venerdì 11 aprile 2014

"IL FU MATTIA PASCAL" DI LUIGI PIRANDELLO


Il fu Mattia Pascal 
“Il fu Mattia Pascal” è un romanzo di Luigi Pirandello pubblicato nel 1904. E’ inizialmente ambientato in una piccola cittadina siciliana, Miragno, dove è nato il protagonista, ma poi la storia si sposta per un lungo periodo a Roma dove il nostro personaggio troverà una nuova vita. Il tempo non è specificato, ma si potrebbe dedurre che abbia luogo nel tempo in cui è vissuto Pirandello, quindi verso l’inizio del Novecento. La storia è narrata in prima persona e in primo piano troviamo i pensieri che viaggiano vorticosamente nella mente di Pascal, tecnica assolutamente efficace dato l’incredibile talento dell’autore di raccontare l’animo umano senza sfociare in banalità. Ecco, forse è la storia meno banale che abbia mai letto, incredibilmente realistica nella sua assurdità.
E’ una storia che parla in siciliano, che descrive tutti noi in tutti quei piccoli particolari che abbiamo paura di andare a scovare sotto la pelle, dentro le ossa. Scrive senza peli sulla lingua né inutili giri di parole, parla della felicità, della paura, della rabbia, del dubbio, dell’odio e dell’amore, ma soprattutto della solitudine. Parla di noi come tante isole in mezzo ad un mare troppo profondo e troppo vasto; parla della lontananza, dell’impossibilità di raggiungerci, di capirci fino in fondo, di toccarci o di sfiorarci appena. Parla di quel bozzolo di nebbia in cui lentamente ci siamo raggomitolati, diventando pigri e diffidenti, reduci di noi stessi, proprio come Mattia Pascal.
Ma chi è Mattia Pascal? O meglio, chi fu Mattia Pascal?
Mattia Pascal è un uomo scontento della vita, imbrigliato in una vita che sembra soffocarlo. Continuamente deluso e schiacciato dalla propria esistenza, decide di partire per Nizza, per cercare quel po’ di fortuna che fino ad allora sembrava avesse voluto voltargli le spalle. La Fortuna, però, ha un sorriso malizioso, alla Fortuna piace giocare. Si presenta a Mattia sulle pagine di un giornale:
 Avevo il giornale ancora in mano e lo voltai per cercare in seconda pagina qualche dono migliore di quelli del Lama. Gli occhi mi andarono su un suicidio così, in grassetto.
Pensai subito che potesse esser quello di Montecarlo, e m'affrettai a leggere. Ma mi arrestai sorpreso al primo rigo, stampato di minutissimo carattere: « Ci telegrafano da Miragno ».
« Miragno? Chi si sarà suicidato nel mio paese? »
Lessi: « Jeri, sabato 28, è stato rinvenuto nella gora d'un mulino un cadavere in istato d'avanzata putrefazione... ».
 A un tratto, la vista mi s'annebbiò, sembrandomi di scorgere nel rigo seguente il nome del mio podere; e, siccome stentavo a leggere, con un occhio solo, quella stampa minuscola, m'alzai in piedi, per essere più vicino al lume.
« ... putrefazione. Il molino è sito in un podere detto della Stìa, a circa due chilometri dalla nostra città. Accorsa sopra luogo l'autorità giudiziaria con altra gente, il cadavere fu estratto dalla gora per le constatazioni di legge e piantonato. Più tardi esso fu riconosciuto per quello del nostro... »
Il cuore mi balzò in gola e guardai, spiritato, i miei compagni di viaggio che dormivano tutti.
« Accorsa sopra luogo... estratto dalla gora... e piantonato... fu riconosciuto per quello del nostro bibliotecario... »
« Io? »
« Accorsa sopra luogo... più tardi... per quello del nostro bibliotecario Mattia Pascal, scomparso da parecchi giorni. Causa del suicidio: dissesti finanziarii.»
« Io?... Scomparso... riconosciuto... Mattia Pascal... »

La maniera di scrivere va al ritmo dei pensieri e dei battiti del cuore, lasciandoci sfiorare dallo sgomento dello stesso personaggio, costringendoci a continuare a leggere, in un crescendo incalzante che non cessa fino all’ultima riga del libro. Il modo di scrivere di Pirandello non lascia spazio né tempo per respirare, solo la voglia di continuare a leggere.
A questo punto della storia avviene la svolta, la scelta, il cambio treno. Da questo momento in poi Mattia Pascal è solo un'ombra, ora esiste Adriano Meis.
Adriano Meis rappresenta la liberazione, la nuova gioventù di quello che era stato Mattia Pascal, un castello meraviglioso costruito su una nuvola; ma le nuvole, come Adriano Meis, sono belle, interessanti e libere, ma la loro forma apparente non contiene nulla di consistente, né di reale. Piano piano, da una vita riscaldata dal sole di una nuova libertà, sull’orizzonte comincia a depositarsi un filo di nebbia.
Del primo inverno, se rigido, piovoso, nebbioso, quasi non m'ero accorto tra gli svaghi de' viaggi e nell'ebbrezza della nuova libertà. Ora questo secondo mi sorprendeva già un po' stanco, come ho detto, del vagabondaggio e deliberato a impormi un freno. E mi accorgevo che... sì, c'era un po' di nebbia, c'era; e faceva freddo; m'accorgevo che per quanto il mio animo si opponesse a prender qualità dal colore del tempo, pur ne soffriva. (…)
La mia fortuna - dovevo convincermene - la mia fortuna consisteva appunto in questo: nell'essermi liberato della moglie, della suocera, dei debiti, delle afflizioni umilianti della mia prima vita. Ora, ero libero del tutto. Non mi bastava? Eh via, avevo ancora tutta una vita innanzi a me. Per il momento... chi sa quanti erano soli com'ero io!
 « Si, ma questi tali, » m'induceva a riflettere il cattivo tempo, quella nebbia maledetta, « o son forestieri e hanno altrove una casa, a cui un giorno o l'altro potranno far ritorno, o se non hanno casa come te, potranno averla domani, e intanto avran quella ospitale di qualche amico. Tu invece, a volerla dire, sarai sempre e dovunque un forestiere: ecco la differenza. Forestiere della vita, Adriano Meis. »

Adriano Meis sente il bisogno di un luogo che può chiamare casa, perché, pur sforzandosi, l’uomo non è in grado di essere solo uno spettatore, non può vivere in eterno ai margini della vita, perché altrimenti questa non può essere chiamata tale. L’uomo ha la necessità di andarsi ad attorcigliare nei fili taglienti e pericolosi che lo tengono legato a questo mondo. Adriano Meis aveva preteso troppo dalla sua nuova vita. La tentazione di gettarsi ancora nelle viscere di una nuova esistenza era troppo grande per essere ignorata e solo così ricomincia veramente a vivere. Perché per sentire veramente scorrere la vita nelle nostre vene, è necessario ferirsi e solo così avremo la consapevolezza della nostra pelle, è necessario piangere e solo così avvertiremo i nostri occhi, è necessario gridare e solo così sentiremo la nostra voce vibrare fuori e dentro di noi, è necessario togliersi la maschera perché questa è pur sempre una maschera non è in grado di vivere appieno tutte le sfumature della vita.
Pirandello era un uomo con cui la vita non ha voluto affatto scherzare: il figlio Stefano fu deportato nei campi di concentramento allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, l’altro figlio Fausto morì in guerra, mentre la moglie veniva divorata dalla malattia mentale. Eppure, Pirandello ha la capacità di non colmare di disperazione i suoi scritti, lui semplicemente si pone delle domande a cui da risposte immediate e semplici, scrive come se fosse l’anima a parlare e la più grande caratteristica dell’anima è che non può fare a meno della speranza. In questo romanzo non vige un pessimismo irreparabile, ma piuttosto uno smarrimento infantile, tipico di chi sta cercando se stesso e non si può pretendere di cercare al buio, senza quel fuoco fatuo che è la speranza.
Ciò che più mi ha colpito è stato il modo in cui l’autore è riuscito a trasmettere le emozioni attraverso un paesaggio, un semplice odore o colore. Mentre Adriano Meis camminava per le strade di una Roma semiaddormentata, mentre calava la notte, si riusciva quasi a vedere il colore arancio del tramonto pitturare placidamente il Colosseo di quella luce rossastra, e allora si avvertiva la malinconia diffondersi fra le parole.
Si sentiva nello stomaco il senso di confusione, il disorientamento della sua identità, mentre il personaggio, diviso tra Adriano Meis e Mattia Pascal, cercava di calpestare la sua ombra, di schiacciarla, di ucciderla nella notte di una Roma dormiente, che andava ad occultare ogni segreto che si sarebbe andato a gettare nel Tevere all’alba del giorno successivo.
- Morta anche Roma? - esclamai, costernato.
- Da gran tempo, signor Meis! Ed è vano, creda, ogni sforzo per farla rivivere. Chiusa nel sogno del suo maestoso passato, non ne vuol più sapere di questa vita meschina che si ostina a formicolarle intorno. (...)
Roma giace là, col suo gran cuore frantumato, alle spalle del Campidoglio. Son forse di Roma queste nuove case? (...) Ebbene, signor Meis, i papi avevano fatto di Roma un'acquasantiera, noi italiani ne abbiamo fatto un posacenere. D'ogni paese siamo siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro, che poi è il simbolo della frivolezza di questa miserrima vita nostra e dell'amaro e velenoso piacere che essa ci da.

Alessia Giulimondi

3 commenti:

  1. Quello che più mi ha colpito non è, forse, solo la profondità di sentimento, la purezza e la forza di trasmissione ma di quanto involontariamente mi ricorda con che poca considerazione valutiamo le emozioni dei "nostri" ragazzi che si ritrovano adulti... causa forza maggiore.

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    1. Con vera commozione ringrazio come padre portandoTi i saluti di mia figlia Alessia

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  2. Cara, ti sei presa una bella responsabilità, " Non Deluderci" un abbraccio. Silvana

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