giovedì 15 febbraio 2018

PIERO CORIGLIANO: "QUATTRO NOTE SUI R.E.M."


Risultati immagini per FOTO REM
Correva l’anno 1992, quando i R.E.M. diedero alle stampe questo “Automatic for the people”.
E’ uscita a Novembre 2017 la versione rimasterizzata dell’album, ristampato per i suoi 25 anni in due versioni ‘extralarge’, una da due cd, con il disco originale remixato e l’unico concerto live registrato dalla band nel ’92, e l’altra (Deluxe) con 20 demo mixati nel 1992 e il disco stesso ascoltabile in versione “sonora” Dolby Atmos.
Solo un anno prima, grazie ai mandolini e al pathos del singolo “Losing my religion” i R.E.M., fino a quel momento conosciuti come la band di punta del rock indipendente americano, avevano sfondato a livello internazionale, facendo entrare ai primi posti delle classifiche “Out of time”. Quest’ ultimo era un disco di folk-rock maturo e mainstream, con alcuni singoli capaci di fare breccia presso le categorie più disparate di ascoltatori.
La band dopo “Out of time” decise, a sorpresa, di non fare un tour promozionale, col quale avrebbe capitalizzato al meglio le vendite milionarie del disco e si chiuse pazientemente in studio a registrare delle nuove canzoni, che confluirono in “Automatic for the people”.
Il risultato è un disco cupo e malinconico, funereo e notturno, che tratta a piene mani il tema della mortalità, degli affetti e delle fragilità umane, con un suono barocco, delicato e migliorato da raffinate orchestrazioni, dirette dal sapiente lavoro di John Paul Jones, ex bassista dei Led Zeppelin.
Forse è riduttivo definire “Automatic for the people un disco, perché musiche, testi e atmosfere di queste 12 canzoni sono così interconnessi da creare un tutt’ uno di visioni oniriche, sogni, ricordi, orizzonti, frammenti di vita, immagini, delusioni e speranze.
Ingredienti messi insieme dai quattro R.E.M. con un sapiente lavoro di ‘cucitura’, realizzato col produttore Scott Litt, e ammantati in un mood dimesso, specchio dei tempi incerti che si vivevano negli Stati Uniti finita l’era Reagan, con i tanti dilemmi che si portava con sé il periodo post Guerra Fredda e verso l’incerta fase di transizione di fine ventesimo secolo.
La strumentazione è prevalentemente acustica, con inserti di banjo, armoniche, organi, bouzouki. In realtà lo stile delle canzoni può essere considerato come un’evoluzione più matura del disco precedente, anche se al tempo stesso vi prende le distanze: laddove Out of time era solare e spensierato, Automatic risulta invece cupo, scarno, malinconico e minimalista.
Questo testimonia anche la volontà del gruppo di non sedersi sugli allori del successo, ma di cercare di recuperare una dimensione più personale e introspettiva.
Il viaggio parte con “Drive”, che è anche il singolo apripista dell’album.
Singolo che non concede nulla agli stereotipi commerciali, partendo in modo lento e ipnotico con un lieve, insistito arpeggio chitarristico e un sottofondo ammaliante, per poi esplodere lentamente con la grande entrata della chitarra elettrica e di una spettacolare sezione d’ archi. Stipe canta: “hey kids, rock and roll, nobody tells you where to go” ovvero dei versi criptici (nel suo stile) ma che sembrano dire ai giovani: seguite la vostra via, vivete la vostra vita, non cercate mai quello che vi dicono gli altri.
La canzone vive sull’ alternanza vuoti/pieni e sfuma lentamente, così come era iniziata.
Due chitarre che si rincorrono e il tema dell’eutanasia sono il sottofondo di “Try not to breathe”, una melodia semplice e raffinata che vive nel controcanti di Stipe e Mills e nel ritornello i suoi passaggi migliori. Un organo ne accompagna il lento incedere nel finale, il testo racconta di un anziano che giunto alla fine della sua vita, ne ricorda i momenti più belli e struggenti e mette in evidenza l’argomento degli affetti.
La musica è un pretesto per toccare temi importanti e evocare visioni suggestive, tutto “Automatic” richiede attenzione per l’ascolto in se stesso ma anche per i temi che sono trattati attraverso di esso.
The sidewinder sleeps tonite” costituisce un momento di evasione rispetto ai primi due brani, grazie a un intreccio scintillante fra organo e chitarra e uno Stipe che canta (e bene) in tonalità molto alte, facendo il verso a ‘The lion sleeps tonite’, con liriche originali e al limite dell’incomprensibile. Il risultato è ottimo e riesce ad allentare un pò il clima, senza allentarlo troppo al tempo stesso.
Segue “Everybody hurts” e sin dai suoi primi momenti si ha la sensazione di essere immersi nel mood dei primi due brani.
Ci sarebbe poco da dire, se non invitare all’ ascolto. Un semplice arpeggio di chitarra di Buck introduce verso una melodia corposa e cantata con intensità da aria funebre da Michael Stipe; il basso di Mills gira a meraviglia, la chitarra elettrica e la batteria si limitano a pochi interventi che accompagnano il momento di maggiore climax emozionale. Il tema è quello della sofferenza e del disagio esistenziale, quelli di un aspirante suicida che viene invitato a non cedere e continuare a vivere. ‘Take comfort in your friends’ e il ripetersi della frase ‘No, no, no, you’ re not alone’ sottolineano il messaggio positivo che i R.E.M. vogliono trasmettere, pur parlando di morte e dolore.
Il video felliniano che accompagnò la canzone è un must ed è consigliabile non perderlo.
New Orleans Instrumental n.5” è un brano strumentale, riflessivo e notturno al quale segue “Sweetness follows”, splendido blues in cui la voce matura e melodica di Stipe, anche qui bravissimo, viene sorretta da un magico impasto sonoro di chitarra acustica e violoncello prima ed organo poi. Ovvero, come fare grande musica con pochi, semplici ‘ingredienti’.
Qui la morte viene vista con gli occhi innocenti di un ragazzo che deve dare sepoltura ai suoi genitori: il senso della riflessione remmiana è di tenere sempre vivo il ricordo, a fronte del rischio dell’insensibilità e del tempo che passa, insomma un invito a recuperare la pienezza degli affetti.
Monty got a raw deal” rappresenta l’omaggio dolceamaro a Montgomery Clift, celebre attore che negli anni 50’ dissipò tutte le sue fortune tra alcool e droga, andando incontro a una morte dannata e prematura.
Un arpeggio di Buck lo introduce, segue la decisa entrata della batteria, l’accompagnamento di armoniche e bouzouki ne guida l’incedere lento e straniante, quasi drammatico, con Stipe che canta su tonalità basse. Il personaggio sfortunato di Monty viene raffigurato come “buried in the sand” (sepolto nella sabbia) e “strung up in a tree” (appeso a un albero), immagini efficacissime che simboleggiano il destino di quest’ uomo solo.
Sembra chiaro l’invito a non farsi travolgere dalle facili e vacue promesse della celebrità, quasi un’auto raccomandazione da parte del gruppo.
Il cammino di “Automatic for the people” continua con “Ignoreland”, che arriva con la sua ritmica dissonante e un piglio decisamente rock’n’roll, rappresentando un episodio a parte nell’ album: Stipe snocciola versi velocissimi, quasi incomprensibili, che in realtà mascherano un’invettiva politica dai toni accesi ed accorati contro le presidenze americane di Reagan e Bush.
Star me kitten” è invece, in antitesi, un tranquillo momento di pace, un’oasi sonora in cui tutti i sensi sembrano per un attimo placarsi. Qui una dolce chitarra di sottofondo accompagna versi magici e sospesi, con sottili ricami jazzistici, preparando all’ ascolto del trittico finale.
Segue “Man on the moon”, canzone che celebra il ricordo del comico anni 60′ Andy Kaufman. Anch’ egli aveva avuto in vita una sorte tragica e da incompreso, nonostante lo humour e l’ ironia dei suoi personaggi. Verrà riscoperto, proprio grazie ai R.E.M. fino al film in suo omaggio diretto da Milos Forman.
Il testo è una sorta di dialogo surreale con lo sfortunato protagonista, accompagnato da un incedere ritmico vibrante, ammiccante e pop ma calibrato con classe dai R.E.M., con Stipe che nel cantato omaggia Elvis Presley e un’impennata chitarristica di Buck a conferire un tocco di epicità.
Nightswimming” è una dolce e soffusa ballata pianistica che incanta, un piccolo capolavoro di semplicità ed emozioni.
Il breve stacco iniziale prepara l’ingresso di un pianoforte che recita da protagonista, splendido ed evocativo come le luci della luna richiamate nel testo. L’ atmosfera è intrisa di nostalgia e di memorie del passato, di un’adolescenza vissuta attraverso nuotate notturne, foto antiche poggiate sul cruscotto e sfuggenti incontri amorosi, poi perduta irrimediabilmente.
Find the river” conclude l’album, introdotta da pochi, toccanti accordi di chitarra. La voce di Stipe irrompe con versi poetici e leggeri, armoniosi e compatti.
Tutto è rallentato, eppure gradevole e autenticamente sentito da parte dei quattro R.E.M., che firmano un’altra perla piena di intensità. La ricerca del fiume rispecchia ancora la metafora esistenziale della ricerca di se stessi e della propria via.
Il dolce pianoforte in sottofondo, un coro e una fisarmonica nel ritornello accompagnano i momenti migliori di questa gemma, fino alla sua conclusione lenta e inesorabile, come il percorso del fiume che finisce nell’ oceano.
Piero Corigliano

Nessun commento:

Posta un commento