mercoledì 31 gennaio 2018

"IL LUOGO DELLE REGOLE. RIFLESSIONI SUL PROCESSO CIVILE ROMANO" DI ANTONIO PALMA (G.GIAPPICHELLI EDITORE)




Le riflessioni che Antonio Palma elabora nel suo ultimo volume costituiscono lo sviluppo di ricerche che l’insigne Studioso ha da tempo intrapreso sul processo civile romano. Ma – come abbiamo sentito dalle parole degli autorevoli relatori che mi hanno preceduto – non coglierebbe nel segno chi presumesse di trovarsi di fronte all’ennesima indagine storica. Lo studio del Professore Palma mostra, infatti, un amplio respiro che si articola attraverso eterogenei snodi problematici di profondo interesse, non solo per gli storici del diritto ma, altresì, per la più vasta comunità dei cultori della teoria generale del processo.
D’altronde, Antonio Palma, tenendo un atteggiamento pioneristico, ha da sempre concentrato la propria analisi su argomenti utili ad aprire suggestivi scenari su aspetti di ermeneutica giuridica che innervano le strutture processuali proprie delle nostre aule di giustizia e non solo del diritto romano.
Si pensi ai contributi che hanno indagato i parametri interpretativi come la benignitas, l’humanitas e la civilitas nella creazione ed applicazione del diritto[1] e che hanno dimostrato come la giurisprudenza romana attraverso l’uso di motivazioni umanitarie abbia cercato di rifondare la giuridicità in termini universalistici. Non solo. Ma in più occasioni Antonio Palma ha indagato i meccanismi e le dinamiche attraverso cui il giurista – sia romano che contemporaneo – ha tentato e tenta di offrire il suo apporto alla risoluzione dei problemi della società in cui vive e opera per il tramite di soluzioni che siano considerate comunemente come “giuste”. Così viene evidenziato come nell’esperienza romana la sententia risolutiva di un singolo caso seppur potesse rimanere isolata poteva comunque innescare un ampio dibattito sulla sua adeguatezza alle istanze sociali e al quale avrebbero dato il loro contributo – di varia qualità e valenza pratica – magistrati, giudici, giuristi e pubblica opinione. Un dibattito che avrebbe potuto condurre, qualora la decisione fosse stata condivisa da queste diverse parti, alla fissazione della regola che, come si approfondisce nel volume, avrebbe così dimesso il suo originario carattere episodico per porsi quale precedente da cui le decisioni future non avrebbero potuto facilmente prescindere.
Il Professore che manifesta, così, tutta la sua sensibilità di storico e giurista positivo, attento conoscitore dei meccanismi del diritto romano e contemporaneo, soprattutto amministrativo, dichiara la sua convinta adesione a un diritto, come quello romano, di marca giurisprudenziale perché capace di garantire il massimo di aderenza delle singole decisioni al senso comune. L’Autore traccia nelle sue pagine suggestivi margini di corrispondenza tra l’esperienza giuridica antica e quella moderna, nella quale l’attenzione è concentrata sulla giurisprudenza delle Corti e non su quella iurisprudentia quale prodotto caratteristico delle attività dei giuristi romani. Emerge, così, la cifra metodologica dello Studioso che da sempre lo ha contraddistinto: una costante tensione ad una disamina diacronica tra il passato e il presente. Forte di questa prospettiva il flusso argomentativo dell’opera si riversa, dunque, sia nella correlazione tra interpretazione del diritto, giurisdizione del magistrato e attività decisoria del giudice; sia nella connessione tra la regula iuris intesa come nucleo decisionale del caso concreto e un sistema di regole generali a fattispecie astratta elaborato dai giuristi. Sistema di regole di derivazione casistica, ma di struttura generale, che si connette con l’alternarsi di un pensiero giurisprudenziale che ritrova nel diritto controverso la sua più feconda manifestazione.
Il titolo stesso del volume evidenzia, d’altronde, l’opzione ideologica dell’Autore per una prevalente efficacia del giudizio e, dunque, della regola che dal giudizio germina sull’astratta e generica previsione legislativa.
Il professor Palma nelle sue pagine attraverso una ridefinizione dello ius controversum come diritto della controversialità sposta l’attenzione sul giudizio, sul giudice e sugli altri soggetti del processo, che concorrono, ognuno con la propria sensibilità, alla costruzione di un ciclo sapienziale dal quale scaturisce la res iudicata tesa a divenire regola di giudizio nella sua reiterazione giustificata dalla sua condivisibilità valoriale. Con ciò evidenziando come il diritto romano, come ogni ordine giuridico, non possa e non debba essere contemplato da un solo punto di osservazione, nel caso di specie quello dei giuristi. Nelle pagine che compongono il libro, il Professore Palma evidenzia, attraverso la lente dello storico volto alla comprensione del presente, il fenomeno di graduale superamento all’interno del diritto vivente delle differenze tra modalità, in sostanziale concorrenza, dell'interpretazione giurisprudenziale nei sistemi di diritto anglosassone e quelli continentali, che rappresenta il vero nodo problematico dell'attuale fase storica. In questa prospettiva, infatti, la Corte di Cassazione, come ricorda l’Autore, ha prestato l’avvallo alla prassi riduttiva della motivazione sulle questioni di fatto, ritenendo che il giudice abbia il dovere di motivare solo con riferimento alle prove su cui ha fondato la propria decisione, ma non in ordine a quelle contrarie, in tal modo esonerando, di fatto, il giudice dall'obbligo di esporre le ragioni della propria scelta: principio, questo, appena temperato dal dovere del giudice di appello di giustificare la decisione in ordine ai fatti principali della controversia, a pena di incorrere nel vizio di omessa o insufficiente motivazione.
Condivisibile fino in fondo è, in questa prospettiva, il punto di vista secondo cui a detta di Gabriella Muscolo "in un ordinamento in cui la legittimazione del giudice a dire il diritto è legittimazione democratica, la interpretazione creativa pone con maggiore urgenza la questione dei limiti alla discrezionalità del giudice"[2], per cogliere questo limite, appunto, nella motivazione della sentenza.
Viene indagata, in questa prospettiva, la natura della regula che è insieme: principio – norma – regola del caso, a seconda dalla strategia interpretativa di chi è chiamato a giudicare, siano essi giuristi o giudici. La costitutiva ambivalenza della regola si rispecchia così nelle fonti romane nella dialettica complessa tra regole consolidate che poi sistematicamente vengono disattese di fronte a casi limite, gli hard cases di cui ci parla Ronald Dworkin, ma non per l’intrusione di valori opposti a principi, ma per la costitutiva natura delle regole stesse. Infine, l’Autore, affronta dall’interno, attraverso una serrata esegesi testuale, il problema della denegatio actionis che sembra una conferma ulteriore di un potere giurisdizionale in grado di rompere il sistema delle regole, operando un adeguamento d’imperio della norma al caso ed alle esigenze sociali di giustizia. Sullo sfondo un contesto di pratiche processuali deformalizzate disponibili dalle parti dominate da una prevalente inafferrabilità documentale, l’oralità, con tutto ciò che consegue per istituti propri del diritto processuale come la definizione della res iudicata.
Numerosissimi, pertanto, i pregi di questo libro tra i quali il momento del rapporto dialettico con la modernità giuridica: il lavoro coglie i termini di un confronto tra le dinamiche processualistiche caratterizzanti ora il mondo romano, ora il mondo moderno
Di tutto questo, e di altro ancora, l’opera di Antonio Palma offre un nitido e affascinante affresco.







[1] A. Palma, Humanior interpretatio. Humanitas nell'interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, Torino, Giappichelli, 1992; Id., Benignior interpretatio. Benignitas nella giurisprudenza e nella normazione da Adriano ai Severi, Torino, Giappichelli, 1997; Id., Civile, incivile, civiliter, inciviliter. Contributo allo studio del lessico giuridico romano, in Index, 12, 1983-1984, pp. 257-289.

[2] G. Muscolo, Il «volto non comune» della verità processuale, in A. Mariani Marini (a cura di), Processo e verità, Pisa, 2005, pp. 69-79.

giovedì 25 gennaio 2018

"L’ORA PIÙ BUIA" DI JOE WRIGHT


Nelle notti della storia, quando il totalitarismo più torvo avanza, occorrono uomini che abbiano il coraggio di pronunziare le espressioni “guerra” e “resistenza ad oltranza”. Nel maggio 1940 le truppe hitleriane dilagavano incontrastate in tutta Europa e già venivano intraviste dalle bianche costiere di Dover. Il Primo Ministro Chamberlain e il suo Cabinet cercavano una risibile pace con un essere di nome Hitler. Il pacifismo di un governo imbelle stavano consegnando anche il Regno Unito al nazismo.
Joe Wright con la sua opera “L’ora più buia” si inserisce nel corposo genere cinematografico sui grandi eventi della storia moderna e contemporanea.
L’intuizione artistica del registra londinese consiste nel tratteggiare con ironica astuzia i tratti umani, psicologici ed “estetici” di Winston Churchill (interpretato da Gary Oldman, Premio Oscar 2018 come Migliore Attore Protagonista; anche Premio Oscar come Miglior Trucco e Acconciature): micidiale bevitore di alcolici e superalcolici, formidabile mangiatore di carne (non come il vegetariano Hitler), incontenibile fumatore di sigari, dotato di un carattere iracondo e avvezzo alla  battuta, anche volgare.
Winston Churchill il 10 maggio 1940 riceve da re Giorgio VI (la cui figura è potentemente pitturata da Tom Hooper nel suo film “Il discorso del re”), l’incarico di Prime Minister, dopo un’entusiastica richiesta dell’opposizione laburista e di quella nauseata del suo partito (conservatore), sino ad allora retto dal dimissionario Chamberlain.
Winston Churchill - interpretato da  Gary Oldman che ha ben meritato la nomination agli Oscar 2018 come Miglior Attore Protagonista (affiancata alle altre quattro candidature come Miglior film, Migliore Scenografia, Migliore Fotografia e Migliori Costumi) - vive un costante travaglio interiore fra le sue convinzioni di salvataggio della Gran Bretagna e dell’Europa dall’ “imbianchino degenerato” – la cui pericolosità era stata da egli già più volte annunciata e denunciata nel vile silenzio degli altri leader nazionali e continentali – e la cieca codardia dei suoi colleghi politici.
Churchill il bevitore, il mangiatore di carne, il tabagista, l’iracondo, il volgare, il pingue, sarà colui che, con un possente e indimenticabile discorso pronunziato il 4 giugno del 1940 dinanzi ad una tripudiante House of Common, marcherà le parole: “We shall fight on the beaches”.
Ebbe così inizio la lunga marcia verso la vittoria con l’evacuazione (magistralmente raccontata da Christopher Nolan in “Dunkirk”) di 338 mila soldati, prevalentemente britannici, bloccati a Dunkerque nella Francia occupata dalla “Croce Uncinata”.
Dovranno trascorrere cinque anni di blood, toil, tears and sweat, per far gustare di nuovo all’Europa quella libertà che un becero pacifismo rischiava di far evaporare del tutto.
L’ora più buia” è un lavoro didattico e didascalico da far vedere, prima che alle scolaresche, ai dirigenti politici e istituzionali, per consentir loro di comprendere al meglio  che, innanzi all’avanzare di forze oscure e tiranniche, solo un bellico coraggio e una lucida e ferrea lungimiranza possono condurre alla salvezza dell’Uomo, del Vecchio Continente e della stessa Umanità.
Perdere la speranza è un lusso che i leader non possono permettersi”…….Thanks Winston!
Fabrizio Giulimondi






martedì 23 gennaio 2018

“TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI” DI MARTIN MCDONAGH


Martin McDonagh rende palpabile l’odio, il rancore, la rabbia, un cupo, persistente, ininterrotto desiderio di vendetta, senza pace, senza tregua, senza pelle.
“Tre manifesti a Ebbing, Missouri” è un film che per i tre quarti della sua durata non esiste compassione, non v’è mai alcuna compartecipazione del dolore e del dramma altrui, ma solo uno scambio di brutale energia irosa, di violenza fisica e insulto virulento fra familiari, poliziotti e cittadinanza e gli stessi poliziotti a cui tutto è consentito.  A Ebbing, Missouri, lo stupro mentre moriva di una giovane ragazza è rimasto accantonato dagli inquirenti per troppo tempo e tre manifesti lo fanno uscire dalle trame del silenzio, un silenzio fatto di occhi iniettati di sangue e frustrazione.
Solo dando un nome alle emozioni, ai sentimenti, solo dando legittimazione a questi stati d’animo si può uscire dalle sabbie mobili della disperazione.
La pellicola, molto dura e coinvolgente, estetizza un percorso interiore che va da un cupo risentimento ad una presa di coscienza individuale, e poi condivisa, dell’intramontabile dolore che si sta vivendo, della propria insanabile e acuta sofferenza, di un antico e sedimentato dramma interiore. L’immagine del lungo viaggio in auto, immerso in bellezze naturali senza confine, di Mildred (Frances McDormand, Premio Oscar 2018 come Migliore Attrice Protagonista) e Dixon (Sam RockwellPremio Oscar come Miglior Attore non Protagonista) conferisce forma e respiro al lungo cammino delle loro anime verso quel baluginio di luce che prima non intravedevano; al viaggio di Mildred dalla sua angosciata e angosciante solitudine ad un sentore di speranza; dalla (forse solo apparente) psicopatia di Dixon alla sua presa di coscienza di un nuovo Dixon, o semplicemente del Dixon precedente a quello apparso a seguito della morte del padre.
Il film è la storia di crisalidi che mettono in comune il proprio buio, per cominciare a prendere il volo dopo aver ricevuto la lettera di un suicida.

Fabrizio Giulimondi

lunedì 22 gennaio 2018

"LA GUARDAROBIERA” DI PATRICK McGRATH


Dettagli prodotto

Il lutto ha molti risvolti, molte conseguenze e da esso possono partire fiumi con letti profondi e torrenti impetuosi, ma anche rivoli carsici che danno luogo ad apparenti laghi placidi: “Il lutto può indossare mille facce e durare tutto il tempo che vuole”.
Il lutto può dare luogo a psicosi.
Il lutto può insufflare un refolo di vita anche ad un guardaroba, perché nel guardaroba vi sono i vestiti del defunto e sui suoi vestiti rimanere la polvere del passato che, stratificandosi e cementificandosi, si trasforma in allucinazioni visive e acustiche, presenza ectoplasmatica, ricerca del proprio marito morto nei panni di un altro. Sì, panni, nel senso più veritiero del vocabolo, poiché vestire i completi, i pantaloni, le giacche di un defunto lo può far tornare in vita agli occhi della vedova.
Il grande romanziere inglese con accentuato retrogusto psichiatrico Patrick McGrath, dopo avviluppanti opere al pari di Follia e Trauma, dona al suo pubblico “La guardarobiera” (La nave di Teseo), che si muove adagio nell’ impalpabile ambientazione del dopo guerra britannico. Nelle retrovie del palcoscenico si intravedono scontri fra residui fascisti e reazioni antifasciste, mentre la narrazione si insinua fra le pieghe della mente e degli abiti, fra verità svelate e un presente che non vuole dipanarsi verso il futuro ma si accartoccia sempre più nel passato.
La storia, portata avanti “dal di fuori” da misteriose signore che fungono da coreuti elleniche, sembra quasi dare forma visibile, fruibile a tutti, a ciò che accade nei bassifondi dell’animo dei personaggi che coralmente si affacciano al lettore. Si può uccidere qualcuno anche solo per rendere definitiva la morte di chi è già morto: i vestiti sono evocativi, i colori trascinanti in direzione di altri emisferi mentali, il presente essere un perenne e immarcescibile passato.
McGrath, intanto che scrive, è già proiettato verso il teatro: la sua letteratura è già in movimento, possedendo le movenze di una pièce teatrale. “La guardarobiera” non sono solo segni su fogli ma assume a cospetto di chi legge la corporeità della carne e la sonorità della voce umana.
Le opere di Mcgrath sono letteratura e teatro ma anche arte di antica maestria artigianale e ricercato antiquariato, accompagnata da un’elegante quanto sobria sartoria.
Letteratura, teatro, artigianato, antiquariato e sartoria non sono altro che increspature della mente che fuoriescono da pertugi cerebrali per tentare di rendersi conoscibili a coloro chi siano in grado di comprenderle. 
La letteratura, il teatro, l’artigianato, l’antiquariato e la sartoria sono percorsi carsici che conducono cripticamente gli esseri umani a comprendere le molteplici ricadute che sono dietro un lutto.
Le simmetrie, sì, le simmetrie possono portare al delirio: “Sì, una splendida simmetria, vita e teatro, ecco cosa vide Frank; ma noi sappiamo che cosa succede quando compaiono le simmetrie, vero, signore? Brutte notizie come se piovesse.”.
Fabrizio Giulimondi




mercoledì 17 gennaio 2018

FABRIZIO GIULIMONDI: "TECNICA LEGISLATIVA E DEMOCRAZIA"

Appare ad un primo approccio un dato meramente formale, ma in realtà il numero delle leggi e la loro qualità redazionale incide profondamente su una corretta gestione della “cosa pubblica”: “Corruptissima re publica plurimae leges” (affermava saggiamente Tacito).
Altissimo numero di leggi, struttura delle stesse, presenza eccessiva di articoli, commi, lettere, articolati composti da una unica disposizione con centinaia di commi, commi aggiunti con le diciture latine bis, ter, quater, etc, troppe sottodivisioni dei commi in lettere, terminologie troppo tecniche e poco comprensibili al comune cittadino, eccessive interpolazioni, determinano un complesso normativo di difficile lettura non solo per il quisque de populo, ma per gli stessi tecnici.
Se ci caliamo, poi, in seno a materie complesse come quelle inerenti le procedure ad evidenza pubblica, o il settore urbanistico, edilizio o tributario, ci si rende conto di quanto sia importante un approccio agevole di un testo legislativo. L’utilizzo di Testi Unici e Codici costituiscono strumenti utili ed efficaci e, ad esempio,  il codice degli appalti 50/2016, corretto con quello n. 57/2017, è senza dubbio un giusto tentativo di aiuto per l’operatore economico ed imprenditoriale onesto di accedere al mercato senza “tagliole” da parte delle aziende “scorrette”. La normazione sulla trasparenza e in contrasto al tentacolare fenomeno della corruzione risulta essere un ausilio di grande importanza per tutti coloro che interloquiscono economicamente, finanziariamente e commercialmente con la Pubblica Amministrazione. Una maggiore attenzione da parte del Legislatore alle regole in tema di legistica può certamente consentire un più facile accesso al “mercato” da parte delle tantissime aziende e società oneste e capaci, avendo esse una maggiore agibilità fra le direttive e le procedure da rispettare. Non è cosa da poco una legge chiara con dettami certi che siano perfettamente compresi da un cittadino, imprenditore o privato che sia, che comprende in pieno ciò che può e non può fare. Dalla chiarezza delle leggi deriva direttamente un mercato sano scevro da metastasi corruttive.

Come possiamo capire i principi di chiarezza, precisione, uniformità, semplicità ed economia, sottesi alle metodologie di tecnica redazionale dei provvedimenti legislativi, siano questi ultimi di natura primaria o secondaria, “non sono espressione di ideali estetici o di modelli formali” – come proclama nel preambolo alla terza edizione del dicembre del 2007 il ‘Manuale regionale di tecnica legislativa’, elaborato dall’Osservatorio legislativo interregionale, recante “Regole e suggerimenti per la redazione dei testi normativi” – “ma  strumenti per garantire la qualità della legislazione e con essa il fondamentale principio della certezza del diritto”.
 A tale proposito v’è obbligo di aggiungere che la “certezza del diritto” è il precipitato logico – giuridico del principio di democraticità (art. 1 Cost), informatore primario del sistema costituzionale e ordinamentale italiano.
Una disposizione mal compresa dai destinatari, ossia dal Popolo che è il vero Sovrano e che  esercita la Sovranità – in via mediata -  anche attraverso il Parlamento e il Governo, lede direttamente e platealmente  la democraticità del sistema, che si manifesta pure attraverso le norme di disciplina della vita della Comunità la quale, per contribuire correttamente e legittimamente alla vita dello Stato, deve necessariamente capire in tutti i suoi aspetti il contenuto delle disposizioni emanate dagli  Organi costituzionali,  che  operano – secondo il dettato costituzionale -  per conto e nell’interesse della Comunità medesima.
L’ incomprensione totale o parziale di un testo legislativo, essendo di ostacolo, anche grave, a tutto quanto sopra esposto, è un vulnus di non poco momento alla effettiva partecipazione democratica del cittadino, uti singulus e uti socius, a mente degli artt. 2 e 3, comma 2, della Carta Costituzionale.
Una preciso riferimento alla necessità della chiarezza formale della legge si ritrova nella sentenza 95/2007 della Corte Costituzionale, con la quale i giudici della Consulta hanno sottolineato che, il precetto contenuto nella disposizione deve essere formulato all’indicativo presente, ossia nel modo e nel tempo verbale atto ad esprimere il comando secondo il consueto linguaggio legislativo.  L’ indicativo presente è, dunque, sicuro indice della prescrizione di un obbligo, assumendo un valore indubitabilmente imperativo.
Atteso che il principio di chiarezza non trova attuazione soltanto nell’uso appropriato dei termini linguistici, la Consulta ha evidenziato che una disposizione  è chiara quando, ad esempio, enuncia tramite  poche e semplici espressioni un concetto generale; indica senza incertezza i suoi destinatari; precisa gli organi preposti alla sua attuazione, configurandone bene le competenze; determina le conseguenze di natura penale, civile, amministrativo-contabile o disciplinare in caso di inosservanza di un ordine o di un divieto; chiarisce se un elenco di condizioni è tassativo o esemplificativo, ovvero se le stesse debbano essere intese cumulativamente o alternativamente.
Ancora: la Corte Costituzionale con la decisione 303/2003 ha ribadito l’orientamento espresso con le sentenze 85/1999, 94/1995 e 384/1994, secondo il quale la certezza e la chiarezza sono un valore costituzionale e assumono un aspetto rilevante nel giudizio di legittimità costituzionale di una normativa, dovendo essere incluse nella parte motiva della decisione anche le valutazioni di ordine di tecnica legislativa.
Tengo a riportare quanto ha affermato il 16 dicembre 2004 il Presidente della Repubblica Ciampi nel messaggio di rinvio alle Camere della legge di delega in materia di ordinamento giudiziario: “Con l’occasione ritengo opportuno rilevare quanto l’analisi del testo sia resa difficile dal fatto che le disposizioni in esso contenute sono condensate in due soli articoli, il secondo dei quali consta di 49 commi ed occupa 38 delle 40 pagine di cui si compone il messaggio legislativo. A tale proposito, ritengo che questa possa essere la sede propria per richiamare l’attenzione del Parlamento su un modo di legiferare- invalso da tempo – che non appare coerente con la ratio delle norme costituzionali che disciplinano il procedimento legislativo e, segnatamente, con l’articolo 72 della Costituzione, secondo cui ogni legge deve essere approvata “articolo per articolo e con votazione finale”.
In conclusione, va ripensato l’uso ricorrente di approvare un unico maxi emendamento -  includente l’intera legge – formulato dal Governo, su cui questi appone regolarmente la c.d. questione di fiducia.
Riforma regolamento Senato approvata il 20 dicembre 2017
·       Tempi più rapidi per l’esame delle leggi
Quella del regolamento del Senato è l’unica riforma bipartisan del quinquennio, anzi quadripartisan essendo frutto dell'accordo tra Pd, Fi, M5S e Lega. Principale scopo quello di sveltire l'iter parlamentare delle leggi. Ma i tempi più veloci non dovrebbero andare a scapito della qualità dei provvedimenti: la riforma infatti rafforza il lavoro delle commissioni. Non solo riservando ad esse quindici giorni al mese non coincidenti con il lavoro d'Aula, ma anche aumentando i casi in cui i provvedimenti saranno esaminati in commissione in sede redigente e deliberante, senza dunque la necessità del passaggio in Aula.
Fabrizio Giulimondi

lunedì 15 gennaio 2018

"COME UN GATTO IN TANGENZIALE" DI RICCARDO MILANI


E se uno (il grande Antonio Albanese) dei tanti teofori delle teorie multiculturali, integrazioniste, mondialiste, entusiasti della “contaminazione fra etnie” nelle periferie del mondo, potenziali laboratori di una unica comunità umana, scopre come un fulmine a ciel sereno che la figliola tredicenne, bambolina, educata, acqua e sapone, bilingue, giocatrice di cricket, con costosissima borsa sulla spalla,  frequentatrice di college britannici,  si è fidanzata con un ragazzino “molto ma molto romanaccio”, taglio di capelli e vestiario “di un certo tipo”, proveniente da  una delle peggiori borgate romane, figlio di una madre (impareggiabile  Paola Cortellesi) iper-tatuata, greve,  precaria (anzi, precarissima) sul lavoro, di  un padre entra-e-esce-dalla-galera (e chi se non Claudio Amendola) e nipote di zie ladre compulsive?
Cambia tutto, cari miei, cambia tutto: l’ ”anima bella” si trova dinanzi la realtà.
Il film divertente, intelligentissimo e coraggioso “Come un gatto in tangenziale” di Riccardo Milani, demolisce pezzo a pezzo il sistema ipocrita progressista-politicamente corretto, radical-chic-buonista.
Antonio Albanese (aiutato dalla moglie interpretata da Sonia Bergamasco) incarna tutte le “anime belle” del mondo: sì alla tolleranza ed alla “contaminazione” fra gruppi umani diversi ma al di fuori dei confini delle spiagge di Capalbio, lontano da appartamenti antichi e lussuosi siti nel centro di Roma (ma potrebbero essere i “Saviano” che vivono a Manhattan); sì alla libertà sessuale ma per le figlie altrui.
Paola Cortellesi è la metafora del Popolo vittima delle scelte “sociologiche ed urbanistiche” delle fulgide e copiose menti pensanti di Sinistra, elaboranti sistemi ideali che praticano solo, però, sugli altri: è la Cortellesi che deve vivere in mezzo all’arroganza di moltitudini di immigrati; è la Cortellesi che deve avere tutto impregnato della puzza del cumino delle pietanze dei “migranti”; è la Cortellesi che deve prendere il sole nelle squallide spiagge-carnaio di Coccia di Morto dopo due ore (o forse più) di auto; è la Cortellesi che deve vivere una squallida esistenza in un altrettanto squallido palazzone simil- Serpentone (di Corviale il regista ha già ben artisticamente parlato in un altro suo lavoro, “Scusate se esisto”,  che ha visto la bravissima attrice recitare con Raoul Bova).
La coppia Albanese-Cortellesi – già sperimentata in “Mamma o papa?” precedente lavoro di Riccardo Milani – è professionalmente vincente: la Cortellesi spicca ancora più il volo rispetto all’abbinamento con Bova (“Scusate se esisto”) e con Verdone in “Sotto una buona stella”, diretto dallo stesso attore romano.
Che vi devo dire signore e signori miei? Andate a vedere questo film-verità, questo film-documentario, possibilmente in compagnia di una delle tante “anime illuminate” che deambulano in questa nostra bella e disgraziata Penisola.

Fabrizio Giulimondi 


sabato 13 gennaio 2018

ALESSIA GIULIMONDI: "LE VOCI DEGLI ALTRI" - NOTTE NAZIONALE DEI LICEI CLASSICI - 12 GENNAIO 2018


Ce lo diciamo sempre tutti che è necessario dare ascolto all’opinione dei molti, anche se provano a insegnarci il contrario, ce lo ripetiamo sempre, perché, per come abbiamo imparato a vivere, è la verità. Perché è vero che l’opinione dei molti è spesso anche la nostra opinione, come è vero che i molti siamo noi stessi insieme con gli altri, che diciamo cose senza sapere se le pensiamo davvero. Si può dire che al liceo si impari questo. In questa terra di mezzo, dove non si è ancora deciso se essere bambini o essere adulti, si impara a stare in equilibrio tra ciò che dentro cerchiamo di essere e ciò che fuori già è. E di solito falliamo. In verità, in cinque anni di studio “matto e disperatissimo” si scivola molto più spesso nell’abnegazione, nell’oblio, nella furia e nel tempestoso luogo dell’apparenza, perché, diciamocelo, non siamo ancora pronti per la sostanza. A quindici, sedici, diciassette, diciotto anni non si è mai abbastanza soli con se stessi, soli tanto da abituarci alla nostra voce, ai nostri pensieri, alle nostre opinioni. Siamo sempre più abituati alla voce degli altri, alla confusione delle giornate, al vociare della ricreazione, all’ansia spesso ingiustificata che tutto il resto ci crea. Non siamo mai realmente noi, lo siamo solo in parte e solo occasionalmente perché costantemente presi da qualcosa di più importante. E forse, per adesso, va bene così; forse è giusto pensare che Socrate ha ragione, ma Critone è più ragionevole, perché, in una mentalità abituata alla democrazia – la violenza del popolo –, i molti sono la maggioranza e noi, proprio noi stessi, saremo sempre e comunque una minoranza. Ed è qui che l’Io si perde, si perde quando si scontra e cozza contro il mondo che dice sempre tutto il contrario, contro le buone maniere che non si sa più se seguire, contro la moda, il tempo che corre sempre più veloce, contro le lezioni di canto, danza, inglese, ginnastica, le ripetizioni e l’alternanza scuola-lavoro; si perde dentro il sesso che manca d’amore, dentro la disillusione andata in tendenza e i desideri repressi perché “tanto non si avvereranno mai”. È un Io un po’ logoro il nostro, sempre mortificato, troppo pieno dell’opinione dei molti, anche di tutti, direi. Non è una novità di questo secolo, la solitudine non è un’esclusiva di questa generazione, ma forse è propria della razza umana che, di fatto, non ha mai fatto altro che cercare accettazione, conferme, riconoscenza. Hegel diceva che il primo bisogno dell’autocoscienza, che adesso mi prendo la licenza di chiamare Io, è quello di essere riconosciuta da un’altra autocoscienza, altrettanto autonoma, altrettanto uguale e noi, messo piede in questa prova generale della vita quale è il liceo, non facciamo che questo: cerchiamo riconoscimento, rassicurazione. Ed è così che perdiamo la nostra autonomia, la nostra autocoscienza, creando un sistema di forme che cercano sostanze senza trovarle, un sistema di apparenze che cercano essenze. Così ci ammaliamo degli altri, delle loro opinioni, dei loro sguardi cattivi che sono cattivi quanto il nostro e quando più abbiamo bisogno di noi, ad essere rimasti sono solo questi molti, questi occhi che ci fissano e ci distraggono. In effetti, si tratta solo di distrazione che è, invece, tipica del nostro tempo, dove si guarda attraverso uno schermo e si è disimparato a guardare davvero, con attenzione, con pazienza. Trovare noi stessi non è cosa da chi è disattento, da chi è distratto dal potere della maggioranza e la maggioranza è sempre una grande influencer, soprattutto quando si è giovani e ancora disarmati, non ancora abituati a selezionare, capire, cogliere senza domandare. Proprio nel Critone, Socrate ci dice che è una questione di allenamento, una ginnastica con la quale l’occhio si abitua a vedere dove non si vede, a dare importanza all’importante e scartare il resto, perché abbiamo un’incorreggibile tendenza a vivere per il superfluo, senza mai interpellare noi stessi, perché se di tanto in tanto lo facessimo, sapremmo quanto fa male.


 Alessia Giulimondi

AVVISO
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