lunedì 27 febbraio 2017

"MONOLOGO DI UN UOMO ALLA NATURA" DI ALESSIA GIULIMONDI: VINCITORE PREMIO LETTERARIO "PER AMATRICE" 2017

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Sono in macchina e sto andando via. Solo. Sul sedile del passeggero non è seduto nessuno. Il sedile del passeggero è vuoto. Io non lo guardo, non ci riesco, ma lo vedo comunque: quel vuoto.
Sono le dieci di sera, il giorno prima, alla stessa ora, lui era ancora vivo.
Mi fermo in una piazzola di servizio, accendo le quattro frecce ed esco dalla macchina per piangere da solo. La terra sussulta ancora sotto le mie scarpe, solo sotto le mie scarpe.
Mi passo la mano sulla faccia, ingoiando le vesciche di pianto gonfie dentro la mia gola. Le faccio scivolare sotto i piedi e ci cammino sopra fino allo sportello della macchina. Chiudo la portiera e il traffico dell’autostrada si attutisce. Rimango a fissare il parabrezza, con il sedile vuoto accanto. Poi giro la testa alla mia sinistra e una figura in lontananza mi sfreccia davanti. Forse un’allucinazione. La vedo che spunta all’improvviso correndo, con i suoi capelli verdi, nuda, in mezzo alla pioggia che scroscia sull’asfalto, indefinita e bianca in tutto quel bagnato. Mi dà sempre le spalle, mai le riesco a vedere il volto, solo, a un tratto, fugacemente, i seni. E’ bianca e zozza di fango, fra i capelli rami e foglie e pistilli di fiori appena morti. La seguo finché non mi ritrovo negli alberi fitti di buio. Lei è lì che mi attende di spalle. Rimane immobile dentro la pioggia, con i piedi affondati nella terra come se vi trovassero radici, con i capelli che scivolano sul suolo bagnato. Apro la portiera della macchina, senza pensare a nulla, senza farmi domande, solo attratto da quel corpo umido e fermo davanti ai miei occhi. Lei allora scappa e io la inseguo, la chiamo, la chiamo ancora finché non sento più il rumore della sua fuga. Mi accascio a terra, in ginocchio nel fango, le mani ancorate al terreno. Avverto gli occhi bruciare, un calore febbrile accompagna i miei movimenti, poi le mie parole:
“Ti ho vista, sai. Ti ho vista stamattina mentre spaventavi quei bambini dentro le loro stanze, quando hai svegliato i vecchi che dormivano fra le lenzuola e li hai fatti uscire fuori a piedi scalzi. Ti ho vista quando il mondo tremava cupo e sordo, sordo dei nostri lamenti, cieco difronte alle nostre grida sotto le schegge, cieco e sordo proprio come te, o mia Venere.
Ti ho guardata negli occhi oggi, sarà stata l’alba, non so l’ora precisa perché ho lasciato l’orologio sul comodino, sotto le macerie. Ho perduto il tempo che ora sta nascosto sotto la mia casa, il tempo sta nascosto, come te, sotto la polvere e rimane in silenzio, come te, sotto i piatti rotti e le mensole cadute. E mentre forzavo la porta per cercare di uscire, perché il soffitto si era frantumato sulle scale, ti ho guardata negli occhi. Ti ho vista che fuggivi nuda, con i vestiti sporchi di calce e sangue. Tu non ti sei girata, ma io ti ho vista mentre fuggivi. Tu, però, non li hai guardati quei bambini…” ho le lacrime che si annodano nella gola, che mi fanno tremare la voce “ quei vecchi, quei padri orfani, quei figli soli. Non ti sei fermata, non ti sei girata per vedere quelle pupille vuote, quei cuori di carta, di vetro che si stavano rompendo, che si stavano strappando. Io ti ho vista, ma tu non hai guardato. Tu non hai mai sentito che rumore fa il cuore quando si strappa! Tu non lo sai! Non lo sai cosa significa vedersi morire tuo fratello fra le mani, mentre non riesci a bloccare il sangue che si porta via la sua vita. Tu non lo sai quant’è caldo, quanto brucia il sangue di tuo fratello quando ti cola a fiotti sulle braccia!”
Il mio tono si fa più disperato, il mio corpo è più eretto e adesso la cerco nei frammenti di luce fra l’oscurità e la notte: “Perché non guardi? Perché non ci guardi quando sollevi i mari e le montagne per scaraventarceli addosso? Perché, anche per un solo momento, non ti volti ad ascoltare il rumore della paura, le "schicchere" del dolore che tintinna e tuona fra le ossa quando la terra singhiozza e cozza sotto i nostri piedi?
Mi alzai in piedi ed urlai: “Dove sei, ignobile dama? Dove sei, o grande dissimulatrice silente, che tremi ed esplodi e dividi la terra a metà mentre noi ci costruiamo sopra le nostre illusioni? Dove ti nascondi, lurida puttana? Eterna Medea di questo mondo, dove sei? Che uccidi, che trucidi i tuoi stessi figli, quei figli che allatti dallo stesso seno con cui li avveleni, che accarezzi con le stesse mani con le quali soffochi. Dove ti nascondi, sporca meretrice che ci partorisci e ci accoppi, che ci fai innamorare e poi ci dividi, ci dividi per sempre? Cosa ci stiamo a fare noi qui, come ospiti in territorio straniero, come tanti clandestini divisi tra il cielo e la terra, sballottati nell’eterna lotta fra Dio e il mondo? Cosa vuoi tu da noi, traditrice sporca e languida quale sei?”
Le punto il dito contro, cerco i suoi occhi nel nero degli alberi e grido. Lei non c’è. Lei è assente eppure ascolta. Lei ascolta e non parla. Lei tace e non guarda, ascolta e basta. Ora ho il cuore asciutto e di nuovo tiepido. Lei è lontana e non si gira, è grande, gigantesca e terribile e non mi vede in mezzo alla folla. Io continuo ad accartocciarmi e lacrimare nel mio perpetuo peregrinare nell’immenso.

Alessia Giulimondi



domenica 26 febbraio 2017

"BEATA IGNORANZA" DI MASSIMILIANO BRUNO

Come “Perfetti sconosciuti” di Paolo Genovese, “Beata ignoranza” di Massimiliano Bruno affronta il problema di come i cellulari, i social, facebook, gli sms e whatsapp si sono insinuati nelle nostre vite modificandole lentamente ma inesorabilmente, trasformando la comunicazione da emozionale a telematica, rendendola fatalmente artificiale. Il tema di sapore sociologico intercetta usati e abusati filoni cinematografici sulla scuola. Questa volta, però, al centro dell’attenzione non ci sono gli alunni ma due professori (due grandi attori: Alessandro Gassmann e Marco Giallini): uno drogato di informatica; l’altro, invece, completamente al digiuno. Per una sfida (ovviamente “sparata” su YouTube) uno deve uscire dal mondo di internet, l’altro vi deve entrare per un periodo di tre mesi.
Nonostante le questioni trattate  coinvolgenti sicuramente lo spettatore, la bravura degli interpreti protagonisti, la presenza corale di altri volti noti al grande schermo italiano (Massimiliano Bruno, Valeria Bilello, Carolina Crescentini, Teresa Romagnoli, Luca Angeletti) e, non da ultimo, l’esperienza e l’abilità del registra, la pellicola non raggiunge l’originalità narrativa e la bellezza artistica,estetica e recitativa di “Perfetti sconosciuti”. “Beata ignoranza” rimane un po’ confuso: vuole molto ma rimane come bloccato lungo un confine imponderabile, fra il divertente e l’impegnato, con tonalità contenutistiche che lasciano perplessi.

Fabrizio Giulimondi

martedì 21 febbraio 2017

"MANCHESTER BY THE SEA" DI KENNETH LORENGAN: PREMIO OSCAR 2017 COME "MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA" (CASEY AFFLECK)

Manchester by the sea” di Kenneth Lonergan, candidato a sei nomination agli Oscar 2017 e vincitore di due Bafta, è la traduzione in linguaggio cinematografico di molta letteratura psichiatrica sulla elaborazione della morte, a partire dal bel libro “Il lutto” di Antonio Onofri e Cecilia La Rosa (Giovanni Fioriti editore).
Immersa in uno scenario marittimo bello e algido del New Hampshire, la storia si muove intorno alla figura inizialmente indecifrabile di Lee Chandler (interpretato da Casey Affleck, che ha superato se stesso) ed ai suoi nuovi lutti, che si vanno ad aggiungere e a stratificare ad ancora troppo vive e devastanti morti.
L’opera è un studio attento, pacato ed implacabile, sereno e duro, sui comportamenti degli esseri umani dinanzi a scomparse tragiche, troppo tragiche e fuori dall’ordine naturale degli eventi per poter essere accettate da mente umana, ma è anche uno studio sulle reazioni davanti ad una improvvisa e grave malattia: si affaccia alla coscienza dei familiari il possibile decesso, poi probabile, per divenire fatale, inevitabile. I protagonisti del film, ognuno con la propria differente umanità, sono costretti ad accettare la morte, elaborarla, digerirla come soda caustica. Ogni singolo personaggio incarna le diverse reattività umane difronte la malattia, la sofferenza ed il lutto. La moglie e madre che fugge come se fosse lei la vera vittima di quella patologia infausta. La moglie e madre devastata dal dolore che scarica tutta la propria lancinante angoscia sul marito, gravato da un interminabile senso di colpa. La moglie e madre che, nel ridare la vita, si riapproprierà della capacità di amare quel marito su cui ha scaricato ogni responsabilità, annientandolo. L’adolescente che nella confusione dei sentimenti e nel sesso consumato vuotamente, anche subito dopo la morte del padre, vuole forzare se stesso a riconoscersi ancora vivo, entità corporea che agisce e si muove, senza rendersi conto che sta fuggendo dal suo reale stato d’animo. Gli attacchi di panico sono la cartina di tornasole di ciò che egli realmente è, figlio e cugino del lutto e figlio di una madre, “buco nero” delle afflizioni altrui: il frigo è freddo come lo è la cella dove sta il corpo del suo genitore e non saranno i corpi delle sue “fidanzate” a riscaldarlo.
E’ un film denso e intenso, che non ti molla mai.  E’ un film fatto di sguardi, dialoghi e silenzi e silenzi che si fanno dialogo e dialoghi che si fanno silenzi. E’ un film di espressioni mimiche che trasudano dolore e senso di vuoto e disperazione, di drammi che assumono sembianze corporee ed emozioni che parlano un idioma fisico. Il respiro rimane sospeso nell’aria, galleggiando in un’altra dimensione, per tutta la durata dell’interrogatorio di Lee: gli uomini non vogliono concedergli la giusta condanna per quel suo imperdonabile atto, una condanna a cui lui anela.
Le stesse splendide immagini (Jody Lee Lipes), nel loro splendore gelido, bloccano quell’urlo che ogni personaggio vorrebbe lanciare ma che non riesce a far esplodere: il grido è silente ed è fuso nell’incanto pacato della scena finale.

Fabrizio Giulimondi


domenica 19 febbraio 2017

"MATERNITA' SURROGATA: UN FIGLIO A TUTTI I COSTI" DI PAOLA BINETTI (EDIZIONI MAGI)

Maternità surrogata: un figlio a tutti i costi” di Paola Binetti, con prefazione di Livia Turco (Edizioni Magi), è un saggio, con taglio scientifico e annotazioni bibliografiche, assolutamente imperdibile per chiunque voglia approfondire la pruriginosa tematica dell’utero in affitto/maternità surrogata.
Uno sguardo rigoroso e implacabile a trecentosessanta gradi sui contratti aventi ad oggetto donne che affittano il proprio utero e cedono, prevalentemente previa dazione di danaro, il bambino agli acquirenti (coppie eterosessuali o omosessuali) al pari di una qualsiasi merce.
Il linguaggio è appassionato e l’argomento scrutinato sotto un aspetto filosofico, antropologico, psicologico, sociologico, biologico - genetico e normativo. Lo sguardo si innalza dall’Italia per sorvolare i cieli europei, nordamericani, australiani, asiatici ed africani. L’Autrice, con stile asciutto e scorrevolissimo, coinvolge il lettore in un mondo di sensazioni ed emozioni violentate, lo attrae con abile forza gravitazionale narrativa dentro la inscindibile commistione di fisicità e amore di cui è composto il rapporto della madre con il proprio bimbo: “Il linguaggio madre-figlio, fin dai primi mesi della gravidanza, si esprime attraverso il contatto dei loro corpi. La sovraesposizione dei loro corpi, che vanno profondamente modificandosi per adattarsi l’uno all’altro, pone sempre in primo piano il bisogno di crescere del bambino; ed è il corpo materno che accoglie, che nutre, che protegge, con un linguaggio silenzioso che comunica sicurezza e a cui non corrisponde una adeguata sintassi, una grammatica, un lessico che racconti in tutte le manifestazioni le loro vicende”. Questo scambio organico - empatico viene interrotto da un atto di incommensurabile brutalità: appena uscito dal ventre materno il bambino viene consegnato alla coppia committente per scomparire per sempre dalla visuale e dalle braccia della donna che gli ha dato la vita: “Quando una donna prende atto che esistono in giro parti scisse di sé, perché tali sono sia i suoi ovuli sia il bambino, ne ricava la sensazione di una ferita profonda impossibile da rimarginarsi”.
La disamina non trascura alcunché e la Binetti tutto osserva e nulla tralascia, a partire dalla deriva eugenetica a cui ci stanno conducendo il “mercantilismo del parto” e i desideri trasformati in diritti che si impongono con sprezzo su quelli dei più silenziosi e indifesi, ossia dei bambini: “A uscirne offesa, umiliata, svilita e mortificata è … l’essenza dell’essere umano, che viene trattata come semplice merce … comporta possibili derive eugenetiche … trattando i bambini come prodotti da assemblare a proprio capriccio, scegliendo le caratteristiche preferite sulla base di un catalogo e di una potenziale somiglianza”.
Ciò che è tecnicamente possibile muta un’aspirazione in un non più ostacolabile diritto, e annulla impietosamente il mistero, anche etico – antropologico, di ogni singolo essere umano.
Commovente e toccante il finale, che si accosta a chi legge disincarnandolo dal suo momentaneo stato di lettore per proiettarlo verso altri spazi e altri tempi: “ (Il figlio) è un tempo che non finisce con me; che va oltre me, così come lo spazio non è più quello che occupo solo io, ma è il nostro spazio; è uno spazio che oltrepassa i miei confini e mi permette di essere qui, dove sono, e là dove è mio figlio. Nel vissuto della maternità spazio e tempo sono altro da quello che ho sempre vissuto e sperimentato, sono un valore aggiunto che da alla mia natura una vera e propria marcia in più”.

Fabrizio Giulimondi

domenica 12 febbraio 2017

"IL NIDO" DI TIM WINTON (FAZI EDITORE)


Il nido” dello scrittore australiano Tim Winton (Fazi editore) è un romanzo dove la parola prevale sulla narrazione.
I fatti sono secondari perché soverchiati da un tripudio di parole ed una cascata di aggettivazioni che mulinano vorticosamente nella testa del lettore. Le parole spadroneggiano divenendo trama stessa, costruita sul fascino di una composizione, impudica, sfacciata, di vocaboli, termini, lemmi e fonemi. Le parole sono il vero polo di attrazione del lettore che rimane disinteressato alla storia. Metonimie, sinestesie e metafore avvolgono il racconto che rischia di esserne soffocato, accantonato dalla verbosità, talora ampollosa, di Winton, trapezista, acrobata e funambolo della lingua. Le frasi hanno un ritmo sincopato grazie all’abile uso della punteggiatura, capace di creare cesure tra una parte e l’altra della frase e di interrompere il periodo in contrasto sì con le regole linguistiche, ma non certamente con l’estetica e la sonorità del linguaggio.
Il lettore galleggia nell’afa pungente che opprime i protagonisti, che danno corporeità all’abbandono, alla tristezza, alla solitudine e al disincanto, autentiche colonne sonore del romanzo. Le prime centinaia di pagine – come un lungo prologo -  si soffermano sulla imponderabilità della natura umana, sulla incomunicabilità fra persone apparentemente vicine: l’inaccessibilità del piccolo Kai, la sgradevole volubilità di Gemma, l’apparente imperscrutabilità di Tom Keely, il cui cuore nasconde come un nido di uccelli sentimenti silenziati, che si mostreranno virulenti solo nelle ultime battute dell’opera.
Sono parole intrappolate nel silenzio: “Il ragazzino si ammutolì. E restò in silenzio. Keely cercò di trattenersi. Non poteva farlo. Non era il caso. Ma il ragazzino insisteva. Il quel silenzio dalla punta di diamante. Che continuava a penetrarlo”.

Fabrizio Giulimondi 

mercoledì 8 febbraio 2017

"SMETTO QUANDO VOGLIO 2 - MASTERCLASS" DI SYDNEY SIBILIA


Smetto quando voglio 2 – Masterclass” è il secondo tempo di Smetto quando voglio, sempre dell’audace regista Sydney Sibilia e, a differenza di quanto accade di solito, il sequel è migliore del primo.
Cervelli in fuga ed intelligenze fuori da comune adoperate come camerieri, operai e benzinai continua ad essere il tema affrontato da un film molto divertente e molto intelligente, ritmato da continue azioni accompagnate da spassosissime battute e geg. Una spremuta della migliore attorialità italica con un finale geniale che anticipa, come se fosse una normale fiction televisiva, il prossimo – e deduco ultimo – episodio sulla “banda dei ricercatori”.
Non vederlo è un vero peccato!
Fabrizio Giulimondi


mercoledì 1 febbraio 2017

"SPLIT" DI M.NIGHT SHYAMALAN

Locandina Split

Il regista de “Il sesto senso” M. Night Shyamalan è tornato nelle sale con un thriller per “menti forti”, “Split”. La passione di Shyamalan per la vivisezione psichiatrica e l’analisi introspettiva di personalità malate si riverbera anche in questa particolare e coinvolgente pellicola. Lo spettatore rimane incollato alla sedia, non molla mai, non si distrae. Una narrazione claustrofobica, angosciante, ritmata da sonorità musicali metalliche (di West Dylan Thordson), che mantiene il pubblico in una costante stato di ansia, in una permanente allerta. Ventitré identità. Ventitré personalità. Una stessa persona. La mente domina il corpo e le ventitré diverse menti fanno mutare la stessa fisicità di Kevin, interpretato da un funambolico James McAvoy. L’attore scozzese da movimento e mimica a ventitré diverse espressioni del viso e a ventitré diversi modi di atteggiare il proprio corpo. Una stessa psiche e multiformi corporeità, multiformi corporeità e una stessa psiche, per giungere alla ventiquattresima identità: la bestia.

Fabrizio Giulimondi