venerdì 12 maggio 2017

"IL GIUDICE ANTROPOLOGO": DUE CHIACCHIERE SUL COSTITUZIONALISMO MULTICULTURALE E SULL'OMONIMO LIBRO DI ILEANA RUGGIU


Le multiformi varietà e differenze di natura culturale possono costituire novelle “diseguaglianze” che fanno ingresso nello Stato costituzionale moderno. La “ragione culturale” (includente aspetti religiosi e linguistici) consiste nell’accordare un trattamento giuridico civile, penale o amministrativo differenziato in virtù dell’appartenenza di un soggetto ad un gruppo culturale diverso rispetto a quello della maggioranza. Le “diseguaglianze” di origine culturale sono generalmente assenti all’interno delle Carte costituzionali, le quali, spesso, non riconoscono, garantiscono o tutelano i diritti culturali, le clausole multiculturali, il principio di diversità o di pluralismo culturale. Anche per queste ragioni la “diseguaglianza” culturale è un “prodotto” principalmente giurisprudenziale e l’emergente diritto multiculturale è essenzialmente un diritto pretorio. L’uso esplicito dell’argomento culturale, noto in sede penale come cultural defence, ha preso avvio nella giurisprudenza inglese nel 1970 e in quella statunitense nel 1980 e può dirsi, oramai, un fenomeno diffuso in tutti gli ordinamenti e le società che sono, di fatto o di diritto, multiculturali.
Viceversa, il riconoscimento normativo della cultura come elemento degno di protezione giuridica che assurge al rango di diritto soggettivo in grado di produrre trattamenti differenziati, ha avuto luogo in prima battuta nel diritto internazionale in forza del Patto internazionale sui diritti civili e politici nel 1966, che ha annoverato i diritti culturali fra i diritti umani; nel diritto interno, invece, lo status dei diritti culturali o del principio multiculturalista o della diversità culturale, sono ancora incerti e variano da ordinamento ad ordinamento
La parola “cultura” è una locuzione polisenso e ricorre testualmente nella Costituzione italiana e, segnatamente, negli artt. 9, 33, 117 e 118, con significati ben lontani da quello originale antropologico.
Accezioni del significato di cultura:
1) una prima accezione indica una conoscenza specialistica, tecnica, superiore, che si consegue attraverso un percorso di istruzione ufficiale. A tale accezione fa riferimento l’art. 33 Cost.(istituzioni di “alta cultura”). Il precipitato giuridico di tale accezione tecnico - specialistica di cultura è il riconoscimento del diritto sociale all’istruzione;
2)  in un secondo significato, pure ricorrente nei testi giuridici, la parola cultura indica “la vita intellettuale di una Comunità”, che ruota intorno ad attività di tipo artistico e letterario, a scambi di idee e dibattiti. In questa dimensione, la cultura può portare alla produzione di beni materiali (opere artistiche, film, romanzi) e immateriali (idee, visioni della società) all’interno di una società (ex artt. 9, 117 e 118 Cost.);
3)  risulta assente nella nostra Carta la visione di cultura più squisitamente antropologica, ossia quella usata nell’ambito del multiculturalismo in relazione ai gruppi etnico-religiosi di minoranza in una determinata area geografica, a differenza dell’art. 27 della Costituzione canadese del 1982 che, per prima, si è impegnata a proteggere il patrimonio multiculturale di tutti i cittadini canadesi (seguita, successivamente, da una cinquantina di altre Carte costituzionali).
Fornire una accezione di cultura in senso antropologico è impresa complessa, avendo la stessa antropologia elaborato, allo stato attuale, oltre 600 definizioni.
Nonostante la babele definitoria che regna in antropologia è possibile rinvenire alcuni elementi ricorrenti nelle molteplici definizioni:
a) la cultura è un qualche cosa che l’uomo eredita socialmente in quanto componente di un gruppo sociale, distinto, dunque, da ciò che gli è trasmesso naturalmente per via genetica e tramite l’istinto; b) la cultura è trasmessa in via intergenerazionale;
c) è cultura il comportamento che è dotato di un qualche valore.
A tal proposito, è importante notare che affinché un comportamento possa essere considerato culturale non è sufficiente che esso sia regolare, ossia che accada con una certa frequenza dentro un gruppo: esso deve essere anche approvato e condiviso dal gruppo, considerato in qualche modo dotato di valore o di una funzione sociale adattiva utile alla sopravvivenza del gruppo.
L’approccio del legislatore italiano alla “diseguaglianza” multiculturale è stato finora occasionale, caratterizzato da interventi episodici miranti generalmente a proibire singole pratiche, facendo leva su un diritto penale simbolico che punisca con forza le mutilazioni genitali (l. 7/2006) e l’accattonaggio con minori (l. 4/2009). Manca una legge generale sul multiculturalismo sulla scia del Multicultural Act canadese (1988), così come uno strumento generale di diritto penale come l’attenuante culturale.
Nel codice penale peruviano è stato introdotto l’eccezione culturale, costruendo la scriminante dell’“errore di comprensione culturalmente condizionato”.
In questo silenzio normativo il ruolo dei giudici penali (e civili) si rafforza nell’affrontare le diversità culturali, divenendo protagonisti indiscussi delle trasformazioni della società italiana in senso multiculturale (giudice – amministratore di giustizia – sociologo – antropologo).
Corte di Cassazione (mixage di parti motive delle sentenze del 2007, 2008, 2009 e 2011): “E’ necessario prestare attenzione alle situazioni reali al fine di non criminalizzare condotte che rientrino nella tradizione culturale di un popolo … fermo restando, però, che se determinate pratiche, magari anche consuetudinarie e tradizionali, mettano a rischio diritti fondamentali dell’individuo garantiti dalla nostra Costituzione o confliggano con norme penali che proprio tali diritti cercano di tutelare, la repressione penale è inevitabile. E’ fin troppo evidente, infatti che le consuetudini contrarie all’ordimento penale non possono essere consentite … Le tradizioni etico-sociali di coloro che sono presenti nel territorio dello Stato, di natura essenzialmente consuetudinaria benché nel complesso di indiscusso valore culturale, possono essere praticate solo fuori dall’ambito della operatività della norma penale. Il principio assume particolare valore morale e sociale allorché - come nella specie - la tutela penale riguardi materie di rilevanza costituzionale … Si è in presenza, sotto il profilo della materialità, di un reato, per così dire, culturalmente orientato, quello che gli americani definiscono cultural offence. Nel reato culturalmente orientato non viene in rilievo il conflitto interno dell’agente, vale a dire l’avvertito disvalore della sua azione rispetto alle regole della sua formazione culturale, bensì il conflitto esterno, che si realizza quando la persona, avendo recepito nella sua formazione le norme della cultura e della tradizione di un determinato gruppo etnico, migra in un’altra realtà territoriale, dove quelle norme non sono presenti. Il reato commesso in condizioni di conflitto esterno è espressione della fedeltà dell’agente alle norme di condotta del proprio gruppo, ai valori che ha interiorizzato sin dai primi anni della propria vita”.
La Cassazione mantiene un atteggiamento rigoroso in tema di gerarchia delle fonti: ”La consuetudine può avere una valenza scriminante ai sensi dell’art. 51 cp, solo quando sia richiamata da una legge … Anche un popolo allogeno come quello degli zingari quando si insedia nel territorio italiano, deve osservare le norme dell’ordinamento giuridico vigente in questo territorio; e non può invocare i propri usi tradizionali per scriminare comportamenti che sono vietati dalle norme penali, eccetto il caso in cui questi usi siano richiamati, e quindi legittimati, dalle leggi territoriali”.
In alcuni casi, accanto alla norma costituzionale o penale protettrice  di beni costituzionali che è in grado di prevalere sulla consuetudine culturale in base alla teoria delle fonti, la Corte di Cassazione ha evocato anche una sorta di contro-norma culturale, individuata nella cultura maggioritaria italiana: “Né diverso criterio interpretativo può evidentemente essere adottato in relazione alla particolare concezione socio-sociale di cui sia eventualmente portatore l’imputato, posto che in materia vengono in gioco valori fondamentali dell’ordinamento (consacrati nei principi di cui agli artt. 2,3,30 e 32 Cost.), che fanno parte del visibile e consolidato patrimonio etico-culturale della nazione e del cotesto sovranazionale in cui la stessa è inserita e, come tali, non sono suscettibili di deroghe di carattere soggettivo e non possono essere oggetto, da parte di chi vive e opera nel nostro territorio ed è quindi soggetto alla legge penale italiana, di valida eccezione di ignoranza scusabile”.
Come discorso di chiusura della giurisprudenza di legittimità: “Una società multietnica, che accetta più o meno consapevolmente il multiculturalismo, non può ignorare una certa dose di relativismo culturale, che consenta di guardare ad altre civiltà senza giudicarle secondo i propri parametri. Ne consegue che l’approccio alla delicata questione in esame, per le implicazioni di carattere etico e giuridico che vengono in rilievo, deve essere guidato da una prudente e illuminata interpretazione delle norme di riferimento, senza sottovalutare la peculiare posizione del soggetto coinvolto nell’atto rituale incriminato”.
La Cassazione italiana - come emerge dai passi sopra riportati -  è ambivalente sul punto perché da un lato costruisce la cultura come consuetudine, però nel contempo le assegna un proprio valore, per cui è complesso allo stato attuale capire in che modo l’art. 27 della Costituzione italiana possa trovare applicazione.
Certamente al multiculturalismo la giurisprudenza italiana - e non solo - oppone i contro-limiti della tutela di genere e del contrasto al patriarcato (giurisprudenza c.d. anti-patriarcale e/o femminista), facendo rientrare nella violenza di genere tutte quelle condotte, seppur riconducibili a tradizioni e credenze religiose, etniche e culturali “di minoranza”, che ridondano nella violenza e nella limitazione della autodeterminazione della donna.
Due proposte presentate, al riguardo, dalla prof.ssa Ilenia Ruggiu, Autrice di “Il giudice antropologo. Costituzione e tecniche di composizione dei conflitti multiculturali” (FrancoAngeli edizioni), tedofora del “costituzionalismo multiculturale”:
·       1) prima proposta: introduzione di alcune modifiche al codice di rito penale (e civile) che portino, nei casi in cui sia interessino un appartenente ad una minoranza etnica, alla attivazione di perizie che coinvolgano un antropologo che possa esaminare l’eventuale insorgente conflitto multiculturale (gli antropologi non hanno un albo, ndr).
·      2) seconda proposta: nel caso di conflitti multiculturali l’Autrice ha individuato in test culturali i precipui strumenti argomentativi per il giudice in fase decisionale, in modo di tecnicizzare e rendere più accurata la stessa motivazione della sentenza. Si tratta di un modo per procedimentalizzare l’iter argomentativo del giudice, una sorta di guida per tappe obbligate verso la decisione che possa incorporare alcuni standard antropologici dentro il processo, mettendoli in contatto, in confronto e in dialogo con le caratteristiche proprie del ragionamento more iuridico, aspirando così a rendere certi i passaggi argomentativi.
Il test di supporto all’ attività giudiziaria (e a quella del legislatore nell’esercizio della funzione normativa) che l’Autrice propone per risolvere le controversie culturali, combinano elementi strettamente antropologici con quelli “ponderativi” più tipici del ragionamento giuridico. I due fattori sono distribuiti secondo una sequenza di passaggi logico-argomentativi che, secondo l’Autrice, ogni giudice dovrebbe percorrere quando si trova in presenza di un conflitto multiculturale.
Il test culturale ha il vantaggio di apportare una certezza almeno di tipo argomentativo.
In quarant’ anni di risoluzione di conflitti multiculturali i giudici nazionali, europei e nordamericani si sono sforzati, spesso con un approccio case by case (empirico: valutazione c.d. topica), a trovare soluzioni a controversie di siffatto ordine, non partendo da un preesistente sistema, ma, nei fatti, producendone essi stessi uno nuovo.
La giurisprudenza pretoria che ha dato corpo ad un diritto pretorio si è intrattenuta, per fare qualche esempio, sui seguenti casi concreti: il bambino rom che mendica (c.d. Manghel); l’infibulazione praticata sulle bambine in forza a certe correnti di pensiero musulmane e circoncisione ebraica; la costrizione a casa, la violenza fisica e morale, lo stupro e omicidio di donne per ragioni religiose islamiste; l’istituto adottivo nordafricano (kafalah), non riconosciuto nel nostro ordinamento civilistico; l’uso di droghe c.d. leggere da parte di alcuni seguaci di alcuni culti; la poligamia  (islam, induismo, mormoni); il portarsi al collo il coltello “sacro” (il Kirpan) per i adepti della religione Sikh.
In merito a questa ultima ipotesi non si può non richiamare la sentenza n. 24084 della Corte di Cassazione, I sezione penale, che ha stabilito con chiarezza che: “In una società multietnica, la convivenza tra soggetti di gruppi differenti richiede l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. A mente dell’art. 2 della Carta costituzionale, l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, bensì il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante. L’immigrato che decide di stabilirsi in una società in cui è consapevole che i valori di riferimento sono differenti da quella da cui proviene, ne impone il rispetto. Non è infine tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, anche se leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante”. 

Fabrizio Giulimondi

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