lunedì 28 ottobre 2019

"L'ALBERO DELLA FORTUNA" DI CARMINE ABATE


 















L’ultimo lavoro di Carmine AbateL’albero della fortuna” (Aboca) è la prosecuzione di una narrazione lunga anni che evoca storie raccontate a ragazzini con occhi sgranati dinanzi al fuoco. L' "Albero della fortuna" emoziona i suoi lettori, una emozione che dura da tempo e che prende la forma dei libri dell’Autore arbereshe.  "L’albero della fortuna” è una lunga e intramontabile nostalgia che commuove il lettore e non lo abbandona per giorni.
La storia di un albero di fichi può vivere del respiro della Comunità che lo ospita e che si nutre dei suoi dolci frutti. Il racconto della vita di un albero di fichi può far conoscere la vita degli abitanti dei luoghi che lo accolgono, come sono accolti loro stessi dall’albero, rinfrescati dai suoi lussureggianti rami.
L’albero della fortuna” è come una tavola imbandita che profuma del pane che viene baciato, odora intensamente della pianta di bottafichi, possiede il gusto antico della pasta al forno, di sapori dimenticati. Eccole, sonorità di feste antiche, di "feste del ritorno", le cui note vibrano ancora. Eccole, parole gioiose che hanno radici nell’anima dell’Autore, segni ancestrali di affetti incancellabili, di tempi e spazi dimenticati e ritrovati.
Stile morbido, pastello, delicato, caldo, che incede con tratti di penna fatti di sentimenti perduti che rivivono ad ogni pennellata d’inchiostro, inferta da un Abate che squarcia il velo e irrompe in una dimensione in cui non è più ma vorrebbe tornare.
Linguaggio infarcito di succulenti vocaboli calabresi, succulenti come le pietanze che vengono descritte e di cui il lettore sente il bruciore del peperoncino sul palato.
Fra prosa e poesia, non si riesce a vedere la linea di demarcazione fra l’una e l’altra: una prosa poetica, una poesia prosastica.
Abate è come Nuni Argentì, riesce a trasformare le parole in immagini nitide che scorrono davanti agli occhi di chi legge come un film.
Abate vorrebbe fermare il tempo, ma non può, e allora come un novello Virgilio ci guida sognante per farci vagheggiare, almeno un'altra volta, almeno un’ultima volta, anche a noi.
Fabrizio Giulimondi

domenica 13 ottobre 2019

"JOKER" di TODD PHILLIPS



 

 Chi pensa di andare a vedere un film che si inserisca nel filone cinematografico su Batman, un poco spostato sul suo nemico storico, sbaglia e di grosso.
Joker” di Todd Phillips   è un’opera che guarda all’Oscar come miglior film perché è una pellicola di superba bellezza.
Non è un lavoro che parla di super-eroi ma una trattazione estetica ed artistica di politologia, sociologia, antropologia, psicologia e psichiatria. Il simbolismo che punteggia la storia e la necessità onirica del protagonista sono le muse ispiratrici del Regista.
Joker” è una composizione sinfonica di inquadrature di un volto possente, tragico come riesce ad essere solo quello di un pagliaccio, il cui sguardo, la cui movenza della bocca, la cui risata costituisce una delle più alte performance interpretative delle ultime decadi. Il piano sequenza che si stringe sempre di più sulla immagine del viso di Joker mentre gli viene rimarcato per l’ennesima volta che è bravo ma “strano”, rimarrà nella storia del cinema americano: un viso che cambia nella espressività degli occhi, nell’allargamento delle labbra, nella contrazione della mimica facciale, in una magniloquente fisicità del dolore e della sofferenza nascoste dietro un sorriso, arte drammatica e antica degli uomini del circo.
Cos’è una risata se non un pianto, una triste stortura di sonorità deformi, una pulsione improvvisa di gioia, un gutturale e osceno suono che sgorga da una gola che si strozza perché ne vorrebbe impedire la fuoriuscita. La risata di una vita vissuta come tragedia, no, anzi, come commedia. Una risata che è la vera colonna sonora del film, commista alla melodia di un violoncello, alla voce di Frank Sinatra e di ritmi ossessivi elettronici che scuotono l’angoscia che è nascosta in noi.
Il disturbo mentale che evoca amore e riconoscimento del proprio esistere che costruisce un immaginifico rapporto sentimentale con una ragazza, la necessità di amare ed essere amati che si proietta dalla mente alla realtà, ma non l’amore ma la violenza libera il coraggio e fa avvicinare Joker alla “sua” ragazza per baciarla: il coraggio si manifesta solo dopo che l’omicidio lo libera dalle sue paure e lo fa “esistere” a se stesso e agli altri. Cogito ergo sum? No. Vim afferre ergo sum.
Il racconto in maniera subliminale veleggia fra “Taxi driver” e “It,” anche se il vero dietro le quinte che occhieggia tutto il tempo lo spettatore è “Arancia meccanica”: se una società malata abbandona la disperata voglia di amare ed essere amato del malato mentale, quest’ultimo sovraneggerà sulla società con la violenza. La società è criminale, la società è violenta. È la società a creare i mostri. È la società a creare Joker. Joker nasce buono. L’uomo ne abusa. La società compie la metamorfosi da Arthur a Joker. La società manipola e indottrina le coscienze. Robert de Niro ne è il tedoforo. Robert de Niro è il Quarto Potere.
La violenza come legittimazione di se stessi per “esistere” dinanzi agli altri, essere conosciuti e riconosciuti dalla e nella Comunità, fatta di masse senza volto, celate da maschere di clown. Il magma umano ha ora una origine e uno scopo, origine e scopo identificato nell’archetipo, colui che ha avuto il coraggio di “uccidere quelli di Wall Street”, che ha avuto la forza di ammazzare il Sommo Sacerdote del Quarto Potere: lui, Joker. Joker non è l’anti - Batman, ancora un bambino figlio inconsapevole del Potere che disprezza le masse di clown. Joker dà voce ad una violenza pura, vindice degli inascoltati, anonimi a se stessi e agli altri, che sperano almeno in una morte che possa avere un senso dopo una vita che non ne ha avuto. Questo film è vietato ai minori di 14 anni, non certo per i radi sprazzi di sangue che colorano di gioia il pubblico, che vede eliminato finalmente il “cattivo”, ma per la sua ratio.
L’interprete di Joker, Joaquin Phoenix, Il Commodo de “Il gladiatore”, è già nel firmamento dei grandi di Hollywood, dopo aver improvvisato leggiadro il movimento di braccia e gambe al pari di un mimo e, come un mimo, evaporare nelle ultime battute, in un lucore bianco simile a quello di sogni che svaniscono al mattino.
Se non ora, quando come miglior attore protagonista?
Fabrizio Giulimondi