giovedì 22 settembre 2016

"TOMMASO" DI KIM ROSSI STUART

Locandina Tommaso

Tommaso” di e con Kim Rossi Stuart, passato attraverso le forche caudine della Serenissima, è un film pretenzioso, inconsistente, fastidiosamente onirico, vetero e falso morettiano, inzeppato di psicologismi di stampo edipico, con qualche richiamo ad alcune scene del film La carne di Marco Ferreri (1991). La trama affronta una stralcio della vita di un attore mentalmente disturbato con problemi relazionali con le donne che vede svestite ovunque (donne immaginarie con le quali intrattiene fugaci congressi carnali), ricordando nitidamente sprazzi del film di Dino Risi del 1969 Vedo nudo. Le problematiche del protagonista si sostanziano nella difficoltà di mantenere rapporti affettivi minimamente stabili con la conquista femminile del momento. Kim Rossi Stuart è indiscutibilmente un bravo interprete ma non altrettanto un bravo regista, come ha già fatto capire al pubblico con il suo esordio nel 2006 Anche libero va bene.
Conviene vederlo il secondo mercoledì del mese quando l’ingresso nella sala cinematografica costa soltanto due euro a persona.

Fabrizio Giulimondi


mercoledì 21 settembre 2016

"LA RAGAZZA DEL TRENO" DI PAULA HAWKINS

Già il cinema aveva ambientato la propria azione scenica in quei “non luoghi” – per dirla con Marc Augé – che sono i treni: uno fra tutti  Zabriskie Point,  la splendida pellicola del 1970 di Michelangelo Antonioni.
La letteratura non è da meno e il vendutissimo psico-thriller della esordiente inglese Paula Hawkins, “La ragazza del treno” (Piemme),   viaggia lungo binari intriganti ed intrigati, avvincenti ed introspettivi.
La verità non è mai quella che si palesa ma è sempre nascosta alle spalle di un  sorriso, rannicchiata in maniera subdola ai piedi di quella  felicità verso cui ogni essere umano protende, che ne è rosicchiata come un tavolo dai tarli: quel  sorriso è falso, quella felicità non è altro che un totem inarrivabile, un simulacro, infettato dalla verità che può avere i contorni della paranoia.
Frammenti di ricordi che riemergono da un vicino passato coperti da uno strato caliginoso di alcol; lampi di memoria decisivi per capire cosa sia successo quel sabato di sangue; sprazzi di reminiscenze ai quali  gli investigatori non credono perché la mente da cui lentamente fuoriescono è di una alcolista cronica.
Tra un déjà-vu e l’altro instancabilmente, caparbiamente, con le pulsazioni cardiache che crescono sempre di più,  la verità può cominciare a baluginare in fondo alla galleria: “Tutto è caldo in quell’uomo, tranne il suo sorriso. Quando ha scoperto i denti ho visto l’assassino che vive in lui”.
Le descrizioni padroneggiano il romanzo: descrizioni puntigliose dei luoghi, dei tratti psicologici dei personaggi e delle loro fattezze fisiche puntellano saldamente la narrazione, mentre l’alcol è la corda ruvida che tutto lega, in un crescendo boleriano di follia. La normalità è solo una apparenza perché l’autentica realtà è fatta di follia e quelli che sembrano sogni non sono altro che l’accaduto, che  trasuda dalla mente come liquidi alcolici dalla pelle: “E’ stato come tastare un muro con le mani, cercando una strada, finché i contorni delle ombre non si sono fatti più distinti e i miei occhi non si sono abituati all’oscurità. Non è successo subito. All’inizio, anche se mi sembrava un ricordo, ero convinta che fosse un sogno”.
Ogni accadimento è fatto di più realtà, tante quanti sono gli occhi che lo osservano, tante quante sono le persone che lo vivono. Coinvolgente e astuta la tecnica narrativa dell’Autrice che descrive lo stesso episodio scrutato dalla visuale di Anna, Rachel e Megan: tre protagoniste, tre realtà differenti, tutte vere, tutte false.
La mattina prendo il treno delle 8.04, la sera ritorno alle 17.56. E’ il mio treno, l’unico che prendo. Tutto qui”.

Fabrizio Giulimondi

martedì 20 settembre 2016

"LA PRIMA VERITÀ" DI SIMONA VINCI: VINCITORE DEL PREMIO CAMPIELLO 2016


La prima verità
La follia è stata a lungo considerata una malattia contagiosa. I folli, come i lebbrosi, portano impresse su di sé le stimmate del peccato e se sono così come sono, schifosi e impuri, è perché portano marchiato il segno inequivocabile del male assoluto”.
Non è facile parlare di un capolavoro.
Come si fa a parlare di un agglomerato di bellezza artistica, stilistica e letteraria e di un contenuto che ti strappa l’anima? Simona Vinci è la Donna Tartt italiana, capace di una incontenibile ars scribendi percepibile a livello tattile in ogni  periodo e frase e concetto e idea ed emozione.
Simona Vinci ci ha abituato ai casi letterari, da quando  nel 1997 ha donato al pubblico Dei bambini non si sa niente, tradotto in molte lingue e venduto anche oltre oceano.
Simona Vinci si è vista riconoscere il Premio Campiello 2016 con “La prima verità” (Einaudi),  dimostrando  con questa vittoria che il Campiello ha oramai sopravanzato lo Strega.
La copertina anticipa le storie del libro: una foto dell’artista belga Robin Vandenabeele che ritrae un bambino che potrebbe essere un piccolo malato mentale come  potrebbe essere un fantasma, perché i malati mentali sono fantasmi e quest’opera parla di fantasmi. Uomini abbandonati in manicomi-lager, al pari di quello ubicato a Leros, un’isola greca “senza carattere” nascosta nell’arcipelago del Dodecaneso nel mar Egeo, o di quello a Freetown nella Sierra Leone, o di quelli sparpagliati silenziosamente per l’Italia. A Grugliasco, nelle vicinanze di Torino, v’era una struttura psichiatrica nei cui meandri fu trovata e fotografata una bambina nuda e legata al letto: la  foto pubblicata nel 1970 dal settimanale “L’Espresso” ha accompagnato ossessivamente  con la sua  orripilante e violenta coercizione la stesura del romanzo.
Sono malati mentali, sono fantasmi, sono entrambi, e si proiettano instancabilmente dal passato al presente per far conoscere la verità al futuro, perché il passato è come un fantasma:  “Il passato non si seppellisce e non si decompone, ma continua a vivere, con la sua eco dolorosa e distruttiva dentro quelli che vengono dopo”.
Ma si sta parlando di un romanzo? La linea di congiunzione fra creazione intellettuale, biografia e autobiografia è sfumata e imponderabile come l’orizzonte nel deserto del Sahara dove lungo la linea dell’orizzonte terra e cielo sono fusi in una inarrivabile e inestricabile zona che non è né terra né cielo, né corporeità né sublimazione dell’etereo. Angela che nel 1992 insieme ad altri operatori umanitari e sanitari europei ispeziona il manicomio-lager di Leros, dopo la denuncia di un giornale inglese ed una risoluzione del Parlamento europeo, è l’Autrice? Oppure la Vinci è la ragazzina di Budrio, con una madre disturbata e segni di squilibrio che cominciano ad affacciarsi anche in lei? Oppure è la ragazza con l’amica anoressica che andrà in giro per manicomi italiani e poi esteri, per imbattersi in quello africano e greco? La fotografa Antonella Pizzamiglio che bloccando in una rigida immagine cartacea i pazzi di Leros toglierà il coperchio dalla pentola, mostrando gli inferi ad un convegno di psichiatri ad Atene e, quindi, al Mondo, è forse la Scrittrice?
Sì, inferi e orrore, orrore ed inferi:  è lì che vi inabisserete, vi inabisserete in un baratro da cui si potrebbe non risalire. Entrerete in danteschi gironi infernali percorrendo un incubo da cui non vi sveglierete perché quell’incubo è fatto di realtà, inalterata dal dopoguerra ai giorni d’oggi, una realtà che parte da Leros, per attraversare la Sierra Leone a approdare a Burdio, cittadina  nativa della Vinci nell’hinterland bolognese. Di Leros lo scrittore inglese Lawrence Durrell ebbe a dire: “ Che Dio aiuti chi ci nasce, viene da dire, chi ci vive e chi ci viene a morire…Sono assolutamente d’accordo col poeta Focilide, che usò il nome di Leros per buttar fango su un nemico, per sua sfortuna nato proprio qui”. Leros, la macchia assolata nell’Egeo dove si svolse la battaglia britannico-germanica durante la seconda guerra mondiale  -  come ci è tramandato a livello filmico dal cult americano del 1961 I cannoni di Navarrone (ove erroneamente si parla dell’isola di Keros), - e dove dopo qualche anno quattromila dannati furono inghiottiti, fagocitati, masticati in una Gehenna laica: matti e detenuti politici a seguito del colpo di stato dei Colonnelli del 21 aprile 1967; matti e prigionieri oppositori del regime militare orribilmente torturati nel corpo; matti che hanno visto replicare ed incarnare in Leros il Male Assoluto di Auschwitz,  come vagheggiò già malato di tumore  John Merritt, uno dei primi giornalisti che scoprì le bolge dell’isola greca. Matti: “Lutti, depressioni, fasi maniacali, fobie, disturbi dello spettro autistico, alcolismo, droga. Ansia. Disperazione. Paura e povertà, che produce tutto il resto”.
Un libro che devasta, demolisce, penetra senza riguardi, con implacabile prepotenza, negli anfratti sconosciuti dell’animo del lettore, gettandolo nella  psiche di vittime e carnefici, nella abiezione dell’umano essere: abusi sessuali, pedofilia, incesto, aborti praticati da mammane, usurpazione di corpi e  menti e anime di donne sottoposte al dominio ordinariamente arcigno di mariti e padri e fratelli,  proprietari indiscussi di sventurate, fatalmente anoressiche, inevitabilmente annullate nelle proprie più intime interiorità, ineluttabilmente  suicide, anche senza morte.
La bellezza di un’isola, i suoi colori, con “troppo mare, troppo cielo, troppa aria”, contrastano con  i colori pietrosi, grigi, scuri, anonimi, bui delle strutture manicomiali, delle divise della polizia  torturatrice  militare e degli infermieri, che altro  non erano che disperati o aguzzini o entrambi, senza alcun titolo, bisognosi soltanto di un misero stipendio per mantenere famiglie chiuse anch’esse in un tunnel senza uscita.
E’ un’eco quella che si narra, l’eco di vite non vissute, negate, obbrobriose nel loro sterco, nella loro urina e nel loro vomito, vaganti in altre dimensioni che non possono essere percepite, udite, viste, ascoltate sul pianeta Terra.
“La prima verità” è un titolo rubato ad un verso del poeta greco Ghiannis Ritsos, nascosto nelle vesti di uno dei tanti personaggi le cui esistenze o non esistenze vengono raccontate con impietosa umanità in questo capolavoro. Ghiannis Ritsos è Stefanos, il comunista arrestato, torturato e risucchiato nel buco nero di Leros e della tirannide dei Colonnelli, ma è anche il poeta Stefano Tassinari, a cui è dedicata quest’ opera.
E la poesia si nutre del dramma, ne trae la sua migliore linfa. La narrazione è ricca di interpolazioni poetiche che ci parlano di tragedie e di sofferenze abissali come solo la poesia sa fare. Prosa e poesia che parlano dei figli della guerra e dell’ignoranza, sommersi, affogati in un dolore senza fondo e senza fine, dove Dio è abbinato ignominiosamente a quegli abusi, a quegli aborti, a quelle donne serve che perpetuano la loro schiavitù nelle figlie, cui spetterà  lo stesso immutabile destino a cui non possono  sfuggire.
La poeticità è musica essa stessa, ma la fatica letteraria della Vinci necessita anche della sonorità dei brani cantati da Milva e Dalida e del ritmo del sirtaki.
“La prima verità” è poesia, prosa, fotografia, cinema, musica ma anche pittura, come i tanti Trittici di Hieronymus Bosch, il pittore fiammingo quattro-cinquecentesco che con il suo pennello ha raffigurato visioni terrifiche su cui la mia mente si è soffermata mentre si impossessava di alcuni passaggi del libro.
“Una prima verità” non esiste da nessuna parte: “Tutti i malati di mente, i pazzi, i diversi, gli inquieti, i maniaci, gli psicopatici, gli ansiosi, i depressi, i suicidi, i morti in vita, i mostri, i mattucchini del passato sono qui. Ognuno racconta i suoi bisogni, e i sogni, gli incubi, i desideri, la sua versione dei fatti e hanno ragione perché una prima verità non esiste da nessuna parte”.
La legge Basaglia n. 80 del 1978 con il tempo ha, almeno in parte, spazzato in Italia tutto questo oceanico raccapriccio e i medici psichiatri stimatori di Basaglia hanno consegnato al passato l’infamia ellenica.
Ho smesso di pensare alla disperazione di quei giorni in cui scoprivo un mondo di dolore elementare e solido come un sasso sbattuto sulla testa…La realtà delle cose che accadono non è fatta della stessa materia dell’immaginazione, né dell’anticipazione o del racconto di ciò che è successo ad altri”.
P.s.: La bellezza del romanzo non contrasta con la granitica durezza dei temi in esso trattati e, di conseguenza, ne sconsiglio la lettura ai minori e agli adulti dotati di particolare sensibilità.

Fabrizio Giulimondi

sabato 3 settembre 2016

MADRE TERESA DI CALCUTTA......4 SETTEMBRE 2016......SANTA

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Madre Teresa di Calcutta l’ho incontrata due volte.
La prima volta nel 1981 durante un viaggio in India organizzato dal mio liceo; la seconda volta nel 1990 quando mi ero recato a san Gregorio al Celio in Roma.
Dell’India, nonostante il ricordo sia lontano, non dimentico l’emozione, come se non stessi vivendo io stesso quella esperienza e il corpo e la mente fossero quelli di altri,  di quel giorno di luglio mentre partecipavo alle 5 del mattino, proprio nella Casa Madre delle “Missionarie della Carità” a Calcutta, vicina al tempio della Dea Kālī, alla preghiera mattutina quotidianamente recitata dalle suore, quella splendida di San Francesco chiamata “preghiera semplice”: quella mattina c’era anche Madre Teresa.
E c’era anche Madre Teresa un mattino della primavera del 1990 alle ore 6.30 al centro delle Missionarie della Carità a san Gregorio al Celio, dove ero andato a chiedere loro aiuto per un alcolista che non si sapeva dove far alloggiare e la vidi arrivare, inaspettatamente, in processione insieme alle consorelle: in quel torrente di sari bianchi e azzurri c’era anche la Santa che mi aveva detto sì già prima che glielo chiedessi.

Fabrizio Giulimondi

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