mercoledì 2 maggio 2018

"RESTO QUI" DI MARCO BALZANO (EINAUDI)


Diventa una vertigine, il dolore. Qualcosa di familiare e nello stesso tempo di clandestino, di cui non si parla mai.”.
Il neo realismo già incontrato ne L’ultimo arrivato, vincitore del Premio Campiello 2015, Marco Balzano ce lo fa riassaporare nell’ultima sua fatica letteraria, probabile vincitrice del prossimo Premio Strega, “Resto qui” (Einaudi).
La narrazione di Balzano trasuda tristezza, una tristezza mista a malinconia, una tristezza ed una malinconia struggenti, quasi impietose. “Resto qui” è un lungo amarcord immerso nell’acqua di una diga che ha cancellato un paese alto atesino, Curon. Fuori dall’acqua è rimasto solo il campanile di una chiesa, in memoria di ciò che è stata una Comunità dissolta dalla bramosia dei “forestieri” e dalla apatia degli “indigeni, ciechi dinanzi a ciò che stava accadendo.
Non v’è un protagonista perché sono tutti protagonisti. La coralità tratteggia il percorso del racconto ove tutti giganteggiano nella loro meschinità, nella loro viltà, nel loro coraggio e umanità e amore. Tutti si mostrano in maniera impudica per quello che sono: persone, donne e uomini, esseri umani, fragili, granitici.
Le vicende storiche sono il dietro e il davanti le quinte, dal fascismo, al nazismo, alla lotta partigiana, sino alla modernizzazione voluta da De Gasperi, una modernizzazione che per la gente di Curon ha solo il sapore e l’odore di calcinacci, di intimità frantumata: “Il progresso vale più di un mucchietto di case”.
Lo smantellamento di abitazioni fragranti di pane appena sfornato e maleodoranti di vite sudate, il disfacimento di vie calpestate da piedi contadini, sono strazio dell’anima, vaporizzazione di individui in carne ed ossa.
Le descrizioni abbracciano il lettore, e che riguardino persone o guardino ai luoghi nulla cambia, perché tanto i luoghi e le persone si scioglieranno nella stessa dimensione: la persona è il luogo  cui appartiene e il luogo è intriso delle fattezze delle persone che vi dimorano, rispecchia i loro volti, i loro sorrisi,  i loro pianti.  
L’idioma è il sonoro del libro: “L’italiano e il tedesco erano muri che continuavano ad alzarsi. Le lingue erano diventate marchi di razza. I dittatori le avevano trasformate in armi e dichiarazioni di guerra
E’ una storia di assenza, anzi di assenze: assenza della figlia andata via e che mai più ricomparirà; assenza dalla casa natia; assenza di pace; assenza del proprio paese; assenza di radici violentate; assenza di presa di coscienza che l’inazione condurrà placidamente alla disintegrazione del visibile e, con esso, dell’invisibile.  L’acqua della diga nasconderà la corporeità e renderà eterei famiglia, parenti e amici, null’altro che vapore acqueo che si alza dalla tranquilla superficie di un lago, artificialmente venuto ad esistenza per volontà del “signore con il cappello”, disinteressato ad un passato e sprezzante del futuro.
Forse, chissà, quel “domani” svanito riposa fra queste pagine che si abbandonano sconfitte in una poeticità che travalica il tempo, oramai annichilito per gli abitanti di Curon, e si inerpica oltre lo spazio di quel paesino, crocevia di tante vite dissolte: “Guardo le canoe che fendono l’acqua, le barche che sfiorano il campanile, i bagnati che si stendono a prendere il sole. Li osservo e mi sforzo di comprendere. Nessuno può capire cosa c’è sotto le cose. Non c’è tempo per fermarsi a dolersi di quello che è stato quando non c’eravamo. Andare avanti, come diceva Ma’, è l’unica direzione concessa. Altrimenti Dio ci avrebbe messo gli occhi di lato. Come i pesci.”.
Fabrizio Giulimondi


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