venerdì 24 luglio 2020

"SAGGIO SULLA LUCIDITÀ" di JOSÉ SARAMAGO



Saggio sulla lucidità” del Premio Nobel per la Letteratura José Saramago (Universale Economica Feltrinelli) è un calcio nel sedere nella più brutale realtà, resa fintamente fantascientifica: sono passati nove anni da “Cecità” (del 1995, mentre “Saggio sulla lucidità” è stato pubblicato nel 2004) e quattro dalle vicende raccontate in “Cecità”.
Bianco continua ad essere il colore dominante: bianco come la tinta perennemente vista dagli improvvisi e inspiegabili ciechi di massa in “Cecità” e bianca come la scheda riposta nell’urna dall’83 per cento della popolazione della Capitale.
Questa votazione fa saltare il sistema e impazzire il Potere.
Il colpevole di quella che è ritenuta una preordinata sommossa contro la democrazia deve essere trovato costi quel che costi, ed è qui che si palesa l’anello di congiunzione con l’opera precedente.
Questo tipo di letteratura sarebbe stata ascrivibile, prima dell’avvento del Covid, a quella distopica che vede capofila Orwell e Huxley, oppure a quella realistica e magica alla Murakami e Márquez, ma letta oggi diviene neorealista.
La lettura conduce a provare un fastidioso brivido nell’inconscio: è fantasia o potrò accadere sul serio o, peggio, sta già capitando?
La caratteristica estetica della tecnica grafica è sempre la medesima: lo scritto è compatto, senza soluzione di continuità, e le virgole seguite dalle maiuscole indicano l’inizio di una affermazione, di un discorso e di un dialogo; i punti interrompono la conseguenzialità ossessiva delle descrizioni delle interlocuzioni o degli accadimenti, determinando uno stato inizialmente inavvertito di disagio. Il lettore ha pochi secondi per recuperare il fiato, pochi secondi per attingere ossigeno dall’esterno: i pensieri sono pericolosi, come le idee e le parole, e vanno repressi, imprigionati, vietati, ma, attenzione, non in modo esplicito, ufficiale.
Lo faceva concentrato per tenere i pensieri a distanza, per farli entrare a uno a uno, dopo aver loro domandato cosa portavano, il fatto è che coi pensieri non c’è prudenza che basti, alcuni ci si presentano con un’arietta di ingenuità ipocrita e subito dopo, ma troppo tardi, manifestano quanto sono malvagi”.

Fabrizio Giulimondi 

martedì 21 luglio 2020

"TRA DUE MARI" di CARMINE ABATE (MONDADORI OSCAR 451)














 


È stata rieditata dalla Mondadori Oscar 451 la terza opera di Carmine Abate "Tra due mari" (2002). Chi conosce la produzione letteraria dello scrittore arbëreshë intravede in questo lavoro gli spunti artistici che saranno sviluppati ampiamente e morbidamente nei romanzi successivi, da "Il bacio del pane" a "La collina del vento", da "La felicità dell'attesa" a "La festa del ritorno" e "Le stagioni di Hora".
La Terra, le radici, la famiglia, quella autentica, che si riunisce in grandi cucine e gode della piccantezza di pietanze cucinate da mani antiche e della robustezza di vino rosso forte e denso, costituiscono il canovaccio dei libri di Abate. Le trame si alternano fra la Germania, il Trentino e la Calabria e Roccalba, in "Tra due mari", è "Hora" con un altro nome, luogo fisico e dell'anima, trasposizione-amarcord di Carfizzi, paesino calabro nativo dell'Autore: ne sentite gli odori e la calura e, ad un certo punto, l'afa vi attanaglia il respiro, che viene alleviato soltanto quando si accinge ad odorare il sambuco e il bergamotto.
Il Fondaco del Fico è uno spazio che può essere solo sterpaglia e serpi o un'area dove erigere un albergo e un ristorante: tutto dipende dalla risolutezza di Giorgio Bellusci; il Fondaco del Fico non è altro che la metafora della testardaggine e del riscatto, nonostante la cupa ombra incombente della 'ndrangheta.
La voce narrante è Florian, il ragazzino dietro al quale si cela Carmine Abate- Alexandre Dumas che, da decenni, ci accarezza l'anima con una letteratura composita, delicata, nella quale le parole profumano e i profumi tintinnano delle sonorità linguistiche dell'italiano, del calabrese, dell' arbëreshë e del tedesco, mentre le sonorità si mischiano  a pietanze saporitose, ad affetti intramontabili che le distanze non riescono a domare e a piante insradicabili  legate da radici robuste e impavide a zolle innaffiate dal sangue di  umanità fiere e mai vinte.
"Tra due mari", fra il sentore salino dello Ionio e quello pungente delle alghe del Tirreno, è estetica dell'intimità da cui ognuno di noi non può più fuggire.
È tempo di incamminarci verso Roccalba.
Fabrizio Giulimondi  

domenica 12 luglio 2020

"OHIO" di STEPHEN MARKLEY



La gente trascorre la propria vita quasi in coma, ignara del substrato fisico che la circonda.”.
Oramai i grandi romanzi sono targati a stelle e strisce come è ampiamente confermato dall’opera prima di Stephen Markley (Einaudi) “Ohio”, romanzo che sviluppa un reticolato di storie al cui interno si affollano volti poliedrici come voci di un coro, dissonanti sì fra di loro, ma diretti verso un’unica direzione.
Seppur nel limite della ideologia liberal e degli stereotipi del politicamente corretto che costringono conservatori e tradizionali ad essere necessariamente brutti e cattivi, contrapposti a luminescenti omosessuali portatori salvifici di un nuovo credo, il lettore è catturato dalle descrizioni di ambientazioni mai eguali e dalla penetrazione negli anfratti delle personalità dei personaggi.
Questo lavoro – seguendo modelli consolidati della cinematografia e letteratura americana - non cessa di imbastire i pezzi di stoffa di cui è fatta la società giovanile oltreoceano: droga, alcol e sesso orgiastico e disperato come spartiti di una ruvida colonna sonora che si sovrappone ad esistenze demolite, demolitrici e autodistruttrici. Dio è morto e la sua ricerca dileggiata perché qui regna la dissoluzione dell’individuo ove tutto è consentito, tranne l’immersione nella propria anima. La famiglia è assente e, se legata a valori religiosi, aspramente dileggiata. Le molteplici metafore sono poetiche che, inanellandosi fra di loro, compongono un mosaico stilistico fatto di reiterati richiami che riempiono in maniera immaginifica e simbolica la polpa delle parole. V’è la potenza artistica della truculenza, di corpi sfracellati nella sabbia afgana e irachena. Il lettore cammina su un campo innaffiato con l’irrisione, l’irriverenza, il disprezzo, i disturbi alimentari, l’autolesionismo, la sindrome da stress post-traumatico, la neo-religione ecologista, gli stupri, gli sballi annichilenti e la perdita di coscienza e di conoscenza di se stessi. “Ohio” dipinge antropologicamente una massa anodina di giovani che nel proprio annullamento si cercano: Stacey non smette mai di farlo;  Dan non cessa in alcun momento di essere un bravo ragazzo e le membra dei commilitoni gettate in aria lo incupiscono ma non mutano la sua nobiltà d’animo; Lisa recita l’ego anarchico che accomuna quasi tutti, ma che in lei, pura energia nichilista, raggiunge l’apice orgasmatico: “E’ molto probabile che noi siamo tra i miliardi di simulazioni simulate da altri simulatori, semplici creazioni di altre simulazioni al computer.”.
Ohio” colpisce e in modo disturbante, nella sua “assenza”, nel suo rigirare il coltello nell’antro nascosto che v’è in ognuno di noi, che forse si ritroverà in tutti o in nessun personaggio. “Ohio” racconta della materia che viene privata dello spirito e si polverizza in un percorso labirintico, mai luminoso, spesso scuro e cupo, nel quale strade, stradine e vicoletti incastrati fra catapecchie si perdono per non incontrarsi più.
Certi momenti possono sembrare interminabili. Come se li avessi vissuti miliardi di anni prima, quando sono nati gli oceani e si sono scatenati i fulmini e il corso di ogni esistenza veniva tracciato nelle tenebre.”.
Fabrizio Giulimondi