domenica 26 gennaio 2020

LIBRO CHE NON PUÒ NON ESSERE LETTO: "DISPERA BENE. MANUALE DI CONSOLAZIONE E RESISTENZA AL DECLINO” di MARCELLO VENEZIANI (MARSILIO NODI)


Una lettura che toglie il fiato. Scrivere questa recensione emoziona. Godere delle parole, respirare della profondità di un pensiero. Un percorso iniziato da Marcello Veneziani in “Vivere non basta. Lettere a Seneca sulla felicità” e che vede una sua ulteriore tappa in “Dispera bene. Manuale di consolazione e resistenza al declino” (Marsilio Nodi).  Nel primo Veneziani usa il metodo dialogico in forma epistolare, in “Dispera bene” v’è, invece, un dialogo diretto della voce narrante, prima con un uomo disperato del nostro tempo, poi con un ragazzo del 2000 e, infine, con un bambino appena nato.
Dialoghi platonici e senechiani per consolare, come fecero Boezio e Leopardi, accompagnano il lettore insieme a Pascal, Dostoevskij, Gabriel Marcel e altri che hanno impreziosito la nostra Umanità.
Dov’è l’argine fra filosofia, poesia e prosa? E quanto fascino possiede la semantica grazie alla quale si comprende la distinzione tra mondi e la scoperta di nuovi universi? Veneziani ci apre ad una lettura palingenetica, al termine della quale non si è più quelli di prima: l’eterno, l’immenso, l’infinito e, poi, l’uomo dinanzi al passare del tempo, al suo tragico e meraviglioso fluire.
Al pari delle terzine dantesche che contengono già in sé traccia dell’eterno per la loro capacità di ripetersi senza fine, Veneziani imprime una impronta di intramontabile, di imperituro, nell’uomo che l’arte ha il compito di liberare. L’Autore di un’opera feconda la mente del lettore che, di rimando, ne feconda il significato. Uno scambio di anime. Un sinallagma di passione, intelletto e nostalgia di futuro.
L’uomo è solo il suo presente, in cui passato e futuro sono in esso cancellati, sradicato da se stesso, autodeterminantesi in tutto? Senza confini né orizzonti? È puro materiale biologico alla propria mercé? Particella pulviscolare dove l’immensità, il senso di infinito, l’eterno non albergano?
Le pagine sull’arte e la preghiera, sulla vecchiaia, la morte, la potenza del ricordo, la famiglia nella sua normalità domestica, sui figli e sull’insegnamento scolastico, sono indelebili, imponderabili, irrinunciabili, imperdibili.
Riscoprire confini metaforici, morali e fisici, ricercare una nuova farmacopea alternativa all’“Io Panta Rei”, sovrano assoluto del transitorio, del temporaneo, dell’immanente, del desiderio erto a divinità, del “possibile quindi fattibile”. Indagare se sia ancora immaginabile un uomo che nutra una fiducia trascendentale, un uomo che ancora provi stupore e meraviglia innanzi al Mistero, in quanto tale intangibile, impalpabile, inspiegabile, posto al di fuori di sensi fatalmente fallaci. Guardare con nostalgia e comprensione il “restante” e l’appartenente (sperduto e impaurito) alla maggioranza. Una idea antica e nuova che volga lo sguardo all’amor fati e al Pinocchio che vuole diventare bambino e non a quello che si trasforma in asino.
Avaro di visioni sembra invece un libro, affidato alla scrittura, ma quando feconda il lettore e non serve solo a esaltare l’autore, ti apre altri universi. Ti fa vedere la vita e il mondo con altre menti, altri sguardi, altri colori. Ogni bel libro apre un mondo e ne chiude un altro. Ti apre la vita interiore, anteriore, ulteriore e superiore. Romanzo o saggio, ti permette di conversare coi morti e i non ancora nati, e con i distanti. Ti dona altre comunità, altre fratellanze. Ti fa capire che conformarsi all’oggi è solo una delle possibilità. Quante succinte eternità ti regala una lettura, quanti mondi diversi. Una pagina si apre e tu sei altrove. E un libro dopo l’altro ti donano se non l’ubiquità almeno la bilocazione, ti permettono di essere qui e là. Libertà allo stato puro.”.
Noi siamo foglie. Un giorno ci staccheremo dai rami e cadremo a terra. L’albero robusto, saldamente allacciato al suolo da ramificate radici, i cui rami sono ghermiti da un vento invisibile ma gagliardo, rimarrà a raccontare cosa siamo stati, cosa sono stati quelli che ci hanno preceduto, cosa saranno quelli che verranno dopo e ancora dopo, tutti momenti essenziali e irripetibili di una Eternità indecifrabile, di un Destino non imprigionabile nelle leggi della scienza, in cui una grande anima, come disse Seneca, si deve saper abbandonare.
Fabrizio Giulimondi

sabato 25 gennaio 2020

"FIGLI" di GIUSEPPE BONITO


Giuseppe Bonito ci racconta in “Figli” una Italia talmente bollita da far ritenere, tra il serio e il faceto, che un secondo figlio (di una coppia sposata, che va d’accordo e stabilmente occupata) sia un atto eroico, ai limiti della mission impossible. I bravissimi attori Paola Cortellesi e Valerio Mastrandrea si cimentano in un film grottesco, tendenzialmente deludente, spesso irritante, solo talvolta, specie all’inizio, divertente.
Figli” è una pellicola che esaspera le normali diatribe fra marito e moglie, le ansie dei genitori, la stanchezza della madre e la gelosia della sorella quando sopraggiunge il piccolo.
Il secondo figlio, per bocca del personaggio interpretato da Stefano Fresi, è un’autentica iattura.
Continuiamo così, facciamoci del male!
Fabrizio Giulimondi


venerdì 24 gennaio 2020

MAXIMILIANO HERNANDO BRUNO: "RED LAND" ("ROSSO ISTRIA")

 
 “Red Land” (“Rosso Istria”) di Maximiliano Hernando Bruno è un film rosso come la bauxite, rosso come la terra d’Istria, rosso come i panorami giuliano-dalmati, rosso come il ciglio di una foiba, rosso come il vestito della “voce narrante”, rosso come il sangue delle giovani ragazze italiane stuprate dai comunisti, rosso come le ferite delle torture inflitte dalla soldataglia slava, rosso come il sangue che ha imbrattato le pareti degli scantinati croati dei tormenti, rosso come le stelle al petto dei titini, rosso come il fazzoletto al collo degli italiani di quelle Terre che, dimentichi di avere dinanzi a loro antichi amici, profonde amiche, e madri e padri e fratelli e sorelle e zie e zii, per la loro feroce e obnubilante  ideologia marxista hanno consegnato amici e amiche e padri e madri e fratelli e sorelle e zie e zii al boia, agli stupratori, ai torturatori, alla bocca del mostro che nella terra ha ingoiato dal 1943 migliaia  di italiani in Istria, a Fiume, nella Dalmazia.
Da una parte lo sguardo limpido di una ragazza dolce e pulita, innamorata, legata alla famiglia e alla Patria, che stava per laurearsi, la cui unica colpa era essere figlia di un innocuo podestà fascista, dall’altra lo sguardo spietato, atono, senza luce, di un comandante titino, la cui faccia malvagia è intrisa di un sorriso perennemente beffardo e terrifico. E poi una lunga, interminabile, agghiacciante, violenza sessuale che taglia l’anima. Norma Cossetto, il volto della dolcezza e della speranza. Norma Cossetto, un indicibile orrore nei suoi occhi. L’avvicinarsi nella foiba che la fagociterà viva. Gli infoibati legati due alla volta da un fil di ferro ma solo uno dei due sarà ucciso con una pallottola. L’altro morirà nell’antro dell’Inferno. A Norma Cossetto è toccata la foiba.
Foibe oscure come decenni e decenni di negazionismo da parte della storiografia ufficiale.
Migliaia e migliaia di italiani sepolti vivi, torturati, stuprati, vilipesi, nella terra rossa giuliano-dalmata.
Gli attori sono formidabili e credo che a Selene Gandini l’impresa interpretativa di ricoprire il ruolo di Norma Cossetto sia costata uno sforzo imponente.
Il ritmo recitativo è di tipo teatrale e solo raramente cineastico e la luce che illumina i personaggi, in molte scene, evoca quella dei dipinti di Caravaggio e Rembrandt.
La cadenza narrativa sin dall’inizio crea uno stato di inquietudine, per divenire poi angoscia e impotenza. Implacabile. Bellissimo. Sconvolgente. Curato in ogni più tragico particolare. Impietoso nel non lasciare nulla all’immaginazione. Radioso nel coraggio di donne e uomini che hanno subito il martirio.
Red Land” è un dovere morale vederlo.
Fabrizio Giulimondi


martedì 21 gennaio 2020

"PRESUNTO COLPEVOLE. GLI ULTIMI GIORNI DI CRAXI" di MARCELLO SORGI

 















La mia libertà equivale alla mia vita.
"Presunto colpevole. Gli ultimi giorni di Craxi" del valente giornalista Marcello Sorgi (Einaudi), emoziona, commuove, avvince, tiene bloccato alla sedia il lettore a verità solo suggerite, appena accennate, un lettore intristito e mesto dinnanzi al crepuscolo di un Potere sotto il quale l'Italia diventò la quinta potenza mondiale.
Bettino Craxi. Aldo Moro. Storie, caratteri, stili, loquele e approcci differenti, statisti speculari fra di loro, accomunati da uno stesso destino, ossia "cadere vittime di una indifferenza e di una spietatezza che non si aspettavano, che non pensavano di meritare".
Il pool di Mani Pulite fra dottor Jekyll e Mr. Hyde, più Mr Hyde per alcuni versanti, specie quello craxiano.
Monsieur le Président fra malattia fisica e malattia giudiziaria, fra esilio e latitanza, fra contrasto alla sudditanza agli Stati Uniti e lotta indomita e senza quartiere al comunismo, in una terza via incarnata in una Italia sovrana e benestante.
I fatti di Sigonella del 10 ottobre 1985 nulla entrano in quello che avverrà dopo il 17 febbraio 1992 (arresto di Mario Chiesa)? E l'interlocuzione fra consolato americano a Milano e Di Pietro ed i giudici ambrosiani è un dato ininfluente nelle note vicende?
"In questo processo, in questa trama di odio e di menzogne, devo sacrificare la mia vita per le mie idee. La sacrifico volentieri. Dopo quello che avete fatto alle mie idee, la mia vita non ha più valore. Sono certo che la storia condannerà i miei assassini. Solo una cosa mi ripugnerebbe: essere riabilitato da coloro che mi uccideranno".
Leggendo "Presunto colpevole. Gli ultimi giorni di Craxi" e vedendo il bellissimo film di Gianni Amelio "Hammamet" sembra sentirsi "l'eco dell'ultima stagione novecentesca in cui la politica, le strategie, gli accordi, i compromessi, hanno ancora contato qualcosa in Italia".
Fabrizio Giulimondi

giovedì 16 gennaio 2020

"LA DEA FORTUNA" di FERZAN OZPETEK


 
"La Dea Fortuna ha un segreto, un trucco magico. Come fai a tenere sempre con te qualcuno a cui vuoi molto bene? Devi guardarlo fisso, rubi la sua immagine, chiudi di scatto gli occhi, li tieni ben chiusi. E lui ti scende fino al cuore e da quel momento quella persona sarà sempre con te.".
Il regista turco Ferzan Ozpetek è certamente un maestro delle inquadrature, delle carrellate di ambienti chiusi, eleganti, polverosi in antiche ville e moderne abitazioni, di primi piani che si impongono allo spettatore, di colorazioni purpuree e fotografie panoramiche grandangolari. "La Dea Fortuna" certamente prevale sull' ultima produzione artistica di Ozpetek per bellezza estetica e narrazione fluida, avvincente e avvolgente. Come parte delle sue opere, l'occhio da cui provengono le riprese rappresenta il punto di vista di un omosessuale, della sua visione di famiglia e dei rapporti con la figura della madre. In questo film ritroviamo le ambientazioni umane viste ne "Le fate ignoranti", con un tocco di umorismo, ironia e sorriso di pellicole quali "Mine vaganti" e "Saturno contro", insieme alla drammaticità di "Allacciate le cinture": una salsa agro-dolce fra tragedia e comicità con varie sfumature di tinte emozionali in mezzo.
Il pubblico è sollecitato a riflessioni di ampio respiro, da quella sul tradimento di due anni, che in una coppia eterosessuale avrebbe determinato una giusta e grave crisi e che in quella dei due protagonisti (il bravo Stefano Accorsi e l'ancor più Edoardo Leo) provoca soltanto un litigio ripianato in poche battute, degradate le "corna" ad evento naturale; a quella sulla interscambiabilità, a livello educativo e di sviluppo psicologico e della personalità, della presenza maschile e femminile e circa la fungibilità e sostituibilità dei ruoli fra padre e madre; sino al profilo inquietante della madre - fatalmente ed inevitabilmente disturbata - punto di confluenza di  una corposa letteratura psicologica e psichiatrica sull'argomento. L'interprete, la scrittrice Barbara Alberti, in modo possente esprime la convinta follia con una lunga immagine evocante alcune scene del "Dracula" di Bram Stoker.
Lo sguardo "senza pelle", dolce, disarmato e disarmante, il volto intenso e bello di Jasmine Trinca, coronano l'abilità estetica dell'Autore che circonda i protagonisti con una coralità di attori e attrici, in cui la presenza immancabile di Serra Yilmaz e delle sonorità e gestualità delle danze caucasiche costituiscono il fil rouge della filmografia del regista, destinatario di sicuri e meritati premi.
Fabrizio Giulimondi

domenica 12 gennaio 2020

“SOVRANISMO. LE RADICI E IL PROGETTO”, a cura di GIANNI ALEMANNO (HISTORICA-GIUBILEI REGNANI)


George Orwell intuì l’enorme portata della decostruzione linguistica. Cambiare significati, mutare gli stessi suoni familiari alla lunga rende afasici. Sfuggono le parole atte a esprimere i concetti, specie quelli non adattivi, antagonisti. ... Sotto il velo delle parole nuove, oscure, provenienti da un mondo arcano presentato come superiore, passano le cose peggiori. Per questo il nuovo ordine mondiale favorisce l’abbandono delle culture vernacolari, nazionali, affinché si imponga l’apolide globale prescritto dagli ‘iper-padroni.’”.
Che cosa è la sovranità nazionale? Che cosa il “sovranismo”? Cosa il mondialismo e la globalizzazione? E il nazionalismo?
Sovranismo. Le radici e il progetto”, a cura di Gianni Alemanno (Historica-Giubilei Regnani) è una ricca, densa, intrigante, molto utile, raccolta di interventi poliedrici di storici, economisti, giuristi, filosofi, accademici, giornalisti, politologi, sociologi, dirigenti pubblici e privati, professionisti e avvocati, che affrontano con pacatezza e rigoroso taglio saggistico una materia magmatica quanto estremamente attuale.
Il florilegio di trattazioni fanno affacciare chi legge su molti mondi, nuovi sistemi solari e variegati universi a seconda del punto prospettico che origina la riflessione.
La sua lettura assomiglia ad una avventura, una sorta di Camel Trophy, durante il quale si acquisiscono conoscenze e visuali inedite ed inaspettate, nostalgiche del futuro: “60 milioni di italiani all'estero, 60 dentro la Repubblica...realizzare quei collegamenti e quelle possibili sinergie fra scienziati, uomini di cultura, imprenditori ed operatori economici. Italianità è apertura di sentimento e di mente, l'italianità è il vestito della creatività. L'italianità è memoria e modernità, è il paradosso del futuro che non passa, perché sempre per noi diverso e per gli altri inconfondibilmente italiano.".
Tutto è consentito, tutto è permesso, tranne anelare di possedere proprie radici, desiderio considerato al pari di una bestemmia laica: “Cosa rimane di una persona privata, della propria identità di genere, di famiglia, di cultura, virgola, di religione e di comunità nazionale? Solo una pallida ombra omologata facilmente manipolabile e perciò incapace di andare oltre se stessa.”.
Il libro si inerpica nei frastagliati sentieri dello scibile umano e, il lettore, nell’imbattersi nel “dialogo” fra organizzazioni sovranazionali e democrazie nazionali, è colto da un malcelato dubbio: la determinazione democratica dei popoli risulta essere autentica o semplice frutto di concessione graziosa, “fino a quando essa sia espressione degli interessi economici prevalenti; diversamente è preferibile la dittatura”?
I vocaboli, gli idiomi sono importanti, anzi, fondamentali, per questo li si vuole decomporre come figure umane in dipinti cubisti, confondendo tutto in un amalgama terminologico, etimologico e semantico, che accomuna in una unicità nebulosa ciò che è separato, distinto e distante, radicalmente alieno, al pari del sillogismo “interesse nazionale, nazionalismo e guerra”.
Ogni dettaglio deve essere svelato, reso intellegibile, il mosaico visto da lontano, ogni tessera del puzzle posta una vicina all’altra, per capire, per comprendere, per innalzare l’intelletto sul Monte Tibidabo ed osservare, con non poca meraviglia, con stupore, il panorama nella sua profondità.
Nella corsa all’identico, si impone il grugnito globale pronunciato in una parlata meticcia e liquida come il resto della società, lo pseudo inglese globale, il globishLe parole definitive sul legame tra lingua, identità e vita le pronunciò Hegel: ‘È proprio della più alta cultura di un popolo il poter esprimere tutto nella propria lingua. I concetti che noi esprimiamo con parola straniere sembrano avere per noi qualche cosa di estraneo, che non ci appartiene propriamente ed immediatamente’”.
Dopo che lo avrete letto, nulla sarà più come prima.
Fabrizio Giulimondi