domenica 19 novembre 2017

"TRAMONTI. UN MONDO FINISCE E UN ALTRO NON INIZIA" DI MARCELLO VENEZIANI



L’ultima opera di Marcello Veneziani “Tramonti.Un mondo finisce e un altro non inizia(Giubilei Regnani) deve essere letta. Punto. Anzi, deve essere studiata. Andrebbe inserita fra i libri di testo nei corsi liceali e universitari di filosofia e politologia. È un libro sulla Umanità, per l’Umanità e aperto all’ Umanità.
È una lunga, attenta, colta ed ironica disamina che va dal comunismo al politicamente corretto al globaritarismo, passando per il permanente disprezzo etnico ed antropologico per tutti coloro che non si assiepano intorno ai nuovi dogmi, destinatari di un razzismo etico con i suoi sacerdoti, le sue vestali, i suoi peccati laici e le sue sanzioni, sino alla emarginazione e alla morte civile.
Nel politicamente corretto la realtà dei fatti non conta più, contano le parole usate. Fallita la rivoluzione che avrebbe capovolto la realtà, non resta che rovesciare il lessico, capovolgere il senso delle parole o sostituire una parola con un’altra”.
È un lavoro che turba e una volta finito di leggere lascia un senso di agitazione. Non è facile, direi piuttosto che è molto raro, abbinare genio linguistico e coraggiosa profondità di idee, che scavano dentro e che non permettono più al vuoto lessicale e ideale di dominare incontrastato: il “nientismo” si vede aggredito e sente di perdere posizioni e recalcitrante si agita convulsamente dentro il beato assopimento dell’animo.
Da una parte v’è la neo-lingua che riduce ad unitatem il sistema, destrutturando arbitrariamente idee, concetti, pensieri e la dimensione esterna da essi richiamata, senza sostituir loro con altro costrutto. Non è una destrutturazione cubista, astrattista, surrealista o simbolista che sostituisce l’idea di una cosa alla cosa stessa, ma un programmatico annientamento della realtà con nulla sostituita; dall’altra vi sono neologismi che, rafforzati dalla bellezza estetica stilistica, evocano pensieri dirompenti, verità che giungono fisicamente nell’intelletto permeandolo di un denso strato di meditazione che difficilmente lascia il lettore una volta chiuso il libro. I neologismi di Veneziani danno corpo a concetti metafisici che avrebbero bisogno di una dissertazione a parte: la disintegrazione neolinguistica da una parte e la configurazione di una visione della vita e del mondo accennata e, talvolta, invocata, dall’altra. Plessi di vocaboli anche teatralmente in contrasto fra di loro che, uniti alla sonorità, inducono il lettore a riflessioni – forse mai prima congeniate o semplicemente sopite -  a cui non si era ancora accostato.   
Ci si sente protetti, rassicurati, rincuorati dalla neo - lingua perché edulcora la realtà, la rende più approcciabile, più gestibile, più tranquillizzante. Il politicamente corretto rasserena deresponsabilizzando. Le parole che rispecchiano il vero mondo è obbligatorio porle in soffitta. La realtà è urticante e pungente e per questo meglio prima dileggiarla per poi accantonarla. L’imperativo categorico kantiano riveduto e corretto richiede l’archiviazione nottetempo in cantina di parole non più rispondenti ad una dimensione certamente inesistente, ma che ha parimenti il compito di sostituirsi a ciò che è autentico; in seguito, con calma, si provvederà a gettare tutto nella pattumiera: “Il politacally correct, il gergo della finzione che copre la verità per tutelare alcune categorie, espelle parole vere ma crude, inserisce parole cotte ma false. Il rococò del parlar falso si spinge fino a considerare reati alcune opinioni ‘scorrette’ ”.
La nuova epifania è la teologia dell’”oggi”, l’ideologia della “egolatria”, dove il passato è un ridicolo quanto fastidioso fardello da rimuovere, mentre il futuro una mera propaggine dell’oggi da vivere con il medesimo senso di vacuità, una vacuità che della assenza di confini si nutre e si rafforza. I confini sono gli argini metaforici, spirituali e fisici ad un “Io” paralizzato in un perenne presente, nel quale il futuro è ristretto in un “Oggi” satollo di una illimitata espansione dell’”Io”. L’”Io” vive dei propri desideri coattivamente trasformati in imperiosi diritti. Desideri-diritti che non appagano ma compulsano l’ ”Io” (un Dio senza D) in direzione di un futuro privo di orizzonti e di prospettive, in quanto l’unico orizzonte, l’unica prospettiva è l’ulteriore allargamento della propria circonferenza di desideri da vivere in modo solistico, senza le radici del passato e privo dai legami con il domani.  Il presente in sé assorbe il futuro dopo aver tacitato un ingombrante passato.
La composizione chimica del concime di questa inesistente realtà è fatta di buonismo senza bontà, altruismo senza prossimità, pacifismo senza pace, religione senza Dio e senza senso del Sacro.
L’azione di perimetrazione è di ostacolo alla egolatria, perché siffatta opera inserirebbe l’individuo nelle sue multiformi esplicazioni - la famiglia, la comunità, la società, lo Stato - rendendolo responsabile, non più “agito”, ma “agente”
Il nuovo “Pensiero Dominante sena confini, delocalizzato e destrutturato” vive di “rarefazione delle intelligenze…tra nemici di fuori, ignoranza di dentro e il nulla che tutto pervade”.
Non solo. Si ha necessità di una nuova Natura in quanto essa impone intollerabili limiti da valicare a tutti i costi. E allora si provveda alla delocalizzazione di se stessi e da se stessi, si pervenga ad un “trans-uomo”, si separi l’eros dalla procreazione, per approdare finalmente al nietzschiano “Oltre - Uomo”: dall’utopia collettiva all’utopia individuale.
Le idee sono di ingombro al pari dell’essere che non è altro che un incessante divenire senza meta: “I mezzi sopraffanno gli scopi, le cose vincono sule persone. Si perde l’unità della persona, il suo significato e il suo valore. Vivere senza idee significa godere nel dettaglio e patire nell’insieme: vivere istanti pieni in giornate vuote. Ricchi di attimi. Poveri di vita”.
Il presente, però, è già gravido dell’ “Avvenire”, e l’Autore  ne prova già una grande attesa…e nostalgia: “La formula conclusiva…è nostalgia dell’avvenire. Espressione compiuta perché indica la circolarità del tempo, la necessità di congiungere la memoria del passato all’attesa del futuro e di restituire alla continuità tra le generazioni il senso più vivo di una tradizione che viene da lontano e si sporge nel futuro.”.
E che la lettura abbia inizio.
Fabrizio Giulimondi


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