie dei suoi aspiranti- e improbabili – giocatori, che mirano a partecipare ed a vincere  ai giochi invernali di Torino nel 2006.
Il finale con il sottofondo delle suggestive musiche di Vangelis, che hanno fatto da colonna sonora al film di Hugh Hudson Momenti di Gloria,  è un po’ eccessivo.
Andrà meglio la prossima volta.


Fabrizio Giulimondi

domenica 16 marzo 2014

"MUSEE D'ORSAY, CAPOLAVORI" AL COMPLESSO DEL VITTORIANO A ROMA


Dopo il commento in questa Rubrica alle suggestive mostre sull’opera pittorica di Paul Cezanne e gli Artisti italiani del ‘900 al Complesso del Vittoriano e  sugli artisti impressionisti “Gemme dell’impressionismo”,  al Museo dell’Ara Pacis, ecco di nuovo allestite al Vittoriano a cura di Guy Cogeval e Xavier Rey altre pictures at an exhibition di provenienza parigina sull’impressionismo ed il post impressionismo,  “Musée d’Orsay, Capolavori”, dal 22 febbraio all’8 giugno 2014.
L’esposizione porta per la prima volta a Roma straordinari  lavori compiuti tra il 1848 ed il 1914 dai grandi Maestri francesi Gauguin, Corot, Monet, Degas, Sisley, Pissarro, Manet, Seurat, oltre dal genio  dell’ olandese Vincent van Gogh, proponendo un percorso artistico che – attraverso una selezione di oltre sessanta opere – parte dalla pittura accademica dei salon,  passando lungo la  rivoluzione prodotta dal nuovo sguardo impressionista,  per poi giungere alle soluzioni formali dei nabis (profeti in ebraico) e dei simbolisti.
Invero, questa mostra abbraccia le tre grandi correnti pittoriche del XIX secolo, ossia l’impressionismo – e l’impressionismo ed il neo impressionismo sono al centro della mostra – il realismo ed il simbolismo, precursore dell’espressionismo.
Dalla tecnica adoperata dagli artisti impressionisti,  le cui tele di impareggiabile bellezza potrete godere al primo ed al secondo piano del Palazzo del Vittoriano,  avrete l’opportunità di notare  la rottura con l’arte accademica ufficiale che nei salon, ossia nelle esposizioni di quadri e di sculture che si svolgevano annualmente o biennalmente a Parigi, trovava la sua sede naturale. L’arte accademica ufficiale dei salon seguiva rigidamente tre regole fisse: la rappresentazione di soggetti religiosi, classici o storici; la perfetta definizione delle opere dipinte; i colori sfumati con pennellate invisibili.
La scuola impressionista raffigura persone reali e paesaggi e scene spontanee della vita quotidiana, lavorando en plein air, come suggeriva l’artista francese Pierre-Henri de Valenciennes nel trattato ”Elementi di prospettiva pratica” (1800), ove invitò i pittori di paesaggio ad osservare dal vero la natura e iniziare i dipinti ad olio direttamente all’aperto: “tutti gli studi sulla natura devono essere realizzati in due ore e, se eseguiti al tramonto o al sorgere del sole, per non più di mezz’ora”.
L’impressionista accosta piccole pennellate di colore per rendere l’effetto della luce: la luce ed il colore sono gli  elementi fondamentali di questa corrente pittorica. I colori degli oggetti non sono fissi, ma modificati da ciò che li circonda. Le ombre sono colorate e non neutre o scure. L’Artista  deve cogliere l’attimo, al pari di una fotografia, per rendere perenne e immortale l’istantaneo, fissando  le luci ed i colori, i bagliori tipici di un preciso istante in un determinato luogo blocacto  in un momento che non si ripresenterà più. Le luci sono naturali se il pittore opera en plein air, ma artificiali se, come nella ritrattistica al secondo piano, le figure sono riprodotte  in situazioni galanti, in un cafè, in una sala da tè o in un ambiente teatrale.
Della “utilizzazione”, della “gestione” e del “trattamento” della luce e dei colori ad opera dei maestri impressionisti si innamorò Vincent van Gogh: il giallo che già presenzia prepotentemente nelle opere esposte al secondo piano,  dominerà  e signoreggerà la serie di dipinti di olio su tela I Girasoli, realizzati fra il 1988 ed il 1989.
Nei ritratti impressionisti comincia ad emergere il tratto psicologico del personaggio raffigurato, ricerca e studio che darà vita al simbolismo e, successivamente, all’espressionismo, da cui nasceranno i potenti filoni artistici, pittorici, culturali, letterari e scultorei dell’astrattismo, del cubismo e  del surrealismo.
Il post e  neo impressionismo accentua le pennellate veloci con le tecniche del puntinismo e del divisionismo.
Il primo è un procedimento in cui il colore viene accostato sulla tela per mezzo di puntini fitti o piccole macchie che  possiedono varie dimensioni.
Il divisionismo è un metodo che utilizza piccoli punti, lineette e segni che avvicinano colori diversi: le lineette cambiano direzione, si intrecciano e creano movimento.
Due ultime annotazioni.
Meravigliose al pian terreno, dopo essere essere scesi dal secondo,  le tre tele di paesaggi di Claude Monet, al pari, nel primo salone in fondo al corridoio che si affaccia all’entrata della visita, dei quadri di Camille Corot, pittore nutrito di cultura classica, che si evolve verso una rappresentazione onirica della natura che continua ad essere popolata di ninfe nude – ereditate dalla antichità -  che danzano e giocano in scenari rupestri.  
Godiamo di questi tratti di bellezza, perché solamente la Bellezza ci salverà dalla vacuità che ci circonda e ci opprime.

Fabrizio Giulimondi


sabato 15 marzo 2014

"DALLAS BUYERS CLUB" DI JEAN-MARC VALLEE

Locandina italiana Dallas Buyers Club
1985-1992: il virus dell’HIV  si propaga a vista d’occhio e con esso la malattia dell’AIDS  e la  mattanza da essa provocata ovunque  siano  diffusi stili di vita senza freni.
Un texano, amante dei rodei, macho, molto macho, troppo macho (interpretato dal Premio Oscar come miglior attore protagonista Matthew McConaughey, quello che in The wolf of Wall Strett di Martin Scorsese indottrina, fra una dose e l’altra di alcool, un Leonardo DiCaprio alle prime armi nel mondo della finanza, insegnandogli un stravagante danza ritmata a colpi di pugni sul petto, cadenzata da un  cupo e prolungato suono profondo gutturale di gola) , scopre di aver contratto la patologia e di avere, a detta dei medici, solamente trenta giorni di vita.  Pensava che solo gli omosessuali fossero destinati a tale male, ma non è così.
Il suo disprezzo  per gli omosessuali è superato dalla comune malattia con un gay con accentuati tratti femminei, interpretato da uno scheletrico (e irriconoscibile) Jared Leto (Premio Oscar come miglior attore non protagonista), con cui inizierà – su e giù per il Messico - un traffico di famraci, in un primo tempo  semplicemente non autorizzati dalla americana  F.D.A. (Food and Drug Administration), poi dalla stessa definitivamente proibiti.
Lo scontro è fra  la medicina ufficiale, non interessata alla reale salute di pazienti emarginati dalla società (a partire dal protagonista che sarà isolato dagli amici e dai colleghi di lavoro),  che propone l’AZT, farmaco in realtà tossico e, spesso, mortale, e quella “domestica”, che grazie ad un cocktail di vitamine, minerali e proteine, allunga e di molto la vita ai pazienti, migliorandone il più delle volte anche la qualità.
Per certi versi ricorda l’Olio di Lorenzo di George Miller, per altri una delle prime pellicole sul tema Philadelphia di Jonathan Demme.
Intensa l’interpretazione di  McConaughey; ironica e disarmata quella di Jared Leto.
Il film di Jean –Marc Vallée  “Dallas Buyers Club” è intelligente  e, pur  trattando  un argomento scottante che ancora brucia nel mondo, non cade mai in  eccessi e brutalità,  equilibrato nell’ uso delle scene di sesso e moderato nell’utilizzo delle parole forti, dense nella prima parte della proiezione,  attenuate e diluite nei dialoghi nel  suo proseguo L’aggiudicazione del Premio Oscar come miglior attore protagonista a DiCaprio per la parte ricoperta in The Wolf of wall street o a Chiwetel Ejiofor  per il ruolo in 12 anni schiavo, forse, sarebbe stato più meritato.


Fabrizio Giulimondi


venerdì 14 marzo 2014

"PREMIATA DITTA SORELLE FICCADENTI" DI ANDREA VITALI

Di fronte a uno che sa raccontare, che ha la felicità del racconto, ti senti grato”: quando è Andrea Camilleri a pronunziare tele giudizio, non puoi non affrontare la lettura di un libro con il cuore aperto alla convinzione di approcciare un testo letterario  che ti lascerà, molto probabilmente, soddisfatto, se non addirittura entusiasta. Se poi a Camilleri si aggiunge il pensiero di Antonio D’Orrico,critico  di “Sette”, il quale ritiene “Andrea Vitali non un grande scrittore, ma un grandissimo scrittore”, allora le aspettative si gonfiano ulteriormente.

L’ultima fatica  del pluripremiato romanziere Andrea Vitali “Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti (Rizzoli), seppur non con i toni accesi con cui ne è stata annunziata l’ uscita nelle librerie, è indubbiamente di scorrevole e piacevole godimento per  il lettore, che si intrigherà e  appassionerà sulle vicende e le vicissitudini narrate, amabilmente e con un pizzico di ironia, dall’Autore.

Tutto sembra semplice e scontato ma, invero, nulla lo è.

Giovenca Ficcadenti, a dispetto del nome,  è la sorella di straordinaria bellezza e sensualità.

Zemia Ficcadenti è, all’inverso, la sorella di impareggiabile  bruttezza.

Geremia, buono buono, scemo scemo, ha pretese matrimoniali ardite, troppo ardite, per uno come lui.

La Stampina è la madre disperata di Geremia, affiancata da uno sposo oramai lontano nel corpo e nella mente dalla vita terrena.

Don Primo, il prevosto, ossia il parroco, di un piccolo paese friulano, il cui dialetto si inframmezza, talora, fra le pieghe dell’idioma adoperato dai personaggi.

Rebecca è la perpetua inevitabilmente impicciona, che scorge ovunque il diaol.

Novenio, un po’ fuori di testa, un po’ poeta fallito, in realtà, è “un coglione”, visto che di testicolo ne possiede solamente uno.

Il notaro, che sa di latinorum, si rivelerà per quello che è: un grasso e lurido individuo, unto come i cibi di cui si sollazza, non potendosi sollazzare con altro.

Che dirvi? Buona lettura!........in attesa che “Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti” diventi una piece teatrale. 

Fabrizio Giulimondi   

martedì 11 marzo 2014

FABRIZIO GIULIMONDI CONSIGLIA: MAX TORTORA IN "L'AMORE E LA FOLLIA" AL TEATRO OLIMPICO IN ROMA

Max Tortora in un "one man show", dove mostra doti canore, di imitatore, di pianista, di cabarettista, esibendosi in numeri comici e sketch.....anche se il Grande Gaber e Fiorello sono ancora a qualche miglia di distanza.
Fabrizio Giulimondi 


"L’amore e la follia"one man show diMax Tortora al Teatro Olimpico di Roma dall'11 al 30 marzo, accompagnato dalla music band e con la partecipazione diStefano Sarcinelli e Roberto Andreucci, tra i suoi personaggi Arbore, Califano e Celentano.

Torna Max Tortora sulle tavole del palcoscenico per la gioia di chi ha goduto delle sue performance imitative e comiche nel corso di questi anni. Dagli esordi nel ‘97, dove prestava la sua fisicità a un irresistibile Tarzan disoccupato e demoralizzato nella pubblicità dell’analcolico biondo, alle tante commedie teatrali, concedendosi qualche incursione nel cinema e nella radio. Ma sono le apparizioni televisive che rendono merito alla sua grande capacità imitativa; Alberto Sordi, Luciano Rispoli, Adriano Celentano, Franco Califano, Renzo Arbore e Michele Santoro sono solo alcuni dei personaggi famosi a cui ha dato corpo, voce e anima.

Max Tortora infatti è sempre andato oltre le caricature individuando nei suoi ‘originali’ un’incongruenza o anche una specificità che, grazie ad una rielaborazione ironica, ha trasformato in esilaranti ed indimenticabili parodie. "Il mio maestro è il grande Alighiero Noschese, da cui ho appreso molte cose e al quale mi sono ispirato per rendere più credibili le mie imitazioni".
In questo show le imitazioni dei suoi personaggi appaiono qua e là contestualizzate nel periodo in cui sono vissuti e abbinati quindi alla musica di quel momento storico. Essendo infatti un attento osservatore, Tortora porta in scena anche le sue considerazioni della realtà e le relative rielaborazioni artistiche. "Sarà un ricco minestrone senza un filo logico, con dentro attualità, televisione e tanta musica. Il tutto condito con un po’ della mia follia".

Racchiuse nel titolo sono infatti le due cose che per Max contano nella vita: l’amore e la follia, i binari su cui far scorrere tutto il resto. L’amore è il sale della vita, da mettere in tutto ciò che si fa e la follia invece lo ha accompagnato in tutte le sue espressioni.
In scena con lui un grande artista, Stefano Sarcinelli "che per me è il Gianni Agus dei nostri tempi; è bravissimo, ha i tempi della Commedia dell’Arte. Insieme sul palco siamo perfettamente accordati".

In nome del fuoco sacro della follia, ogni sera sul palco ci sarà anche qualcosa di nuovo "voglio ospitare tanti amici con le loro incursioni musicali e teatrali".
Insomma, sarà un viaggio a zonzo tra racconti, gag, imitazioni e tanta musica.

Scritto e diretto da Max Tortora
Scenografia: Francesco Scandale
Disegno Luci: Domenico Ragosta
Corpo di Ballo: Martina Chiriaco e Roberta Guerrini
Music Band: Fabio Tullio, Fabio Di Cocco, Salvatore Leggieri
Sergio Vitale, Amedeo Miconi, Maurizio Porto


TEATRO OLIMPICO - Piazza Gentile da Fabriano, 17 (Roma)
Dall’11 al 30 marzo 2014

Botteghino aperto tutti i giorni 10-19 orario continuato
Info & Biglietti 06.3265991 – biglietti@teatroolimpico.it
Biglietti inclusa prevendita € 36,00 – € 31,00 – € 26,00. Ridotto junior (4-14 anni) € 15,50
Biglietteria online: http://biglietteria.teatroolimpico.it

Orari spettacoli: martedì - sabato h. 21.00; domenica h. 18.00
Riposo giovedì 13, lunedì 17 e 24 marzo

lunedì 10 marzo 2014

"SAVING MR. BANKS" DI JOHN LEE HANCOCK

Marsilio Ficino, neoplatonico fiorentino del quattrocento,  diceva che l’uomo può procedere “ab inferos usque ad sidera coeli”. Walt Disney ha condotto  l’umanità sino alle più elevate altezze del Cielo, perché Walt Disney, come Beethoven e Einstein, è un gigante della storia dell’essere umano ed è immortale, perché vive ogni  giorno  in ogni angolo del pianeta nel “Bello” e nella “Gioia”  che ha infuso nelle sue opere, nei suoi film, nei suoi cartoni, nei suoi parchi di divertimento, immensi e indimenticabili,  sparsi per il Globo, dove appezzamenti di terreno paludosi e acquitrinosi sono diventati DisneyLand in California e DisneyWorld in Florida.
Chi non ha visto Biancaneve, La bella addormentata nel bosco, Cenerentola da bambino è destinato a gettare sassi dai cavalcavia da grande, diceva saggiamente qualcuno.
E chi non ha visto Mary Poppins, l’incantevole creazione del 1934 di Pamela Travers, trasbordata sul grande schermo  nel 1964 dal  genio di Walt?
E chi non si è chiesto se Mary Poppins è venuta ad aiutare i figli di Mr. Banks dalle mille regole britanniche da egli imposte, dai formalismi londinesi da questi volute, dall’intransigente ritmar del tempo che scandisce la vita dei piccoli da lui tanto auspicato, o è volata in quella magione per salvare Mr. Banks da se stesso? dalla sua rigidità? dalla sua assenza di spirito ludico?
E Mr. Banks è una mera invenzione della fantasia di Pamela Travers o qualcosa di reale appartenente  al  mondo adolescenziale australiano della Scrittrice?
Il delicato, emozionante e commovente film di John Lee HancockSaving Mr. Banks”, attraverso una veritiera documentazione fonica dell’incontro fra il fantasmagorico Walt Disney, interpretato magistralmente da Tom Hanks, e la rigidissima, acidula e stravagante autrice della baby sitter-fata (straordinaria Emma Thompson), ci svela gli autentici retroscena, filmici ed umani,  della realizzazione della pellicola  Mary Poppins,  due anni prima della scomparsa di Walt Disney…..che per milioni di persone,  bambini e adulti, in realtà non è mai morto.

Fabrizio Giulimondi


domenica 2 marzo 2014

Nella magica notte degli Oscar, 2 marzo A.D. 2014, a Los Angeles è apparsa una nuova stella: PREMIO OSCAR COME MIGLIOR FILM NON IN LINGUA INGLESE...THE WINNER IS.....PAOLO SORRENTINO con "THE GREAT BEAUTY!!!!!!!!!!!!!"..."LA GRANDE BELLEZZA!!!!!!!!"

Locandina del film La grande bellezza

Dopo alcuni lungometraggi, romanzi giunti sulla soglia del Premio Strega, pellicole apprezzate dalla critica, film di particolare valore estetico e corposo significato contenutistico, come Il Divo (2008) e This must be the place (2011), Paolo Sorrentino ha portato l'anno scorso nelle sale italiane La grande Bellezza, un’opera che, dopo aver vinto come miglior regista, miglior attore (Toni Servillo) e miglior film gli E.F.A. 2013 (European Film Awards), al Festival internazionale del cinema di Berlino, ha ricevuto a Los Angeles  il prestigiosissimo Premio Golden Globe  come miglior film non in lingua inglese. Non si è fatto mancare neppure il londinese B.A.F.T.A. (British Academy of Film and Television Arts).
86th Oscars

Nella magica notte degli Oscar, 2 marzo A.D. 2014, a Los Angeles è apparsa una nuova stella: PREMIO OSCAR COME MIGLIOR FILM NON IN LINGUA INGLESE...THE WINNER IS.....PAOLO SORRENTINO con "THE GREAT BEAUTY!!!!!!!!!!!!!"..."LA GRANDE BELLEZZA!!!!!!!!"

L’arte del regista Sorrentino oramai è indiscussa e non ha nulla da invidiare a quella immaginata dai grandi autori europei e statunitensi.
Film di pregio, intenso, pieno, suggestivo e completo, a tutto tondo, simbolico, articolato e complesso, arguto e disincantato, cinico e bonario, intelligente e delicato, La grande Bellezza vede un cast composto dal più importante cinema italiano, un florilegio di nomi raramente compresenti in maniera così massiva in un produzione cinematografica: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Galatea Ranzi, Roberto Harlitzka, Isabella Ferrari, Giorgio Pasotti, Vernon Dobcheff, Serena Grandi, Luca Marinelli, Giulia Di Quilio, Massimo Popolizio, Giorgia Ferrero, Pamela Villoresi, Carlo Buccirosso, Ivan Franek, Stefano Fregni.
Toni Servillo, oramai uno dei sommi interpreti del cinema italiano, primeggia su tutti nella parte del protagonista Jep Gambardella, anche se gli altri attori, ognuno per la propria parte, maggiore o minore che sia, danno quel tratto di penna, quella pennellata, quel tocco musicale, che rendono il lavoro corale grandioso e armonico.
Jep Gambardella è uno scrittore che ha pubblicato, decenni prima dell’inizio della storia, un romanzo di discreto successo.
Jep Gambardella è un giornalista di una rivista di cultura, arte e moda di buon accreditamento e diffusione.
Jep Gambardella è, soprattutto, il signore indiscusso della mondanità notturna romana. Da quando è giunto a Roma all’età di ventisei anni sino al compimento del sessantacinquesimo anno di età, non ha trascorso notte senza partecipare, ravvivare ed essere il protagonista di feste, cene, aperitivi, cocktail, organizzati da una borghesia festaiola quanto annoiata, imbolsita e intristita dal Nulla.
Sono il Nulla, Il Niente, il Vuoto, l’Inconsistenza, l’Insostenibile Leggerezza dell’Essere, il tessuto connettivo, la ragione sociale, il leit motif, il canovaccio della vita di Jep e dei compari mondani.
Il prologo del film è girato proprio nella villa di Gambardella, dove si sta svolgendo la sua festa di compleanno: per dirla con Angelo Branduardidanze, colori e allegria, canti e rumori, suoni di risa.
La mattina dopo, però, nulla della tristezza, della malinconia, dell’angoscia, del senso di inutilità, è stato in alcun modo rimosso, anzi, a dir del vero, tutto si è accresciuto.
E così è ogni sera, ogni notte e, poi, ogni risveglio.
Un concatenarsi di smarrimento in una apparente ricchezza e giocosità.
E’ quella borghesia romana ingolfata in un benessere stantio e monotono, non frutto di fatica e di lavoro, ma di rendite e di ricchezza altrui che provengono dal passato, da altre mani, da altri sudori.
E’ quella borghesia progressista, sempre dalla parte giusta, sempre con le idee giuste, sempre con le parole giuste sulle labbra pronunziate nel momento giusto.
E’ quella borghesia che ha le sue radici nel ’68 e che viene scenicamente interpretata con efficacia da Galatea Ranzi, politicamente impegnata da studentessa, dedita alla carriera e all’indottrinamento del figlio, secondo il corretto sistema valoriale che il " politicamente corretto" impone a questa sterile borghesia. Jep Gamabardella con poche, efficaci, potenti e dirompenti battute, che fuoriescono dalla sua bocca con elegante, aristocratica, nobile ferocia, smantella la signora il cui ruolo Galatea Ranzi ricopre abilmente.
La storia dell’impegno politico passato e dell’attuale capacità di essere donna e madre viene smascherata nella sua falsità e, tramite il suo disvelamento, viene messa alla berlina la borghesia dei salotti buoni, bigia e piena di soldi, arrogante nel porsi con gli altri, stravagantemente convinta di possedere una superiorità morale e culturale sulle genti, ma che, invero, consuma la propria esistenza nella assenza di valori autentici, idee vere, azioni concrete, obiettivi utili.
Jep sa questo, è cosciente che dalla pubblicazione del suo romanzo anni prima nulla ha più costruito il suo pur vivace ingegno, niente hanno più concepito la sua anima, il suo cuore, il suo intelletto, offuscati da una mondanità brulla, che gli brucia ogni serata e notata da decenni.
Jep vuole scomparire, come la giraffa (uno dei tanti elementi simbolici della pellicola) che un amico “mago” rende evanescente nell’ambiente.
Jep vuole dissolversi oppure ricominciare. Non si darà alla fuga al pari dell’ unico amico - raccontato da Carlo Verdone - disgustato da tanta inedia, da troppa superficialità e inganno, di cui la “fidanzata”(Anna della Rosa) è impareggiabile maestra, infame nel comportamento quotidiano, tatertyp della comune percezione della moralità delle tante ragazzotte che deambulano nottambule in ricerca del tutto e subito perché del domani non v’è certezza, idolatre dell’unico attuale dogma: denaro senza fatica e privo di etica.
Fra queste dame brillano per assenza di luce negli occhi la onnipresente a feste e cene Pamela Villoresi e, per ovvietà negli incontri sessuali, oramai riti scontati, Isabella FerrariSerena Grandi, nella suo truculento disfacimento fisico, fornisce plasticamente corporeità al vizio stratificato nel tempo.
Il personaggio interpretato da Verdone scappa disgustato e senza speranza, Gambardella no: rimane e cerca. Cerca qualche vibrazione che possa scuotergli cuore, riattivarli l’anima e galvanizzarne l’intelletto.
Non la trova certamente in un cardinale in predicato per il soglio pontificio (il sempiterno straordinario Roberto Herlitzka), pervicacemente attratto dalla goliardia terrena ed esperto dell’arte culinaria, irrimediabilmente allergico alla spiritualità: qui, nella rappresentazione cinematografica del principe della Chiesa, Sorrentino si avvicina sensibilmente agli stilemi propri delle opere di Fellini. L’aspetto lievemente luceferino dell’attore ben esprime l’assenza di religiosità dentro la coscienza dell’alto prelato.
La narrazione di questo cammino è punteggiato da scene improvvise, quasi subliminari, di suore che irrompono nella proiezione senza che tali apparizioni fuggevoli abbiano alcun senso, raffigurate in maniera ridanciana e un po’ volgare, quasi pasoliniana.
L’incontro con suor Anna in odore di santità traccia il confine fra un prima e un dopo.
Suor Anna è molto anziana e il regista la raffigura fisicamente simile a Madre Teresa di Calcutta, esasperandone però la rigidità dei movimenti, l’avvizzimento della pelle, il ragrinzimento dei tratti mimici, atteggiandola ad una mummia dalle fattezze somatiche incartapecorite. La suora non parla di povertà, ma la vive. E’ questo l’aspetto dirimente che separa l’ante con il post, lo “ieri” con il “domani”. I salotti radical chic fanno un gran parlare di miseria ma se ne tengono ben lontani, ingozzandosi di un quotidiano superfluo, andando a dormire mentre gli altri si alzano.
Forse per Jepi è il momento di andare, di riaccendere le passioni che molti anni addietro lo hanno spinto a scrivere e che una Roma, incupita da appartamenti illuminati dal baluginio della luce artificiale, ne ha spento lo scintillio interiore, quello che traduce le emozioni in parole, la tribolazione dei sentimenti in lettere: “ è tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura. Gli sparuti e incostanti sprazzi di bellezza, e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile: quel posto si chiama vita.” L’umanità che lo ha accompagnato nel tempo, circondandolo di effimero, rimane inalterata e il commilitone di tanta esteriorità privata della bellezza, Carlo Buccirosso, il più pervicace mondano delle terrazze della Capitale, non cesserà di proferire il suo Te chiavasse a qualunque femmina intercetti nel suo percorso danzante.
Lo stormo di gru che si alza nel cielo di Roma tinto dei colori del tramonto primaverile-estivo, dopo un lieve soffio emesso dalla bocca di suor Anna, descrive allegoricamente l’ultima notte di un Jep Gambardella, che vergherà di nuovo su pagine vuote da troppi lustri nuove sensazioni, narrate alla luce del giorno, mentre la notte lo vedrà dormiente giacere sul suo letto, incurante della lugubre ed sempre eguale mondanità che persisterà sulle splendide terrazze del centro di Roma.
Ora Gepy conosce sentimenti nuovi, non attraversati necessariamente dall’obbligato rispetto del codice del sesso, ma che si realizzano in pienezza nello scambio di affetti fra lui e una spogliarellista romanaccia (Sabrina Ferilli), la cui grave patologia di cui è affetta determinerà anche un momento drammatico, rendendo La grande Bellezza difficilmente classificabile e sussumibile entro una categoria specifica.
Gep Gambardella, ora, può aspirare alla Grande Bellezza, che trasparirà attraverso i pori di piazza di Spagna, di Trinità dei Monti, di piazza Navona e di via Veneto - non più teatro della sorniona dolce vita degli anni ’60 - , occhieggerà lungo quella linea sfocata che si intravede fra i tetti delle Basiliche e dei monumenti romani e il cielo e lo dirigerà, finalmente e fatalmente, verso un nuovo orizzonte…e un nuovo romanzo.

Fabrizio Giulimondi






sabato 1 marzo 2014

"BELLA CIAO, CONTROSTORIA DELLA RESISTENZA" DI GIAMPAOLO PANSA

“Mentre scruto l’immensità del paesaggio che mi accompagna nel mio andare, dico a me stesso che sto rivedendo tre solitudini. Quella dei partigiani, dei fascisti repubblicani e dei soldati di Hitler. Molti di loro, sempre da soli, sono finiti sotto terra, in circostanze e luoghi che abbiamo dimenticato.
Se Bella Ciao ha un senso, non può essere altro che un saluto a tante ombre che ci ricordano una verità spesso ignorata: la guerra civile è una malattia mentale che obbliga tutti a combattere contro se stessi.”.
Così finisce l’ultimo libro di Giampaolo PansaBella Ciao, controstoria della resistenza” (saggi Rizzoli).
Una volta Marcello Veneziani mi disse che quello che racconta Pansa nei suoi lavori sul periodo della resistenza (1943-1945) nel Centro-Nord dell’Italia, avrebbe voluto narrarlo lui stesso. Non ha potuto mai farlo  perché l’accoglienza da parte del pubblico e dei critici sarebbe stata ancora più dura,  aspra e intransigente rispetto a quella scatenata contro Pansa dagli ortodossi della Resistenza, a cui non interessa la ricerca storica ma solamente le “Verità” imposte a mo’ di dogmi religiosi su quel buio periodo storico.
Bella Ciao è l’ultimo di una lunga serie di studi e saggi scritti da Giampaolo Pansa a partire dal 2003 (Il sangue dei vinti, Prigionieri del silenzio, Sconosciuto 1945, La grande bugia, i Guardiani della memoria, I tre inverni della paura, Il revisionista, I vinti non dimenticano, I crimini ignorati della nostra guerra civile, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti) sulle “ombre” e lo “scuro” delle azioni dei partigiani comunisti, specie nel lasso di tempo a ridosso della uccisione di Mussolini (28 aprile 1945) e nelle settimane successive. Le vendette, gli stupri, le torture, i massacri immotivati contro civili inermi, che alcun atto criminale avevano, direttamente o indirettamente,  compiuto:  semplici fascisti come la maggior parte del Popolo italiano;  persone che con la scusa della “fascistità” venivano eliminate perché proprietari di case a cui non si voleva pagare la “pigione” o restituire soldi precedentemente prestati; partigiani appartenenti a brigate non comuniste (c.d. partigiani bianchi: cattolici, liberali, monarchici, azionisti), come a Porzus, trucidati per non essersi voluti  sottomettere al totalitarismo di Stalin e Tito.
Pagine crude, impietose, pregne di orrore e sangue, che dimostrano con prove documentali e testimoniali quanta violenza ingiustificata, al pari dei fascisti e dei nazisti, è stata, a volte e, forse, spesso, specie nell’ultimo periodo, perpetrata ai danni di inermi  dalle formazioni partigiane “rosse” della Garibaldi.
Se revisionismo è tirare fuori dalla oscurità fatti realmente verificatesi e metterli a conoscenza degli italiani, opera che ogni storico degno di questo nome avrebbe il compito ed il dovere di compiere sempre, allora Giampaolo Pansa è un revisionista, nella speranza che ne giungano altri.


Fabrizio Giulimondi