sabato 29 dicembre 2018

"IL GIOCO DEL SUGGERITORE" di DONATO CARRISI


Puoi sfuggire al buio. Ma non puoi impedire al buio di cercarti
Prima era stato “Il suggeritore”.
Poi era sopraggiunto “Il cacciatore del buio”.
È dal buio che vengo”.
E ora Donato Carrisi ci conduce per mano dove la virtualità diventa realtà perché la realtà può essere troppo limitante all’espansione del Male: “Il gioco del suggeritore” (Longanesi).
E al buio che devo tornare
Chi è Enigma? Chi è Pascal?
È dal buio che vengo e al buio devo tornare”.
L’alessitimia è l’analfabetismo affettivo.
Mila ne è affetta.
Mila è un ex poliziotto.
Mila ha una figlia.
Ciò che l’uomo non riesce a fare nel mondo reale per viltà o argini etici nell’Altrove lo può fare. Tutto è possibile nell’Altrove.
E se l’Altrove tracima nel mondo reale?
 Il potere di cambiare le persone, di trasformare innocui individui in sadici assassini”.
Carrisi è il thriller che in modo erudito interiorizza le nostre paure, quelle che ancora non conosciamo, ne anticipa i tempi, le profetizza, le preconizza, ce le fa conoscere prima che esse si disvelino nella loro più cupa virulenza. Il Male non si manifesta con il ruggito feroce di un essere deforme e belluino, ma con il sorriso gentile di un suggeritore: “la faccia di un uomo normale
Puoi sfuggire al buio. Ma non puoi impedire al buio di cercarti
Fabrizio Giulimondi

venerdì 14 dicembre 2018

“BOHEMIAN RHAPSODY” di BRYAN SINGER: PREMIO OSCAR 2019 COME "MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA" - GOLDEN GLOBE 2019 COME "MIGLIOR FILM DRAMMATICO" E COME "MIGLIOR ATTORE IN UN FILM DRAMMATICO"




Bohemian Rhapsody” di Bryan Singer (Golden Globe 2019 come "Migliore film drammatico") è una nota lunga un film. È il genio musicale, l’istrionismo e la potenza vocale di un uomo. È il dramma umano di un omosessuale, irrefrenabile nel sesso compulsivo orgiastico ma in quotidiana e spasmodica ricerca della donna a cui è stato legato per lungo tempo e che non ha smesso mai di amare. È la negazione delle proprie radici etniche per anelarvi verso la fine. È la solitudine e le folle oceaniche nello stadio di Wembley per il concerto mondiale “Live aid”. È la villa sontuosa con lo sguardo rivolto alla casetta della famiglia. È la possanza di una musica che ha stravolto i canoni sonori e ritmici del rock degli anni ’70. È l’aids e Show must go on.
Sono loro, Gwilym Lee, Ben Hardy, Joseph Mazzello e Rami Malek (Premio Oscar 2019 come "Miglior attore protagonista; Golden Globe 2019 come "Miglior attore in un film drammatico") che mirabilmente incarnano nel corpo e nell’anima Brian May, Roger Taylor, John Deacon…e lui…la star…una voce che si fa melodia e urlo, che la malattia e la morte non hanno certo potuto spegnere: Freddy Mercury.
I Queen.
 Fabrizio Giulimondi



giovedì 6 dicembre 2018

"SE SON ROSE" di e con LEONARDO PIERACCIONI


Leonardo Pieraccioni, ossia l’eterno Peter Pan del cinema italiano, riesce ancora a far sorridere il suo pubblico con un film prenatalizio, “Se son rose”, caratterizzato ancora una volta da una comicità delicata e pulita (similmente a quella di Checco Zalone e Ficarra e Picone), non funestata da indottrinamenti ideologici e politici.
La produzione artistica di Pieraccioni è "buona" e solare, seppur possiede le venature malinconiche che propriamente si addicono all’autentica commedia nostrana. Il comico toscano racconta storie con trame evanescenti ma condite di buoni sentimenti, snocciolate nella maniera ridanciana tipica della tradizione della sua Terra: non vuole impegnare il cervello ma rasserenare famiglie che possono tranquillamente recarsi insieme in una sala cinematografica senza brutte sorprese.
La bellezza dei posti si accompagna a quella delle attrici e al sorriso mesto e giocoso dell’attore-regista. Simpatico l’“auto-plagio” dovuto al richiamo a scene di pellicole precedenti.
Il cast vede volti noti del piccolo e grande schermo (Michela Andreozzi, Elena Cucci, Caterina Murino, Claudia Pandolfi, Gabriella Pession, Antonia Truppo, Nunzia Schiano, Sergio Pierattini), insieme alla presenza della famosa youtuber Mariasole Pollio, già conosciuta agli spettatori televisivi dell’ultima edizione di “Don Matteo”.
Fabrizio Giulimondi



domenica 2 dicembre 2018

“IL SEGRETO DI BENEDETTO XVI. PERCHÉ È ANCORA PAPA” di ANTONIO SOCCI (RIZZOLI): UN OBBLIGO LEGGERLO


Il segreto di Benedetto XVI. Perché è ancora papa
Vi sono libri che vano letti e basta. Vanno letti perché possono indicare un percorso sino ad allora sconosciuto e disvelare verità che si ignorano. La parola può essere profetica e illuminare ciò che si ha dinanzi agli occhi ma che non si riesce a vedere. Parole che penetrano ciò che poco prima si ignorava. Parole che entrano dentro e non abbandonano più la mente, l’anima e il cuore dove si sono depositate.
Antonio Socci è andato oltre verso l’oltre.
Prima “Non è Francesco”.
Poi “La profezia finale”.
E ora un saggio che prego tutti di leggere: “Il segreto di Benedetto XVI. Perché è ancora Papa” (Rizzoli).
L’ 11 febbraio 2013 Papa Benedetto XVI si “dimette” da Pontefice.
Il 28 febbraio 2018, ore 20, entrano in vigore le “dimissioni”.
Il 13 marzo 2018 Jorge Mario Bergoglio viene “eletto” papa, con il nome di Francesco.
Un approfondimento ad ampio respiro del contesto internazionale e della situazione geo-politica globale
Una analisi certosina di documenti privati e pubblici.
Una attenta valutazione di fatti concatenati e comparati fra di loro, per lo più nascosti e puntualmente comprovati.
Uno studio accurato esegetico di scritti a partire dalla famosa Declaratio, con la quale Joseph Ratzinger aprì il Mondo ad una nuova epoca.
Una ricerca profonda ed erudita, giuridica e teologica, del significato di ogni singola parola di epistole e discorsi che mostrano verità ben diverse, radicalmente diverse, da una facile quanto apparente illusione di conoscenza.
Un lavoro quello di Socci condotto con rigore scientifico, in cui anche ogni singola nota deve essere visionata.
Il segreto di Benedetto XVI. Perché è ancora Papa” non l’ho letto, ma studiato, e ora è tempo di meditarlo.
Prego tutti di andare in libreria o di connettervi subito ad internet per acquistarlo.
Fabrizio Giulimondi

sabato 1 dicembre 2018

"EROI-VENTIDUE STORIE DALLA GRANDE GUERRA”, A CURA DI EMANUELE MERLINO, EMANUELE MASTRANGELO ED ENRICO PETRUCCI


Questo è il tempo dell’individualismo, del menefreghismo, del tanto peggio tanto meglio, del mors tua vita mea, del carpe diem, dell’epicureismo sfrenato, del “Che male c’è?”, della negazione della Storia e di un continuum che lega il passato con il presente e il futuro. Questo è il tempo dell’abbandono di qualsiasi visione ultronea, trascendentale, valoriale, epica, eroica, mitologica dell’esistenza umana, l’epoca i cui ogni desiderio diventa un diritto imperativo. Bene, in questo tempo “Eroi-Ventidue storie dalla grande Guerra”, a cura di Emanuele Merlino, Emanuele Mastrangelo ed Enrico Petrucci (Idrovolante edizioni) fa ripercorrere al lettore non un periodo storico ma una lunga emozione attraverso  vicende vere, autentiche, vite vissute, sangue e passione, morte e volontà di vittoria e di redenzione, il coraggio oltre ogni limite di ragazzi e ragazze provenienti da  venti regioni d’Italia, ragazzi e ragazze italiani, giovani, gagliardi, pieni di vita, eguali a tanti, diversi da tanti, che mettono in gioco tutto se stessi per quell’ ”Idea” oggi tanto svillaneggiata e irrisa: Patria.  Racconti partoriti dalla Prima Guerra Mondiale, dalla Grande Guerra, dalla Quarta Guerra d’Indipendenza: 24 maggio 1915 - 4 novembre 1918. L’Italia questo conflitto l’ha vinto. L’Italia lo ha voluto dimenticare. Agli italiani l’hanno fatto dimenticare.
Questo lavoro letterario, venato da una incontrollabile forza emotiva e sentimentale, da un commovente amore patriottico, è un libro-albero, ricamato da venature gonfie della linfa vitale della Memoria, il ricordo di chi ha destinato la propria beve esistenza non al Nulla odierno ma ad un ideale, un ideale che è diventato “Italia”.
Solo in Italia può capitare che la dichiarazione di guerra venga fatta da un poeta. Solo in Italia la poesia si fa arma, il verso si fa gesto, la storia chiama alla Vittoria. Non posso fare altro. Non è facile convincere i miei superiori ma ‘Quando l’Italia è in guerra io devo essere al mio posto’. E parto”.
 Fabrizio Giulimondi

sabato 17 novembre 2018

"RED LAND" ("ROSSO ISTRIA") di MAXIMILIANO HERNANDO BRUNO


Red Land” (“Rosso Istria”) di Maximiliano Hernando Bruno è un film rosso come la bauxite, rosso come la terra d’Istria, rosso come i panorami giuliano-dalmati, rosso come il ciglio di una foiba, rosso come il vestito della “voce narrante”, rosso come il sangue delle giovani ragazze italiane stuprate dai comunisti, rosso come le ferite delle torture inflitte dalla soldataglia slava, rosso come il sangue che ha imbrattato le pareti degli scantinati croati dei tormenti, rosso come le stelle al petto dei titini, rosso come il fazzoletto al collo degli italiani di quelle Terre che, dimentichi di avere dinanzi a loro antichi amici, profonde amiche, e madri e padri e fratelli e sorelle e zie e zii, per la loro feroce e obnubilante  ideologia marxista hanno consegnato amici e amiche e padri e madri e fratelli e sorelle e zie e zii al boia, agli stupratori, ai torturatori, alla bocca del mostro che nella terra ha ingoiato dal 1943 migliaia  di italiani in Istria, a Fiume, nella Dalmazia.
Da una parte lo sguardo limpido di una ragazza dolce e pulita, innamorata, legata alla famiglia e alla Patria, che stava per laurearsi, la cui unica colpa era essere figlia di un innocuo podestà fascista, dall’altra lo sguardo spietato, atono, senza luce, di un comandante titino, la cui faccia malvagia è intrisa di un sorriso perennemente beffardo e terrifico. E poi una lunga, interminabile, agghiacciante, violenza sessuale che taglia l’anima. Norma Cossetto, il volto della dolcezza e della speranza. Norma Cossetto, un indicibile orrore nei suoi occhi. L’avvicinarsi nella foiba che la fagociterà viva. Gli infoibati legati due alla volta da un fil di ferro ma solo uno dei due sarà ucciso con una pallottola. L’altro morirà nell’antro dell’Inferno. A Norma Cossetto è toccata la foiba.
Foibe oscure come decenni e decenni di negazionismo da parte della storiografia ufficiale.
Migliaia e migliaia di italiani sepolti vivi, torturati, stuprati, vilipesi, nella terra rossa giuliano-dalmata.
Gli attori sono formidabili e credo che a Selene Gandini l’impresa interpretativa di ricoprire il ruolo di Norma Cossetto sia costata uno sforzo imponente.
Il ritmo recitativo è di tipo teatrale e solo raramente cineastico e la luce che illumina i personaggi, in molte scene, evoca quella dei dipinti di Caravaggio e Rembrandt.
La cadenza narrativa sin dall’inizio crea uno stato di inquietudine, per divenire poi angoscia e impotenza. Implacabile. Bellissimo. Sconvolgente. Curato in ogni più tragico particolare. Impietoso nel non lasciare nulla all’immaginazione. Radioso nel coraggio di donne e uomini che hanno subito il martirio.
Red Land” è un dovere morale vederlo.
Fabrizio Giulimondi



domenica 11 novembre 2018

"NOTTI MAGICHE" DI PAOLO VIRZÌ


Nonostante il nome altisonante del regista (Paolo Virzì), pur in presenza di un corposissimo cast di attrici e attori di vecchio e nuovo conio che non sto qui ad elencare (con un inspiegabilmente pessimo Giancarlo Giannini che fa molto male il romanaccio), “Notti magiche” (titolo tratto dall’ omonimo brano musicale di Gianna Nannini e Edoardo Bennato), ambientato nell’estate romana dei Mondiali del 1990, è inconcludente, inconsistente, deludente. Tema trito e ritrito: la corruzione morale nella Roma cinematografica, dello spettacolo e della politica. La Città Eterna troneggia solo per la grandiosità delle sue piazze, delle sue strade, viottoli e vicoli, dei suoi androni, palazzi e tetti, per la bellezza della zona di Santa Maria in Trastevere e del Centro storico. Le scene del tutto inutili di sesso punteggiano una trama noiosa e sottolineano una profonda mancanza di idee degli autori della pellicola. Molto bravi gli interpreti dei tre co– protagonisti, quasi neofiti del cinema italiano, Mauro Lamantia, Giovanni Toscano e Irene Vetere, latrice di un volto bello e intenso.
Fabrizio Giulimondi



lunedì 5 novembre 2018

"FIRST MAN"di DAMIEN CHAZELLE


Il 20 luglio 1969 alle 20.18 UTC Neil Armstrong fu il primo uomo a mettere piede sul suolo della Luna. Buzz Aldrin lo seguì subito dopo. Armstrong trascorse due ore e mezza al di fuori della navicella. Un terzo membro della missione, Michael Collins, rimase in orbita lunare, pilotando il modulo che riportò gli astronauti a casa. La missione terminò il 24 luglio con l'ammaraggio nell'Oceano Pacifico.
First man” di Damien Chazelle (produttore esecutivo Steven Spielberg) nei 141 minuti di durata racconta cosa può l’essere umano partendo da una tragedia umana accaduta nei primi anni ’60 ad Amstrong.
E’ un cammino fuori e dentro l’uomo, fuori e dentro la famiglia, fuori e dentro gli spazi dell’universo, fuori e dentro l’Apollo 11, fuori e dentro l’animo umano in ricerca dell’altro da sé, un animo umano in perenne e indomita ricerca.
E’ un film che parla di sfide impossibili che divengono possibili.
Aveva ragione il neoplatonico fiorentino Marsilio Ficino che nel ‘400 disse che l’uomo poteva inabissarsi negli inferi, ma anche innalzarsi ad sidera coeli.
First man”, che ha un illustre antesignano in “Apollo 13” di Ron Howard (1995), fa vivere le violente e insostenibili scosse che percuotono il corpo degli astronauti, il loro malessere fisico, la loro paura principio del loro coraggio, le luci accecanti, il clangore di rumori assordanti…il silenzio…assoluto…lì fuori…fuori dal LEM…la superficie lunare è lì…a portata di uomo…e lo spettatore vive il silenzio assoluto, vive per una manciata di secondi il silenzio del cosmo.
Notevoli tutti gli attori e grande l’interpretazione di Ryan Gosling (Neil Amstrong) e di Claire Foy (sua moglie).
La forza della famiglia, la forza di una moglie e di una madre, nel dramma, nella meta, che non è solo individuale, ma appartiene all’umanità intera.
"One small step for a man, one giant leap for mankind".
Fabrizio Giulimondi




venerdì 2 novembre 2018

"EUFORIA" DI VALERIA GOLINO


Al suo secondo film come regista (il primo è stato l’altrettanto bello “Miele”, successivo ad una esperienza con il corto “Armandino e il Madre”) la brava e di lunga esperienza attrice Valeria Golino, dopo l’eutanasia si cimenta in “Euforia” con i rapporti intimi e tormentati fra familiari e, in particolare, fra fratelli. Indubbiamente è un tema già molto sviscerato dal cinema italiano, ma in quest’opera (che presumibilmente riceverà qualche premio) se ne avverte il tocco femminile.
“Euforia” emotivamente complesso, molto fisico, immerso nella cornice fascinosa del centro di Roma, segue una tecnica cineastica perfetta e la fotografia, con la sua carrellata di immagini del cielo romano percorso da gabbiani e fitti stormi di uccelli, i suoi tetti e le sue terrazze, è estremamente suggestiva. Il sofisticato tratteggio descrittivo degli ambienti interni e tutta la narrazione estetica evoca gli ultimi lavori e capolavori di Paolo Sorrentino.
L’analisi psicologica e caratteriale dei personaggi è oculata e emergono dal coro attoriale (Isabella Ferrari, Jasmine Trinca, Marzia Ubaldi, Valentina Cervi) due oramai impareggiabili interpreti, Riccardo Scamarcio e Valerio Mastrandrea, che ricoprono il ruolo di due fratelli (Matteo e Ettore) nel loro rincorrersi attraendosi e respingendosi, respingendosi e attraendosi.
L’uso dell’alcol, del sesso promiscuo omosessuale, del tabacco, della cocaina e la costante fuga da sentimenti sinceri, solidi e stabili da parte di Matteo, non risolvono ma aggravano il dolore per il dramma presente e il “non detto” e l’imponderabile passato. A fronte del dinamismo di Matteo v’è la scultorea, tragica solitudine di Ettore, afflitto da molti sentimenti contrastanti fra di loro, incapace di esternarli alla moglie, al figlio e alle antiche ed attuali “fiamme”. Inutile, sfuggente quanto superficiale la ricerca del miracolo attraverso una improvvisata ricerca di spiritualità e del sacro durante un subitaneo e improvvido viaggio a Medjiugorje. Le evocazioni di affetti più profondi appaiono come tenui braci sotto una densa coltre di cenere, tranne quella dei fratelli, che cresce sempre più prepotentemente lungo tutto lo sviluppo della storia per sciogliersi in un abbraccio finale.
Fabrizio Giulimondi



domenica 28 ottobre 2018

“L'ANNO DEI TRE PAPI. PAOLO VI, GIOVANNI PAOLO I, GIOVANNI PAOLO II” di ORAZIO LA ROCCA, PREFAZIONE di MONS. RINO FISICHELLA (SAN PAOLO)


L'anno dei tre papi. Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II” di Orazio La Rocca, prefazione di mons. Rino Fisichella (San Paolo), disamina un anno particolare, il 1978, che vide nell’arco di poche settimane la morte di (san) Papa Paolo VI (6 agosto), l’elezione a Pontefice di Giovanni Paolo I (26 agosto), la sua prematura morte il 28 settembre e l’elezione del monumentale Karol Wojtyła al Soglio Pontificio divenendo (San) Papa Giovanni Paolo II (16 ottobre).
Un anno extra ordinem che viene raccontato con dovizia di particolari in modo quasi pedante, ossessivamente appesantito da moltitudini di particolari, rendendo più volte la lettura un poco faticosa, intabarrata in una forsennata indicazione di date, nomi, cariche, incarichi, ruoli, nascondendo la vera narrazione sulle opere dei tre Pontefici. Il libro ha due co - protagonisti, Paolo VI e Giovanni Paolo I, e lascia solo alle ultime pagine il Papa polacco (ventisette anni di pontificato), scelta che lascia titubanti (l'immagine di copertina può trarre in inganno).
La lente ideologicamente orientata dell’Autore svilisce i primi due, spostando Papa Luciani verso dimensioni politiche a lui invero assolutamente aliene, la cui morte è solo fintamente fatta credere naturale mentre l’Autore nutre (eccome!) dubbi (in realtà assolutamente infondati vista la fragilità fisica del “Papa del sorriso” e le enormi preoccupazioni e gravosità degli impegni più volte da lui stessi denunciati).
Medesimi concetti, pensieri e idee vengono ripetuti sino a far perdere loro vigore e depauperandoli della loro iniziale giusta importanza. I trentatré giorni di papato di Giovanni Paolo I sono andati oltre il sorriso che gli incorniciava il volto. L’Autore sembra scusarsi ogniqualvolta riporti un aneddoto che mostri il lato conservatore dei due Successori di Pietro, sentendosi in dovere di controbilanciare la ferale notizia con altre informazioni che smussino la precedente. Anche per il notorio e ferreo anticomunismo di Wojtyla lo Scrittore si affretta a precisare che era stato prima duro avversario del nazionalsocialismo.
Peccato! Un’ occasione mancata in quanto l’anno 1978 è stato veramente straordinario e bisognevole di un rigoroso e scientifico approfondimento, vista anche l’immensa caratura dei tre “Uomini di bianco vestiti”.
Fabrizio Giulimondi

venerdì 26 ottobre 2018

FABRIZIO GIULIMONDI: "ASPETTI DELLA FILOSOFIA APPLICATI AI CAMPI DELLA POLITICA E DELL’ECONOMIA"

l rapporto fra economia e politica è indubbiamente vicendevole, essendo essi settori di vita pubblica e sociale che si auto influenzano. Gioca, invece, un ruolo “pivotale” il concetto di filosofia, capace di influenzare tanto l’economia quanto la politica, e arrivando ad incidere sulle scelte di fondo nel campo dell’una e dell’altra. L’esito ultimo finisce per ripercuotersi sulla definizione delle scelte di politica pubblica, sui temi di policy rilevanti ed anche, inutile nasconderlo, sul modo che gli attori istituzionali politici ed economici hanno di esercitare tali funzioni. Non stupisce l’attinenza tra lo svuotamento della dimensione valoriale che attanaglia il nostro presente, i numerosi scandali che sconquassano il rapporto tra pubblici poteri e attori economici e il macro problema che tutto ciò comporta all’interno della sfera dell’etica pubblica.
Economia è un termine greco, composto dai due sostantivi oikos (casa) e nomos (regola, governo). Il “governo della casa” rinvia all’idea di una buona amministrazione, e quindi del corretto uso delle risorse disponibili. Il significato primario di economia non contiene dunque un immediato richiamo filosofico ma rimanda al concetto di efficienza, ossia a un principio di razionalità strumentale (rapporto mezzi/fini) pure storicamente centrale per l’economia.  Il termine “casa” può assumere diversi significati, che vanno dal nucleo domestico e familiare fino all’ azienda, per arrivare alla polìs. Nell’antichità il termine economia rimandava ad una scienza normativa che prevedeva il “vivere bene dentro l’oikos”. La “crematistica”, invece, indicava l’arte dell’accumulare ricchezza. Gli antichi tennero particolarmente a cuore tale distinzione, che permetteva di non identificare il campo della crematistica con l’intero campo sociale. La differenziazione dei due concetti, così marcata nell’epoca antica, finì per essere costantemente compressa nel corso dei secoli, tanto che l’economia politica moderna nacque nel 1700 con Adam Smith esattamente grazie all’unificazione dei concetti di economia e crematistica.
Ma altri aspetti del sapere economico, che oggi riteniamo attuale, affondano le proprie radici nel pensiero antico. Il tema dello scambio, che anticipava l’utilizzo di moneta, fu al centro della creazione della logica di mercato. Il tema dello scambio, del mercato, della moneta rappresentarono la prima forma di giustizia, che Aristotele chiamava commutativa e che distingueva dalla giustizia distributiva. Ogni volta che riceviamo qualcosa questo crea in noi l’obbligo a ricambiare. Ciò fa sì che in ogni società il ricambio avvenga con qualcosa di fisicamente diverso, ma in qualche modo equivalente, a quanto ricevuto. Nasceva, di fatto, la concezione del valore economico e la moneta diventa(va) lo strumento di misura degli equivalenti. La giustizia commutativa anticipò, e di molto, l’idea di concorrenza, stabilendo una sorta di “democrazia economica”. Naturalmente non era facile, e del resto non lo è tutt’ora, realizzare la giustizia commutativa attraverso il regime di concorrenza: le alterazioni della concorrenza erano comunissime, sino all’estremo della condizione di monopolio, che per Aristotele rappresentava il massimo esempio di violazione della medesima giustizia commutativa. La disciplina economica nasceva, dunque, su basi filosofiche, addirittura normative. Siamo nell’ambito di una disciplina morale, il cui fine è la realizzazione della giustizia, quanto meno da Platone e da Aristotele in poi.
Mentre la giustizia commutativa era l’equivalenza nello scambio, la giustizia distributiva mirava ad un’equilibrata proporzione nella distribuzione dei beni, anticipando ciò che oggi noi chiamiamo giustizia sociale. In epoca moderna, la distinzione tra economia e crematistica finì per ridimensionarsi sempre più e la ricchezza divenne misura crescente della felicità. Conviene qui ricordare subito che la massima opera di Adam Smith, del 1776, riguardava la ricchezza stessa. Il titolo completo dell’opera di Smith è Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Oggetto dell’economia per i moderni divenne anzitutto il sistema economico, piuttosto che il singolo individuo. Occorreva stabilire la natura della ricchezza (ossia cosa fosse la ricchezza) e, su questa base, sviluppare un’eziologia della ricchezza stessa (la ricerca delle sue cause). In epoca moderna la ricchezza iniziò ad avere al centro del suo interesse lo studio della dinamica della ricchezza, con l’indagine sulle cause della sua formazione e della sua “esportabilità”. La modernità, non a caso, fu l’epoca della formazione degli Stati nazionali, con un processo storico che portò in evidenza il valore politico della ricchezza delle nazioni. Accanto alle armi e alla diplomazia, la ricchezza gradualmente emerse come fattore spesso pragmaticamente decisivo di potere politico. Le scuole di pensiero economico che si succederanno nel corso dell’epoca moderna si divideranno, infatti, proprio sulla natura della ricchezza, e finiranno per legarsi storicamente all’esercizio del potere politico del proprio tempo.
La prima concezione della ricchezza, sviluppata dalla scuola mercantilista (tra il 1500 e il 1700), è quella dell’accumulazione di denaro come misura della ricchezza di un sistema statuale e, quindi, come parametro della sua forza sullo scacchiere internazionale. Proprio del valore del denaro e dei beni, in relazione alla loro diffusione sul mercato, si occuparono numerosi autori, come Potter, Asgill, Cary e Davenant. Furono tra i primi a sostenere l’adozione monete cartacee, sotto forma di banconota, proprio per separare il valore del metallo delle monete dal valore comunemente assegnato al denaro quale parametro comune di scambio, suggerendo che la maggiore rapidità di scambio delle monete cartacee avrebbe favorito l’industria e il commercio. In generale, la scuola mercantilista assegnò grande attenzione alla bilancia dei pagamenti degli Stati, vale a dire lo strumento che registra ancora oggi il saldo del dare e avere di un sistema statuale rispetto all’estero, ritenendo tale via l’unica possibile per la misurazione dell’espansione o della diminuzione della massa monetaria di un sistema statuale e, dunque, il suo stato di salute.
La scuola mercantilista indurrà a una mentalità capace di diffondersi gradualmente e rapidamente, che privilegerà non solo il denaro in sé in quanto misura di salubrità di un dato sistema economico, ma che influenzerà i temi del credito prima e della finanza poi. L’obiettivo dell’economia sarà quello di accrescere il valore delle attività monetarie, tanto di quelle creditizie che di quelle finanziarie. La finanza rappresenterà uno step successivo, e avverrà con la cartolarizzazione dei rapporti di debito e credito. Il credito (con il corrispondente debito) non sarà più semplicemente il rapporto tra un soggetto identificabile e un’istituzione creditizia, ma si tradurrà in un prodotto finanziario negoziabile, e quindi in un titolo di credito a tutti gli effetti. Il periodo mercantilista, non a caso, fu l’epoca della nascita delle grandi istituzioni finanziarie del capitalismo moderno. Intuizioni quali i mercati finanziari, i debiti pubblici e le banche centrali appartengono esattamente a questa fase. Il mercantilismo, in sintesi, divenne il frutto più maturo di quella mentalità pragmatica e dirigista che caratterizzò la tarda età dell’assolutismo e che poco si curava delle sottigliezze della giustizia commutativa o della giustizia in genere. Tale mentalità finì per propugnare una prassi politica ontologicamente nuova, che trovò il suo alveo politico naturale nella formazione dei moderni Stati nazionali ma che ebbe nella graduale migrazione da un’economia prettamente aristocratica e terriera ad una tipicamente borghese e industriale la sua manifestazione teoretica più piena. Il protezionismo che produsse finì per esaltare gli aspetti monetari e finanziari della vita economica, segnando la cesura definitiva tra l’epoca antica e quella moderna.
Largamente francese è la reazione al mercantilismo che si sviluppa sin dagli anni venti del Settecento, per poi crescere impetuosamente attorno alla metà del secolo XVIII, e che prese il nome di scuola fisiocratica. La fisiocrazia aveva per obiettivo il recupero di una concezione della vita economica frutto della speculazione intellettuale, e non appannaggio esclusivo di banchieri e creditori. Il nome di fisiocrazia evocava, già di per sé, il richiamo al dominio della natura. I fisiòcrati, infatti, si richiamavano al diritto di natura e promuovevano la concorrenza quale mezzo di accrescimento della ricchezza, finendo per criticare l’imposizione di dazi e di imposte indirette. L’approdo ultimo finì così per essere la critica feroce della concezione monetaria e finanziaria della ricchezza propugnata dal mercantilismo. Moneta e finanza non potevano essere più, a patto che lo fossero mai stati, i parametri esclusivi della ricchezza di uno Stato. Al massimo, potevano essere strumenti utili per la promozione di ricchezza, ma a patto che tale ricchezza fosse misurabile in termini reali, ossia di beni materiali prodotti. Nel celebre Tableau économique del 1758 del grande maestro della Fisiocrazìa, François Quesnay, la moneta veniva messa all’angolo e ridotta a mero strumento di circolazione. L’accumulazione della ricchezza, per Quesnay, dipendeva dalla capacità di un sistema paese di produrre prodotto netto, ossia di produrre un avanzo di prodotto a seguito dell’accantonamento delle risorse utilizzate per la produzione stessa. Non da altro. Per i fisiòcrati il solo settore economico capace di produrre prodotto netto era e rimaneva l’agricoltura. Rovesciando le parti rispetto alla concezione mercantilista, i fisiòcrati finirono per esaltare l’agricoltura come settore produttivo per eccellenza e per prendere le distanze dalla manifattura, “sterile”, a loro avviso, perché incapace di creare prodotto netto.
Questa piccola sistematizzazione delle correnti economiche nell’Occidente moderno non può che portarci al pensiero di Adam Smith, grazie al quale l’economia politica nel ‘700 ebbe il suo grande momento di gloria. Caratteristica specifica delle analisi di Smith fu il peso e il rilievo che egli attribuì al concetto di “simpatia”. Nel sistema di Smith il dato antropologico di fondo fu costituito dalla capacità dell’uomo di condividere, attraverso l’immaginazione, i sentimenti dei suoi simili, sviluppando una capacità di immedesimazione. Nessuna delle specie animali ha una simile capacità. Dalla simpatia, dall’immedesimazione, scaturirebbero non solo regole morali di comportamento ma anche l’origine stessa dello scambio nella vita associata. La coscienza morale, per Smith, finirebbe per non risponde più ad un principio razionale interiore, ma, scaturendo dal rapporto simpatetico che l'uomo ha con gli altri uomini, presenterebbe un carattere prevalentemente sociale. Le stesse norme sociali non possono che spingere verso modelli di solidarietà e integrazione sociale.
In quest'ottica, ad esempio, il diritto di proprietà non è un diritto naturale, come l'intendeva John Locke, e per questo anteriore ad ogni convenzione sociale, né un artifizio storico come sostenuto da Hume, ma il risultato di un processo speculare di simpatia e socializzazione che giustifica ad esempio la proprietà in quanto possesso di un oggetto, frutto legittimo di un lavoro personale, che se fosse espropriato, implicherebbe un giudizio negativo dell'uno sull'altro.
Riprendendo la riflessione di Smith, anche il Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz sottolinea più volte come sia rilevante anche oggi, a livello antropologico ed economico, il concetto di simpatia, il cui compito è quello di non cedere ad una politica astratta caratterizzata dalla perdita di contatto da parte degli attori politici con le realtà sociali circostanti ma tendere ad un miglioramento concreto e continuo delle condizioni di vita economiche e sociali. Il politico e l’economista sono coloro che ragionano, proprio come il filosofo, su una realtà sociale già costituita al fine di arricchirla e perfezionarla, apportando nella società un contributo diretto e condiviso che miri ad un beneficio reale delle persone.
E’ da queste premesse che nascerà una nuova concezione della ricchezza, proposta già da Smith dopo aver criticato le nozioni delle due scuole precedenti (quella mercantilista e quella fisiocratica). La ricchezza, a partire da Smith, diviene il frutto dell’intensificarsi della relazionalità umana attraverso lo scambio. Lo scambio quale altra faccia della divisione del lavoro che, secondo Smith, resta la principale causa del progresso e dell’accumulazione della ricchezza. La divisione del lavoro a sua volta trova, per Smith, la sua applicazione caratteristica nella manifattura (espressione paradigmatica dell’apogeo borghese fin ad allora politicamente sotto-rappresentato), così che anche da questo punto di vista lo schema fisiocratico arrivi ad essere sovvertito.
Il frutto avvelenato di tale concezione, di certo illuminata nella sua incredibile capacità di analisi e lettura della società nel suo divenire, fu un il laissez faire che condizionerà gli aspetti teorici e pratici dell’economia politica per tutto l’800, fino ai primi decenni del Novecento. Complice la crisi economica di sistema che attanaglierà il settore produttivo statunitense tra le due guerre mondiali, l’avvento di John Maynard Keynes cambierà radicalmente i parametri teorici fino ad allora caratterizzati da dogmatici assiomi. Primo, fra tutti, lasciare libero il mercato di regolarsi e di regolare la vita sociale. L'asse portante della teoria macroeconomica dell'economista inglese sarà, invece, l’eliminazione dell’instabilità del mercato e delle diseguaglianze economiche e sociali per realizzare “una buona vita e una buona società”.
Fautore della piena occupazione, che non coincide con la crescita economica illimitata ma con l'equa ripartizione del lavoro e dei redditi, Keynes è stato ridotto, negli anni,  all'assunto che la causa della disoccupazione risieda nella rigidità dei salari monetari. Al contrario, è l'assenza e l’imprevedibilità della domanda, sosteneva Keynes, a causare l'instabilità del mercato. Il che, si badi bene, è in diretta opposizione alla tesi degli economisti neoclassici secondo cui l'offerta generi la sua domanda e il sistema di mercato si autoregoli.
Dalla Teoria generale prese avvio quella che è stata chiamata la “rivoluzione keynesiana”. Fedele alla sua idea di fondo che gli economisti dovessero mirare a scrivere cose utili, Keynes si propose di superare le profonde differenze di opinioni fra gli economisti, colpevoli di aver distrutto l’influenza pratica della teoria economica. Ossia, incapaci di generare ricchezza e benessere. Proprio tale appello agli economisti, affinché si sforzassero di uscire dal campo ristretto delle formulazioni astratte, specialmente quelle di carattere matematico, per “sporcarsi le mani” con i fatti e con le passioni politiche degli uomini spiega il fascino straordinario che Keynes esercitò sugli economisti del suo tempo, e in particolare su quelli più giovani. Fascino che divenne irresistibile quando l’aumento apparentemente inarrestabile della disoccupazione e della povertà, seguito al crollo di Wall Street del 1929, rese palese l’inservibilità delle teorie economiche tradizionali di fronte a fatti straordinari. La forza del messaggio di Keynes fu quella di offrire una spiegazione convincente delle cause della crisi, accompagnata dal rifiuto morale di rassegnarsi davanti ai problemi della società, ricercando al contempo risposte credibili e sperimentabili.
Per i primi trent’anni del secondo dopoguerra è sembrato che l’interpretazione keynesiana del funzionamento delle economie capitalistiche fosse fissata una volta per tutte e che le relative implicazioni, dal punto di vista della politica economica, fossero solide e indiscutibili. Poi, dalla metà degli anni settanta del secolo scorso, la rivoluzione keynesiana ha perso rapidamente mordente e vigore, e sono ritornate in auge, pur se confezionate in forme apparentemente nuove, le idee che la Teoria generale aveva spazzato via. Un ritorno al passato che ha fatto sì che la scienza economica perdesse nuovamente di vista, nel prevalere dei modelli formali, la sua vera ragion d’essere, ossia quella di contribuire a risolvere i problemi dell’umanità.
A partire dal 2007/2008 il crollo del mercato dei subprime negli Stati Uniti, l’ondata dei fallimenti bancari, l’improvviso venir meno dei canali di circolazione della moneta, il diffondersi della crisi in tutto il mondo e il panico evidente dei governi e delle istituzioni internazionali hanno incrinato le certezze della teoria economica dominante, di cui si erano nutriti il mondo accademico e i governi. Per molti decenni il discrimine fra destra e sinistra era stato segnato dal giudizio di fondo sull’assetto finale che avrebbe dovuto avere il sistema economico dal punto di vista del controllo sui mezzi della produzione. Da un lato i sostenitori del capitalismo, dall’altro i sostenitori della necessità di una radicale trasformazione delle basi stesse del sistema economico nel senso del socialismo. La caduta del Muro di Berlino, la venuta meno di un intero mondo valoriale ed economico quale quello della galassia sovietica, avevano fatto ritenere che la “fine della Storia” teorizzata da Francis Fukuyama, ossia l’apice del processo di evoluzione sociale, economica e politica dell'umanità raggiunto alla fine del Ventesimo Secolo, fosse più di una ammaliante suggestione. Oggi, venuta meno l’alternativa radicale fra capitalismo e socialismo, il discrimine fra destra e sinistra è finito per porsi all’interno stesso del mondo capitalistico. La luce accesa su zone d’ombra per troppo tempo dimenticate, ha finito per scoperchiare antinomie non più riconducili a soluzioni di piccolo cabotaggio. I soggetti politici, dinanzi a tassi elevatissimi di disoccupazione e ad ineguaglianze sociali sempre più accentuate, hanno titolo per ingaggiare una battaglia volta a cambiare le leggi e la filosofia delle istituzioni economiche dominanti, avendo, nelle politiche keynesiane, il più forte e organico complesso di proposte programmatiche. Il caso dell’Unione Europea, e della crisi politica, economica e monetaria che attanaglia la vecchia Europa, ne rappresenterebbe il miglior caso di scuola possibile.
Da oltre duemila anni l’economia si affanna, dunque, attorno alla compatibilità tra giustizia commutativa e giustizia distributiva. La linea prevalente negli ultimi anni ha privilegiato una concezione piuttosto radicale del mercato concorrenziale, accompagnata dalla diffusa convinzione che la giustizia distributiva rappresenti un prodotto congiunto rispetto alla promozione della giustizia commutativa. Questo ha condotto ad un’ enorme sottovalutazione delle analisi sulla distribuzione della ricchezza e del reddito, in contrasto con una realtà fatta dalla crescente e smisurata diseguaglianza. Di qui la vastissima eco ottenuta dal recente volume in tema di distribuzione della ricchezza e del reddito, dell’economista francese Thomas Piketty, che ha colpito nel segno riportando energicamente alla ribalta proprio la teoria della distribuzione. Ne è derivato una decisa rivalutazione del pensiero keyensiano, capace di porre su basi nuovamente dialettiche le azioni del decisore pubblico nel contesto macro economico con il rilancio dell’economia reale, soprattutto in tempo di stagnazione economica e di crisi occupazionale. Non meno interessante è la riflessione dell’intellettuale contemporaneo Slavoj Žižek, il quale rileva come sia sempre più contingente il ruolo dell’etica e il suo rapporto con l’economia e la politica. Se non si riabilita la dimensione centrale della politica, gli uomini del nostro tempo, secolarizzati e post ideologici, si troveranno sempre di più in una condizione di “deficit di senso”, compensata nella banale attività di consumo. Žižek coglie, a tal proposito, due processi preoccupanti, uno collettivo e socio-politico, l’altro individuale. Da una parte, infatti, la politica sembra aver perso ogni riferimento ideale per ridursi a mera pratica di governance, accanto a forme di spettacolarizzazione e derive populiste; dall’altra, gli individui sembrano muoversi in una completa assenza di senso, travolti da relativismo e nichilismo, in un “deserto del reale” che li condanna agli imperativi e a i divieti imposti non più dalla società ma dalla propria soggettività, ormai piegata alle logiche del dover godere, dell’eccesso e del mero consumo. Il suo è un discorso etico-politico, perché insiste su un punto fondamentale, ossia sulla responsabilità non solo di compiere il nostro dovere o di lavorare per il bene, ma di decidere cos’è il bene e di come realizzarlo nella società attuale.
Pur rifuggendo da ogni imperativo etico, che assegni allo Stato il compito di decidere della sfera individuale di ognuno, andando ben oltre le mutue concessioni contrattualistiche dello Stato moderno, è però a mio avviso indispensabile il recupero di una dimensione morale della sfera pubblica, che si sostanzi anche nel coraggio di adoperarsi per le idee che si ritengono giuste e adeguate ai problemi cui porre soluzione. Se di rapporto tra economia, politica e filosofia si deve parlare, una tale dimensione appare essere la pietra angolare da cui ricostruire l’edificio sociale all’interno del quale siamo tutti, indistintamente, costretti a vivere e a operare.

Fabrizio Giulimondi 




mercoledì 17 ottobre 2018

“LA RAGAZZA SBAGLIATA” di GIAMPAOLO SIMI (SELLERIO EDITORE, 2017)


La ragazza sbagliata” di Giampaolo Simi (Sellerio editore, 2017) è un giallo (classificazione che, però, può stargli un poco stretta) scritto con stile morbido e che procede placidamente con pochi colpi di scena. Gradevole, si fa seguire, anche se le (troppe) infarciture politicamente orientate possono risultare inutili ai fini della narrazione, costringendo a chi la pensa diversamente a mantenere un atteggiamento di riserbo e distacco che non giova certamente alla riuscita della lettura.
Fabrizio Giulimondi

martedì 16 ottobre 2018

“RICCHI DI FANTASIA” di FRANCESCO MICCICHÈ


Ricchi di fantasia” di Francesco Miccichè si inserisce abbondantemente nella più classica commedia italiana e il cast di attori e attrici lo dimostra ampliamente: a Sergio Castellitto e Sabrina Ferilli si affiancano altri volti noti del cinema italico come Valeria Fabrizi, Matilde Gioli, Antonio Catania, Antonella Attili, Paola Tiziana Cruciani e Paolo Calabresi.
Fra passeggiate romane e bellezze pugliesi la storia si snoda fra il ridanciano e il preoccupato, fra il detto e il non detto, perché non c’è miglior modo di dire qualche cosa di vero se non buttandola a ridere.
Fabrizio Giulimondi



lunedì 8 ottobre 2018

"M.IL FIGLIO DEL SECOLO" di ANTONIO SCURATI (BOMPIANI)


Alla mole titanica di saggi, monografie e studi sul fascismo e su Mussolini si aggiunge da qualche settimana “M. Il figlio del secolo” di Antonio Scurati (Bompiani), scrittore molto prolifico, già vincitore e frequentatore di Premi letterari di qualità e importanza al pari dello Strega e del Campiello.
L’avventura che Scurati ha intrapreso - e che pari non termini con questo libro -  consiste nell’indagine sul fascismo e sul suo ideatore, ripercorrendo gli anni dal 23 marzo 1919 (nascita dei Fasci di Combattimento) al 3 gennaio 1925 (inizio della vera e propria dittatura), con l’uso della forma del romanzo.
M. Il figlio del secolo” è un romanzo storico non come è stato avvertito dai più sino ad ora, bensì un romanzo che si snoda lungo avvenimenti, personaggi e dialoghi, tutti rigorosamente comprovati e corroborati da documentazione storica, scritta e testimoniale.
Lo stile è piacevole e scorrevole, il linguaggio asciutto e privo di retorica, anche se ogni vocabolo trattiene a stento la passione provata dall’Autore. Non v’è enfasi e alcun sentore epico e lo Scrittore si tiene lontano da vecchi canoni infarciti della tralatizia retorica dicotomica fascismo-antifascismo (pur rimanendo egli fermo sulle proprie posizioni apertamente di Sinistra), sforzandosi di mantenere una equidistanza dai fatti che, da soli, debbono essere in grado di interloquire con il lettore.
Il romanzo si snoda lungo una carreggiata fatta di dovizia di particolari perché sono questi a dare forma compiuta al mosaico della Storia: ogni particolare, anche apparentemente ininfluente, insipido e anonimo, conforma, staglia, insaporisce, delinea e configura i contorni e l”‘in sé” di Benito Mussolini e della sua creatura, il fascismo. L’analisi è chirurgica. Lo studio realizzato con il microscopio. Aneddoti ed episodi fungono da materiale organico da dissezionare con il bisturi del metodo storiografico e penetrare con l’occhio del romanziere. A differenza di tanti altri scritti su analogo argomento, Scurati con l’onestà intellettuale dello studioso evidenzia più di una volta la differenza fra la truce, prolungata e tracotante violenza compiuta dalle camice nere, e gli stermini posti in essere nello stesso periodo nella Russia totalitaria comunista-leninista.
Seppur il paragone possa risultare ardito – e me ne scuso -  mi chiedo se, parimenti al regista Paolo Sorrentino che con il suo lavoro cinematografico “Loro” ha cercato di sminuire e ridicolizzare l’immagine di Silvio Berlusconi, invece ingigantendola, Antonio Scurati contra suam  voluntatem  non irradi quel periodo buio di una luce che possa affascinare i giustamente molti lettori di questa bell’opera.
La domanda che il lettore ha l’obbligo di porsi, insieme a coloro che, errando, non leggeranno “M. Il figlio del secolo”, è come mai anche Antonio Scurati si sia mosso a confrontarsi con la presenza di Benito Mussolini, fondatore e Duce del Fascismo, Presidente del Consiglio della Monarchia italiana per poi divenire Primo Ministro e Dittatore d’Italia, amato da moltissimi sudditi di Sua Maestà Vittorio Emanuele III di Savoia – entusiasmo brutalmente cessato dopo l’alleanza con il nazismo hitleriano -,  dalla Chiesa di Papa Pio XI e da Capi Governo liberali stranieri come Winston Churchill?
Fabrizio Giulimondi

mercoledì 3 ottobre 2018

"L'AMICA GENIALE" DI SAVERIO COSTANZO, TRATTO DALL'OMONIMO ROMANZO DI ELENA FERRANTE


L’amica geniale” di Saverio Costanzo è film di possente bellezza narrativa, estetica, interpretativa, espressiva, emozionale, tratto dal primo romanzo della tetralogia “L’amica geniale” della mitologica Elena Ferrante, una delle più straordinarie scrittrici italiane conosciute al Mondo e che è entrata nella galassia letteraria statunitense.
Le due giovanissime attrici che ricoprono il ruolo delle protagoniste, Lulù (Elisa del Genio) e Lila (Ludovica Nasti) sono mozzafiato.
Fabrizio Giulimondi




martedì 2 ottobre 2018

...TUTTI NOI CERCHIAMO "LA GRANDE BELLEZZA"...


La grande bellezza Cinematographe
“Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla. Bla. Bla. Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco"
Jep Gambardella

lunedì 24 settembre 2018

“CI VEDIAMO A CASA. LA FAMIGLIA E ALTRI MERAVIGLIOSI DISASTRI” di GIGI DE PALO e ANNA CHIARA GAMBINI (SPERLING & KUPFER)


Ci vediamo a casa di [De Palo, Gigi, Gambini, Anna Chiara]
Ci vediamo a casa. La famiglia e altri meravigliosi disastri” di Gigi De Palo e Anna Chiara Gambini (Sperling & Kupfer)
L'allegria di un'ammucchiata sul lettone la domenica mattina. L'emozione di ascoltare il respiro di un bimbo che dorme e di annusare il suo odore. Il cuore che batte all'impazzata in attesa del risultato di un altro test di gravidanza. Le risate per una puzzetta. La baraonda intorno al tavolo della colazione e la corsa per non fare tardi a scuola. La quotidianità di una famiglia numerosa è fatta di questi e tanti altri momenti di straordinaria normalità, che Gigi e Anna Chiara sanno raccontare con spontaneità, disincanto, tenerezza e una buona dose di sano umorismo. Dal loro amore sono nati quattro figli (più uno, venuto al mondo proprio mentre questo libro andava in stampa!), e con ciascuno di loro la meraviglia e la sfida di essere genitori si sono rinnovate. Ma anche la stanchezza che mette a dura prova il rapporto di coppia, la fatica di far quadrare i conti alla fine del mese, i dubbi e le ansie per il futuro, le battutine e le frasi fatte della gente che ti incontra per strada con una piccola tribù al seguito. Ci vediamo a casa è sia un romanzo divertentissimo, sia un toccante diario intimo. È il ritratto a due voci della vita di una famiglia, senza filtri rosa e senza la pretesa di fornire ricette, perché ricette non ce ne sono… Se non l'amore e la voglia di mettersi in gioco ogni giorno.”.
(cit. recensione da Amazon)

Dopo che buona parte della letteratura e del cinema impegnano il loro tempo a demolire la famiglia, Gigi De Palo e la moglie Anna Chiara Gambini, per il tramite di “Ci vediamo a casa. La famiglia e altri meravigliosi disastri”, mostrano a noi tutti la sua bellezza, una bellezza fatta di carne e sangue, vita vissuta, quotidianità vera, lacrime che vengono sempre asciugate da sorrisi, una bellezza che accetta con gioia il quinto figlio – oggi di sei mesi – con la sindrome di down, un bambino bellissimo, “la carezza di Dio”.
Fabrizio Giulimondi

venerdì 14 settembre 2018

"NEL TEMPO DELL’INGANNO UNIVERSALE DIRE LA VERITÀ È UN ATTO RIVOLUZIONARIO" (GEORGE ORWELL)


chesterton
Le idee sono pericolose, ma l’uomo per cui sono più pericolose, è l’uomo senza idee… C’è un solo modo di proteggerci veramente contro l’eccessivo pericolo che rappresentano, ed è quello di essere imbevuti di filosofia e saturi di religione” … “Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate”.
Gilbert K. Chesterton

venerdì 7 settembre 2018

FABRIZIO GIULIMONDI: "VIGILANZA DINAMICA: COSI' NON VA!"


Risultati immagini per VIGILANZA DINAMICA IMMAGINI
La graduale introduzione del sistema di “vigilanza dinamica”, di fatto, prevede che i detenuti siano aperti almeno 8 ore al giorno, si autogestiscano e siano impegnati in attività lavorative e trattamentali.
Nel corso del tempo si è avuto modo di riscontrare che tale sistema, però, non abbia sortito i risultati auspicati.
In circa il 95% degli Istituti penitenziari italiani è stato applicato tale sistema di vigilanza, o meglio, è stato garantita l’apertura delle celle per almeno 8 ore al giorno.
Tale ultima precisazione è necessaria in quanto nella stragrande maggioranza degli Istituti che gestiscono i detenuti a regime penitenziario aperto, gli stessi, non sono impegnati in alcuna attività lavorativa ma stazionano nei corridoi delle Sezioni detentive a far nulla.
Si è avuto modo di constatare, altresì, una graduale diminuzione del livello di vigilanza da parte del Personale di Polizia penitenziaria che, anche in considerazione della vetustà delle strutture penitenziarie e la difficoltà nell’investire per l’adeguamento sia strutturale che tecnologico delle strutture penitenziarie, ha inevitabilmente causato un incremento delle evasioni e un’esponenziale aumento delle aggressioni da parte di detenuti nei confronti del personale di Polizia Penitenziaria che dal 2015 ad oggi sono aumentate di circa il 15% all’anno.
Sempre per ciò che concerne la gestione del detenuto nell’ambito delle sezioni, un incremento pari al 15/16% si è avuto anche per ciò che concerne gli atti di autolesionismo, tentati suicidi, colluttazioni e ferimenti con, in alcuni casi, la costituzione di vere e proprie bande di ristretti organizzate per assumere mediante atteggiamenti violenti la supremazia ed il controllo sulla restante popolazione detenuta.
Ciò posto si ritiene di dover osservare che il nostro sistema penitenziario non sembra essere pronto al sistema di vigilanza in questione.
Ben vengano le innovazioni ma, le stesse, devono necessariamente garantire sia la sicurezza sociale che le aspettative delle persone detenute.
Quanto sopra denota che vi è un limite nella individuazione dei soggetti che possono essere gestiti con modalità aperte sia in ragione del titolo di reato ascritto sia, e principalmente, per il comportamento serbato in ambiente penitenziario che qualora ritenuto “non corretto”, non possono non essere oggetto di modalità custodiali più rigorose e di una assidua sorveglianza.

CONCLUSIONI
Obiettivo primario dell’Amministrazione Penitenziaria, dovrebbe essere che ogni istituto penitenziario possa avere la possibilità di gestire la popolazione detenuta, a custodia aperta e a custodia chiusa, ferma restando la possibilità, per coloro i quali sono gestiti a “custodia chiusa”, di revisionare nel tempo il giudizio di pericolosità e il conseguente transito dalla custodia chiusa alla “custodia aperta” a mo’ di concessione premiale e viceversa.
Fabrizio Giulimondi
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