mercoledì 30 aprile 2014

THE AMAZING SPIDER MAN 2 - IL POTERE DI ELECTRO DI MARC WEBB......FINALE DRAMMATICAMENTE INASPETTATO!!!





Locandina italiana The Amazing Spider-Man 2 - Il potere di Electro




La Marvel è tornata con il suo supereroe 

prediletto…..e nulla sarà come prima!
Il Vostro Fabrizio Giulimondi di quartiere

Andrew GarfieldEmma StoneJamie Foxx
Andrew Garfield              Emma Stone Gwen Stacy  Jamie Foxx Electro 
Peter Parker/Uomo Ragno




Dane DeHaan
Dane DeHaan
Goblin




domenica 27 aprile 2014

"IL CARDELLINO" DI DONNA TARTT

Il cardellino“Il Cardellino” di Donna Tartt (Rizzoli), vincitore lo scorso 15 aprile del “Premio Pulitzer” 2014 , esprime  il punto di unione e fusione fra  letteratura,  teologia,  filosofia,  pittura e arte antiquaria, che divengono un unicum attraverso il “sublime” che tutto condensa e assorbe.
Un viaggio attraverso la sacralità della pittura, il mistero degli spazi museali, la bellezza struggente e immortale della letteratura, la polverosità invincibile, antica e immutabile dell’antiquariato, lungo un percorso di disfacimento mentale e fisico da assunzione massiva di droghe e alcol, da disperazione e solitudine.
Il Cardellino è una tempesta ormonale letteraria, una possente cascata di parole, un volumetrico scroscio di aggettivi, un roboante diluvio di descrizioni, una instancabile e mai noiosa narrazione, una densa rappresentazione scritta colorata, entusiasmante, ricca di un florilegio di allocuzioni. Affascinante l’incedere della narrazione di una Scrittrice che incarna la più nobile tradizione della letteratura americana e che fa restare senza fiato per lo splendido  puntiglio linguistico,  che infonde anche nel minimo dettaglio, senza mai stancare il lettore. Solo una letterata  di raro talento  – già Autrice di Dio di illusioni  e  prima in classifica con il lavoro in commento negli States, in Olanda e in Francia – può riuscire a non tediare il pubblico, anzi a tenerlo  avvinto  alla sua creazione, nella illustrazione compiuta con maestria di ogni passaggio, anche il più (apparentemente) inutile e ininfluente, della storia. Lo sviluppo narrativo è cesellato con la finezza di un linguaggio che saltella dall’inglese, al russo, all’ucraino, all’olandese, all’italiano,  impreziosito da terminologia tecnica appartenente alle arti pittoriche e antiquarie.
Il lettore viene affascinato da ogni tratto di penna della Tartt -  come se fosse il tocco di un artista espressionista -  che rende aristocratico anche ciò che è putrido, sordido, immondo e meschino. L’improvvisa violenza di certi momenti  ricorda alcune tele di Mirò, le opere cubiste di Picasso e la follia surrealista  di Dalì: improvvisi spruzzi linguistici allucinatori, psichedelici e deliranti, pagine e pagine di uso delle parole come fuochi d’artificio che si ricompongono in quotidiane vicende che, dalla normalità, subitaneamente, si tramutano in impreviste scene di azione, per poi  - al pari di una metamorfosi inaspettata -  modificarsi in squarci di tenera effusione di sentimenti, amorosi o amicali, drammaticamente veri o astutamente camuffati. I vocaboli trasudano emozioni e provocano nel lettore esattamente la sensazione che  la Tartt voleva  che egli provasse: sofferenza morale, disagio psichico, dolore fisico, malessere nell’anima, dolcezza, odio, amore, amicizia, sentimenti violentemente contrastanti fra di loro e terribilmente autentici. Le parole sono plasmate come creta e l’Autrice ne fa l’uso indicato da Sartre: segni visibili che possano rendere intellegibile il mondo interiore, far fuoriuscire all’esterno come lava eruttata da un vulcano ciò che è dentro all’Autore. Donna Tartt sa che ciò che è nascosto nelle pieghe della sua anima è celato anche  negli anfratti interiori dei suoi lettori ai quali, con una socratica opera maieutica, fa sgorgare sentimenti sino ad allora sconosciuti persino a loro stessi.  L’utilizzo funambolico dei termini e  delle espressioni idiomatiche anglosassoni della Tartt (mirabilmente tradotti da Mirko Zilahi de’ Gyurgyokai) ricorda lo stile di Tom Wolfe, distanziandosi però da questi per l’assenza dei caratteri futuristici e gotici.
Chi si accinge alla lettura di questo capolavoro scopre la vita di un bambino di tredici anni, Theo, a cui muore la madre in un museo newyorkese a causa di un attentato terroristico, e le pagine ad esso dedicate raffigurano con potenza evocativa  l’orrore dell’11 settembre 2001. Theo si sente colpevole di quella morte, come anche una coetanea, Pippa, si sente colpevole della scomparsa  dello zio, deceduto per gli stessi accadimenti. Le due storie si intersecheranno e si intrecceranno e coinvolgeranno anche Boris, un ragazzo  tossico ed alcolista. La ragnatela ingloberà anche la placida vita di un antiquario, Hobie, dolce e onesto, lavoratore e appassionato, instancabile nell’amore e nella perseveranza nell’aiutare Theo, oltre la famiglia Barbour, devastata dalla pazzia e, ineluttabilmente, dalla morte.
Le loro esistenze prenderanno implacabilmente consistenza, vita, corpo, densità, anima, per tutte le 892 pagine del romanzo.
 E poi c’è il dipinto, la cui presenza nella trama è la ragione stessa del libro: “Il Cardellino”, del pittore olandese Carel Fabritius -  morto a causa di un  incendio lo stesso anno della  creazione del quadro, nel 1654 -  attualmente esposto al Mauritshuis nella città dell’Aia. Nella mente di Donna Tartt tutto nasce con la tragica fine  del pittore fiammingo (il migliore fra gli allievi di Rembrandt), del quale  molte opere andarono irrimediabilmente perdute: Il Cardellino sopravvisse nella sua minuta dimensione e nella sua grande magnificenza. Anche la madre di Theo muore per un evento terribile per mano dei terroristi e il fil rouge di tutta la narrazione sarà proprio questa minuscola tela: “Perché fra la “realtà” da un lato, e il punto in cui la mente va a sbattere contro la realtà, esiste uno spazio sottile, uno spicchio d’arcobaleno da cui origina la bellezza, il punto in cui due superfici molto diverse tra loro si mescolano e si confondo per procurare ciò che la vita non ci da: e questo è lo spazio in cui tutta l’arte prende forma e tutta la magia………Ed è per questo che ho scelto di scrivere queste pagine così come le ho scritte. Perché solo entrando nello spazio intermedio, nel confine policromo tra verità e non verità, essere qui a scrivere tutto ciò diventa tollerabile.”.

Fabrizio Giulimondi



SAN PAPA GIOVANNI XXIII E SAN PAPA GIOVANNI PAOLO II: GLI ULTIMI PONTEFICI....POI SOLO CONFUSIONE E INCERTEZZA














venerdì 18 aprile 2014

"E SI FECE BUIO SU TUTTA LA TERRA"







La morte non è l'ultima parola e la Croce è solo una "collocazione provvisoria"......
e voglio credere che ci sia un po' di resurrezione anche in questa breve vita ......



giovedì 17 aprile 2014

"GRAND BUDAPEST HOTEL" DI WES ANDERSON: PREMI OSCAR COME MIGLIOR TRUCCO, MIGLIORI COSTUMI E MIGLIORE SCENOGRAFIA

Locandina Grand Budapest Hotel

Grand Budapest Hotel” del regista texano  Wes Anderson.
Garbato, elegante, inconcludente, indeterminato, fumoso, stravagante, non contestualizzato nello spazio (il set è in uno Stato inventato, che potrebbe essere la Francia, come la Germania o l’Ungheria), incerto nell’idioma (sono compresenti, parlati e scritti, il tedesco, il francese e l’inglese), ma determinato nel tempo (dal 1932 in avanti), con ricca simbologia che riecheggia le SS e  le famigerate  “guardie di ferro” rumene.
Può piacere o no, annoiare o divertire con una ilarità di sapore transalpino…..lo scoprirete solo vedendolo.

Fabrizio Giulimondi


martedì 15 aprile 2014

"DIVERGENT" DI NEIL BURGER

Locandina italiana Divergent

Divergent di Neil Burger, ennesima piacevole saga fantascientifica tratta dai tre romanzi di Veronica Roth (il che vuole dire che ve ne  saranno almeno altri due di  film).
La trama  rispecchia canoni classici della filmografia del settore: società post bellica e post nucleare divisa in cinque rigide fazioni, a mo’ di caste: gli abnegati (mansueti e solidaristi), gli intrepidi (temerari  fino all’alto rischio della vita), gli eruditi (conoscitori del tutto), candidi (badano al raccolto, amanti della verità ed eternamente felici) e i pacifici (amministratori della giustizia). Chi non riusciva ad entrare in queste categorie era “escluso”, una sorta di paria dell’India pre –Gandhi.
E poi ci sono i divergenti, che possiedono le  capacità di più classi e sfuggono, pertanto, al controllo dei dominanti (ben raffigurati da Kate Winslet, che ben ricorda una guardiana nazista). I divergenti non sono inquadrati ed inquadrabili e  pensano e agiscono autonomamente e, dunque,  sono pericolosi…e devono essere eliminati.
La protagonista (Tris) interpretata da Shailene Woodley (brava attrice non protagonista in Paradiso Amaro di George Clooney), prima abnegata e poi intrepida, in realtà  è una divergente. La Woodley - non so se volontariamente o involontariamente - imita palesemente nella fisicità, nella mimica, nei movenze e nella recitazione, la molto più famosa eroina di Hunger Games Jennifer Lawrence. Anche lei deve superare una serie di prove, fra cui quella particolarmente suggestiva e inquietante in forza della quale le  dispotiche autorità   indagano nelle paure dei partecipanti ai test. Tris sarà aiutata fatalmente ed inevitabilmente da un apparente “cattivo” chiamato “Quattro” (Theo James), la cui visione sta già facendo innamorare frotte di ragazzine.
Oramai le saghe letterarie e, di conseguenza, cinematografiche, fanno da padrone nei cinema del mondo, non sempre ottenendo buoni risultati in termini di qualità (di botteghino sicuramente si). Divergent, nella sua prima “puntata” sul grande schermo, può essere valutato di buona fattura  come storia,  come scene vibranti di action movie e di effetti speciali e, anche,  per la recitazione mai monotona o scontata.
Ultimo aspetto da rimarcare che colpisce molto: la quasi assenza di parole volgari e la completa mancanza di scene di nudo: si fossero sbagliati gli Autori?

Fabrizio Giulimondi


sabato 12 aprile 2014

IL DISCORSO TENUTO DA PAPA FRANCESCO L'11 APRILE 2014 E CENSURATO DA BUONA PARTE DEI QUOTIDIANI ITALIANI



DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

ALLA DELEGAZIONE DELL'UFFICIO INTERNAZIONALE 
CATTOLICO DELL'INFANZIA (BICE)

Venerdì, 11 aprile 2014

Vi ringrazio di questo incontro. Apprezzo il vostro impegno in favore dei bambini: è una espressione concreta e attuale della predilezione che il Signore Gesù ha per loro. A me piace dire che in una società ben costituita, i privilegi devono essere solo per i bambini e per gli anziani. Perché il futuro di un popolo è in mano loro! I bambini, perché certamente avranno la forza di portare avanti la storia, e gli anziani perché portano in sé la saggezza di un popolo e devono trasmettere questa saggezza.
Possiamo dire che il BICE è nato dalla maternità della Chiesa. Infatti prese origine dall’intervento del Papa Pio XII in difesa dell’infanzia all’indomani della II guerra mondiale. Da allora questa organizzazione si è sempre impegnata a promuovere la tutela dei diritti dei minori, contribuendo anche alla Convenzione dell’ONU del 1989. E in questo suo lavoro collabora costantemente con gli uffici della Santa Sede a New York, a Strasburgo e soprattutto a Ginevra.  
Lei con delicatezza ha parlato del buon trattamento. La ringrazio per questa espressione delicata. Ma mi sento chiamato a farmi carico di tutto il male che alcuni sacerdoti – abbastanza, abbastanza in numero, ma non in proporzione alla totalità - a farmene carico e a chiedere perdono per il danno che hanno compiuto, per gli abusi sessuali sui bambini. La Chiesa è cosciente di questo danno. E’ un danno personale e morale loro, ma di uomini di Chiesa. E noi non vogliamo compiere un passo indietro in quello che si riferisce al trattamento di questo problema e alle sanzioni che devono essere comminate. Al contrario, credo che dobbiamo essere molto forti. Con i bambini non si scherza! 
Ai nostri giorni, è importante portare avanti i progetti contro il lavoro-schiavo, contro il reclutamento di bambini-soldato e ogni tipo di violenza sui minori.
In positivo, occorre ribadire il diritto dei bambini a crescere in una famiglia, con un papà e una mamma capaci di creare un ambiente idoneo al suo sviluppo e alla sua maturazione affettiva. Continuando a maturare nella relazione, nel confronto con ciò che è la mascolinità e la femminilità di un padre e di una madre, e così preparando la maturità affettiva.  
Ciò comporta al tempo stesso sostenere il diritto dei genitori all’educazione morale e religiosa dei propri figli. E a questo proposito vorrei manifestare il mio rifiuto per ogni tipo di sperimentazione educativa con i bambini. Con i bambini e i giovani non si può sperimentare. Non sono cavie da laboratorio! Gli orrori della manipolazione educativa che abbiamo vissuto nelle grandi dittature genocide del secolo XX non sono spariti; conservano la loro attualità sotto vesti diverse e proposte che, con pretesa di modernità, spingono i bambini e i giovani a camminare sulla strada dittatoriale del “pensiero unico”. Mi diceva, poco più di una settimana fa, un grande educatore: “A volte, non si sa se con questi progetti - riferendosi a progetti concreti di educazione - si mandi un bambino a scuola o in un campo di rieducazione”. 
Lavorare per i diritti umani presuppone di tenere sempre viva la formazione antropologica, essere ben preparati sulla realtà della persona umana, e saper rispondere ai problemi e alle sfide posti dalle culture contemporanee e dalla mentalità diffusa attraverso i mass media. Ovviamente non si tratta di rifugiarci in ambienti protetti nasconderci, che al giorno d’oggi sono incapaci di dare vita, che sono legati a culture che già sono passate… No, questo no, non va bene. Ma affrontare con i valori positivi della persona umana le nuove sfide che ci pone la cultura nuova. Per voi, si tratta di offrire ai vostri dirigenti e operatori una formazione permanente sull’antropologia del bambino, perché è lì che i diritti e i doveri hanno il loro fondamento. Da essa dipende l’impostazione dei progetti educativi, che ovviamente devono continuare a progredire, maturare e adeguarsi ai segni dei tempi, rispettando sempre l’identità umana e la libertà di coscienza.   
Grazie ancora. Vi auguro un buon lavoro.
Mi viene in mente il logo che la Commissione della protezione dell’infanzia e dell’adolescenza aveva a Buenos Aires, e che Norberto conosce molto bene. Il logo della Sacra Famiglia sopra un asinello che scappa in Egitto per difendere il Bambino. A volte per difendere, è necessario scappare; a volte è necessario fermarsi per proteggere; a volte è necessario combattere. Però sempre bisogna avere tenerezza.
Grazie per quello che fate!

IL DISCORSO TENUTO DA PAPA FRANCESCO L'11 APRILE 2014 E CENSURATO DA BUONA PARTE DEI QUOTIDIANI ITALIANI


DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AL MOVIMENTO PER LA VITA ITALIANO

Sala Clementina
Venerdì, 11 aprile 2014


Cari fratelli e sorelle,
quando sono entrato ho pensato di aver sbagliato porta, di essere entrato in un Kindergarten ...Mi scuso!
Do il mio cordiale benvenuto a ciascuno di voi. Saluto l’Onorevole Carlo Casini e lo ringrazio per le sue parole, ma soprattutto gli esprimo riconoscenza per tutto il lavoro che ha fatto in tanti anni nel Movimento per la Vita. Gli auguro che quando il Signore lo chiamerà siano i bambini ad aprigli la porta lassù! Saluto i Presidenti dei Centri di Aiuto alla Vita e i responsabili dei vari servizi, in particolare del “Progetto Gemma”, che in questi 20 anni ha permesso, attraverso una particolare forma di solidarietà concreta, la nascita di tanti bambini che altrimenti non avrebbero visto la luce. Grazie per la testimonianza che date promuovendo e difendendo la vita umana fin dal suo concepimento! Noi lo sappiamo, la vita umana è sacra e inviolabile. Ogni diritto civile poggia sul riconoscimento del primo e fondamentale diritto, quello alla vita, che non è subordinato ad alcuna condizione, né qualitativa né economica né tantomeno ideologica. «Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide … Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 53). E così viene scartata anche la vita.
Uno dei rischi più gravi ai quali è esposta questa nostra epoca, è il divorzio tra economia e morale, tra le possibilità offerte da un mercato provvisto di ogni novità tecnologica e le norme etiche elementari della natura umana, sempre più trascurata. Occorre pertanto ribadire la più ferma opposizione ad ogni diretto attentato alla vita, specialmente innocente e indifesa, e il nascituro nel seno materno è l’innocente per antonomasia. Ricordiamo le parole del Concilio Vaticano II: «La vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura; l’aborto e l’infanticidio sono delitti abominevoli» (Cost. Gaudium et spes, 51). Io ricordo una volta, tanto tempo fa, che avevo una conferenza con i medici. Dopo la conferenza ho salutato i medici - questo è accaduto tanto tempo fa. Salutavo i medici, parlavo con loro, e uno mi ha chiamato in disparte. Aveva un pacchetto e mi ha detto: “Padre, io voglio lasciare questo a lei. Questi sono gli strumenti che io ho usato per fare abortire. Ho incontrato il Signore, mi sono pentito, e adesso lotto per la vita”. Mi ha consegnato tutti questi strumenti. Pregate per quest’uomo bravo!
A chi è cristiano compete sempre questa testimonianza evangelica: proteggere la vita con coraggio e amore in tutte le sue fasi. Vi incoraggio a farlo sempre con lo stile della vicinanza, della prossimità: che ogni donna si senta considerata come persona, ascoltata, accolta, accompagnata.
Abbiamo parlato dei bambini: ce ne sono tanti! Ma io vorrei anche parlare dei nonni, l’altra parte della vita! Perché noi dobbiamo aver cura anche dei nonni, perché i bambini e i nonni sono la speranza di un popolo. I bambini, i giovani perché lo porteranno avanti, porteranno avanti questo popolo; e i nonni perché hanno la saggezza della storia, sono la memoria di un popolo. Custodire la vita in un tempo dove i bambini e i nonni entrano in questa cultura dello scarto e vengono pensati come materiale scartabile. No! I bambini e i nonni sono la speranza di un popolo!
Cari fratelli e sorelle, il Signore sostenga l’azione che svolgete come Centri di Aiuto alla Vita e come Movimento per la Vita, in particolare il progetto “Uno di noi”. Vi affido alla celeste intercessione della Vergine Madre Maria e di cuore benedico voi e le vostre famiglie, i vostri bambini, i vostri nonni, e pregate per me che ne ho bisogno!
Quando si parla di vita viene subito il ricordo alla madre. Rivolgiamoci alla nostra Madre perché ci custodisca tutti. Ave Maria
Benedizione
Un’ultima cosa. Per me quando i bambini piangono, quando i bambini si lamentano, quando gridano, è una musica bellissima. Ma alcuni bambini piangono di fame. Per favore dategli da mangiare qui tranquillamente!

venerdì 11 aprile 2014

"IL FU MATTIA PASCAL" DI LUIGI PIRANDELLO


Il fu Mattia Pascal 
“Il fu Mattia Pascal” è un romanzo di Luigi Pirandello pubblicato nel 1904. E’ inizialmente ambientato in una piccola cittadina siciliana, Miragno, dove è nato il protagonista, ma poi la storia si sposta per un lungo periodo a Roma dove il nostro personaggio troverà una nuova vita. Il tempo non è specificato, ma si potrebbe dedurre che abbia luogo nel tempo in cui è vissuto Pirandello, quindi verso l’inizio del Novecento. La storia è narrata in prima persona e in primo piano troviamo i pensieri che viaggiano vorticosamente nella mente di Pascal, tecnica assolutamente efficace dato l’incredibile talento dell’autore di raccontare l’animo umano senza sfociare in banalità. Ecco, forse è la storia meno banale che abbia mai letto, incredibilmente realistica nella sua assurdità.
E’ una storia che parla in siciliano, che descrive tutti noi in tutti quei piccoli particolari che abbiamo paura di andare a scovare sotto la pelle, dentro le ossa. Scrive senza peli sulla lingua né inutili giri di parole, parla della felicità, della paura, della rabbia, del dubbio, dell’odio e dell’amore, ma soprattutto della solitudine. Parla di noi come tante isole in mezzo ad un mare troppo profondo e troppo vasto; parla della lontananza, dell’impossibilità di raggiungerci, di capirci fino in fondo, di toccarci o di sfiorarci appena. Parla di quel bozzolo di nebbia in cui lentamente ci siamo raggomitolati, diventando pigri e diffidenti, reduci di noi stessi, proprio come Mattia Pascal.
Ma chi è Mattia Pascal? O meglio, chi fu Mattia Pascal?
Mattia Pascal è un uomo scontento della vita, imbrigliato in una vita che sembra soffocarlo. Continuamente deluso e schiacciato dalla propria esistenza, decide di partire per Nizza, per cercare quel po’ di fortuna che fino ad allora sembrava avesse voluto voltargli le spalle. La Fortuna, però, ha un sorriso malizioso, alla Fortuna piace giocare. Si presenta a Mattia sulle pagine di un giornale:
 Avevo il giornale ancora in mano e lo voltai per cercare in seconda pagina qualche dono migliore di quelli del Lama. Gli occhi mi andarono su un suicidio così, in grassetto.
Pensai subito che potesse esser quello di Montecarlo, e m'affrettai a leggere. Ma mi arrestai sorpreso al primo rigo, stampato di minutissimo carattere: « Ci telegrafano da Miragno ».
« Miragno? Chi si sarà suicidato nel mio paese? »
Lessi: « Jeri, sabato 28, è stato rinvenuto nella gora d'un mulino un cadavere in istato d'avanzata putrefazione... ».
 A un tratto, la vista mi s'annebbiò, sembrandomi di scorgere nel rigo seguente il nome del mio podere; e, siccome stentavo a leggere, con un occhio solo, quella stampa minuscola, m'alzai in piedi, per essere più vicino al lume.
« ... putrefazione. Il molino è sito in un podere detto della Stìa, a circa due chilometri dalla nostra città. Accorsa sopra luogo l'autorità giudiziaria con altra gente, il cadavere fu estratto dalla gora per le constatazioni di legge e piantonato. Più tardi esso fu riconosciuto per quello del nostro... »
Il cuore mi balzò in gola e guardai, spiritato, i miei compagni di viaggio che dormivano tutti.
« Accorsa sopra luogo... estratto dalla gora... e piantonato... fu riconosciuto per quello del nostro bibliotecario... »
« Io? »
« Accorsa sopra luogo... più tardi... per quello del nostro bibliotecario Mattia Pascal, scomparso da parecchi giorni. Causa del suicidio: dissesti finanziarii.»
« Io?... Scomparso... riconosciuto... Mattia Pascal... »

La maniera di scrivere va al ritmo dei pensieri e dei battiti del cuore, lasciandoci sfiorare dallo sgomento dello stesso personaggio, costringendoci a continuare a leggere, in un crescendo incalzante che non cessa fino all’ultima riga del libro. Il modo di scrivere di Pirandello non lascia spazio né tempo per respirare, solo la voglia di continuare a leggere.
A questo punto della storia avviene la svolta, la scelta, il cambio treno. Da questo momento in poi Mattia Pascal è solo un'ombra, ora esiste Adriano Meis.
Adriano Meis rappresenta la liberazione, la nuova gioventù di quello che era stato Mattia Pascal, un castello meraviglioso costruito su una nuvola; ma le nuvole, come Adriano Meis, sono belle, interessanti e libere, ma la loro forma apparente non contiene nulla di consistente, né di reale. Piano piano, da una vita riscaldata dal sole di una nuova libertà, sull’orizzonte comincia a depositarsi un filo di nebbia.
Del primo inverno, se rigido, piovoso, nebbioso, quasi non m'ero accorto tra gli svaghi de' viaggi e nell'ebbrezza della nuova libertà. Ora questo secondo mi sorprendeva già un po' stanco, come ho detto, del vagabondaggio e deliberato a impormi un freno. E mi accorgevo che... sì, c'era un po' di nebbia, c'era; e faceva freddo; m'accorgevo che per quanto il mio animo si opponesse a prender qualità dal colore del tempo, pur ne soffriva. (…)
La mia fortuna - dovevo convincermene - la mia fortuna consisteva appunto in questo: nell'essermi liberato della moglie, della suocera, dei debiti, delle afflizioni umilianti della mia prima vita. Ora, ero libero del tutto. Non mi bastava? Eh via, avevo ancora tutta una vita innanzi a me. Per il momento... chi sa quanti erano soli com'ero io!
 « Si, ma questi tali, » m'induceva a riflettere il cattivo tempo, quella nebbia maledetta, « o son forestieri e hanno altrove una casa, a cui un giorno o l'altro potranno far ritorno, o se non hanno casa come te, potranno averla domani, e intanto avran quella ospitale di qualche amico. Tu invece, a volerla dire, sarai sempre e dovunque un forestiere: ecco la differenza. Forestiere della vita, Adriano Meis. »

Adriano Meis sente il bisogno di un luogo che può chiamare casa, perché, pur sforzandosi, l’uomo non è in grado di essere solo uno spettatore, non può vivere in eterno ai margini della vita, perché altrimenti questa non può essere chiamata tale. L’uomo ha la necessità di andarsi ad attorcigliare nei fili taglienti e pericolosi che lo tengono legato a questo mondo. Adriano Meis aveva preteso troppo dalla sua nuova vita. La tentazione di gettarsi ancora nelle viscere di una nuova esistenza era troppo grande per essere ignorata e solo così ricomincia veramente a vivere. Perché per sentire veramente scorrere la vita nelle nostre vene, è necessario ferirsi e solo così avremo la consapevolezza della nostra pelle, è necessario piangere e solo così avvertiremo i nostri occhi, è necessario gridare e solo così sentiremo la nostra voce vibrare fuori e dentro di noi, è necessario togliersi la maschera perché questa è pur sempre una maschera non è in grado di vivere appieno tutte le sfumature della vita.
Pirandello era un uomo con cui la vita non ha voluto affatto scherzare: il figlio Stefano fu deportato nei campi di concentramento allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, l’altro figlio Fausto morì in guerra, mentre la moglie veniva divorata dalla malattia mentale. Eppure, Pirandello ha la capacità di non colmare di disperazione i suoi scritti, lui semplicemente si pone delle domande a cui da risposte immediate e semplici, scrive come se fosse l’anima a parlare e la più grande caratteristica dell’anima è che non può fare a meno della speranza. In questo romanzo non vige un pessimismo irreparabile, ma piuttosto uno smarrimento infantile, tipico di chi sta cercando se stesso e non si può pretendere di cercare al buio, senza quel fuoco fatuo che è la speranza.
Ciò che più mi ha colpito è stato il modo in cui l’autore è riuscito a trasmettere le emozioni attraverso un paesaggio, un semplice odore o colore. Mentre Adriano Meis camminava per le strade di una Roma semiaddormentata, mentre calava la notte, si riusciva quasi a vedere il colore arancio del tramonto pitturare placidamente il Colosseo di quella luce rossastra, e allora si avvertiva la malinconia diffondersi fra le parole.
Si sentiva nello stomaco il senso di confusione, il disorientamento della sua identità, mentre il personaggio, diviso tra Adriano Meis e Mattia Pascal, cercava di calpestare la sua ombra, di schiacciarla, di ucciderla nella notte di una Roma dormiente, che andava ad occultare ogni segreto che si sarebbe andato a gettare nel Tevere all’alba del giorno successivo.
- Morta anche Roma? - esclamai, costernato.
- Da gran tempo, signor Meis! Ed è vano, creda, ogni sforzo per farla rivivere. Chiusa nel sogno del suo maestoso passato, non ne vuol più sapere di questa vita meschina che si ostina a formicolarle intorno. (...)
Roma giace là, col suo gran cuore frantumato, alle spalle del Campidoglio. Son forse di Roma queste nuove case? (...) Ebbene, signor Meis, i papi avevano fatto di Roma un'acquasantiera, noi italiani ne abbiamo fatto un posacenere. D'ogni paese siamo siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro, che poi è il simbolo della frivolezza di questa miserrima vita nostra e dell'amaro e velenoso piacere che essa ci da.

Alessia Giulimondi

mercoledì 9 aprile 2014

"JESUS CHRIST SUPERSTAR" AL TEATRO SISTINA IN ROMA DAL 18 APRILE AL 31 MAGGIO: IL MITO...LA LEGGENDA

Chi lo ha visto tantissime volte al cinema e al teatro non perda l’occasione di vederlo di nuovo…..chi lo ha visto tante volte, lo veda tantissime volte…chi lo ha visto poche volte, lo veda tante volte…chi non lo ha mai visto né in versione cinematografica né in versione teatrale, chieda perdono e lo vada a vedere subito.

Fabrizio Giulimondi


Jesus Christ Superstar

martedì 8 aprile 2014

"ALLACCIATE LE CINTURE" DI FERZAN OZPETEK

Locandina Allacciate le cinture“Allacciate le cinture” del pluripremiato regista turco naturalizzato italiano Ferzan Ozpetek, è una bell’opera, intensa, drammatica, con qualche lieve tocco di angustia quando vengono percorsi i lunghi e luminescenti  corridoi ospedalieri che conducono la protagonista verso la stanza, ove si pratica la chemioterapia.
Cast di valore al femminile, con una Kasia Smutniak che, nonostante gli sforzi dei truccatori, rimane sempre splendida, accompagnata da  Carolina Crescentini, Elena Sofia Ricci, Carla Signoris, Paola Minaccioni, Giulia Michelini e Luisa Ranieri.
Non male la presenza attoriale  maschile: un sempre bravo Filippo Scicchitano (già apprezzato in Scialla e Bianca come il latte rossa come il sangue), lavora coralmente insieme a Francesco Arca.
Il film si inserisce, modernizzandolo, nel filone sorto nel 1970 con Love Story  di Artur Hiller,  che vede  “lei”  ammalarsi di tumore o di leucemia, differenziandosene, però, e di molto, nel tratto conclusivo della storia.
La prima parte, più leggera, può ricordare, nell’iniziale disprezzo per ragioni ideologiche fra  la Smutniak e  Arca e, nella  successiva loro  magnetica  attrazione, Passione Sinistra di Marco Ponti, pellicola uscita nei cinema  lo scorso anno.
Gli ambienti omosessuali e lesbici ripercorrono il vissuto del regista, vissuto che traspare visibilmente in quasi tutta la sua produzione cinematografica: Il bagno turco, Harem Suare, Le fate ignoranti, La finestra di fronte, Saturno contro Mine vaganti.

Fabrizio Giulimondi


lunedì 7 aprile 2014

FABRIZIO GIULIMONDI: INVITO TUTTI A LEGGERE QUESTI LIBRI...NE VA DELLA NOSTRA LIBERTA'

Gianfranco Amato "Omofobia o eterofobia? Perché opporsi a una legge ingiusta e liberticida" (Fede e Cultura)






Dina Nerozzi "L'uomo nuovo -  dallo scimpanzé al bonobo" (Rubettino)








Chiara Atzori "Il binario indifferente" (SugarcoEdizioni)




giovedì 3 aprile 2014

"STORIA DI UNA LADRA DI LIBRI" DI BRIAN PERCIVAL


Locandina italiana Storia di una ladra di libri 
La parola è vita ed è ciò che distingue un uomo da un grumo di creta”.
I libri sono un insieme di parole.
Le parole sono vita e sono libertà.                                         
I libri sono vita e sono libertà e sono i primi ad essere attaccati nei regimi dispotici.
Il film di Brian PercivalStoria di una ladra di libri”,  tratto dall’omonimo romanzo  dell’australiano Markus Zusak, racconta, fra mestizia, tristezza, drammaticità (mai angoscia), delicata affettuosità  e lieve armonia, la vita adolescenziale di una dodicenne tedesca, Liesel (la bravissima Sophie Nélisse) -  adottata da una coppia sterile (il candido padre interpretato da Geoffrey Rush e la burbera madre, che nasconde un cuore gonfio di generosità, rappresentata da Emily Watson) -  che sottrae i libri (intellettualità decadente) dalla furia annientatrice delle belve naziste, lei che veste la camicia bruna, canta inni al Fuhrer , fa il saluto romano e si innamora di un ragazzo giudeo nascosto nella cantina di casa sua.
La narrazione compiuta dalla Morte è suggestiva e l’opera merita di andare al festival del cinema di Locarno, pur riscontrandosi in essa errori marchiani e, direi, imbarazzanti.
A Liesel viene insegnata come lingua (prima e unica) l’inglese e siamo in Germania e, segnatamente, a Stoccarda.
Dopo le scene che raffigurano la terribile “notte dei cristalli” fra il 9 ed il 10 novembre 1938, durante la quale  furono frantumate le vetrine dei negozi ebraici, percossi, arrestati e deportati i loro proprietari insieme alle famiglie, l’immagine si sposta sull’”amichetto del cuore” di Liesel, il fanciullo corridore provetto e infarcito, come tutti, di dottrina nazionalsocialista, mentre si allena in uno stadio di atletica imitando, anche nelle fattezze, il centometrista e saltatore con l’asta Jesse Owens,vincitore di quattro medaglie d’oro alle olimpiadi di Berlino del 1-16 agosto 1936.
Di due l’una, entrambe errate: o al ragazzino durante la corsa  sovviene il ricordo di  un evento svoltosi in un’altra città (siamo a Stoccarda e le olimpiadi si sono svolte a Berlino),  più di due anni prima (la scena  presumibilmente è successiva agli accadimenti  del novembre 1938, mentre le olimpiadi sono dell’agosto 1936), in un periodo storico in cui le informazioni, scarsamente pervasive sotto un aspetto  tecnologico,  erano  passate al setaccio di un personaggio come Goebbels (ministro per la propaganda del Reich), specie se l’evento in questione riguardava un atleta di colore americano la cui vittoria era risultata  notoriamente indigesta ad Hitler e ai suo gerarchi; oppure -  ed è ancora più grave – le olimpiadi vengono posticipate dalla prima metà del mese di agosto del 1936 a dopo la “notte dei cristalli” del 9-10 novembre 1938.
Il rimprovero del padre al figlio che ha osato osannare durante la propria corsa Jesse Owens  è di un  politicamente corretto che rasenta la ridicolaggine: ma secondo gli sceneggiatori un nazista dava della “persona nera” o del “nero” ad Owens trascorsi una decina di anni di indottrinamento razzistico  totalizzante hitleriano?
Fabrizio Giulimondi



martedì 1 aprile 2014

"LA CASA SULLA ROCCIA" DI ANTONIO MONDA

La casa sulla roccia”, romanzo imperdibile di Antonio Monda (Mondadori), ossia una spremuta di emozioni e di sensazioni inarrestabili.
Festa dell’anno a New York per il settantesimo compleanno di Warren, padre di tre figli e marito  da trentotto anni di Beth Barron, che riceve una telefonata proprio quel giorno. La voce che sente dall’altro lato del filo  la turba e la travolge, vinta da ricordi risalenti ad anni prima della celebrazione delle nozze. Le rimembranze vanno a Luis che diceva sempre “grazie”, a quando lei era Elizabeth Dempsey, Liz per tutti e la gazzella per Luis.  
Ma la casa , la famiglia, lei, il marito, le due figlie e il figlio, sono costruiti sulla roccia: “Non so se sono stata una brava moglie, così dicono tutti a cominciare da Warren, né se sono stata una buona madre, ma quando sulla nostra casa è scesa la pioggia, sono straripati i fiumi, hanno soffiato i venti con tutta la loro forza, la casa non è mai caduta, perché è fondata sulla roccia. E’ un passo del Vangelo che conosco a memoria, e lo tengo per me.”.
E’ tempo di scelte per Liz, ma la casa è costruita sulla roccia e sull’oggi, oggi che è fatto anche di quei trentotto anni e sul futuro, un futuro impalpabile, incerto  e schivo, ma che è fatto anche da quei trentotto anni con Warren, Caroline, Julie e Richard: ”Mi sono chiesta cosa sappiamo degli altri, e mai sapremo cosa voglia il nostro cuore. Cosa significhi sentirsi padroni della nostra vita, e se lo saremo mai davvero. Cosa pensiamo ogni volta che scegliamo qualche cosa, e se mai capiremo cos’è giusto e cos’è sbagliato. Ammesso che abbia qualche importanza, di fronte all’indifferenza del tempo e alla nostra illusione di sconfiggerla……Ho visto spegnersi le luci a una a una, mentre il sole tornava a illuminarci tutti. La parola che è uscita dalla mie labbra è stata “grazie”.
Fabrizio Giulimondi