Mo Yan (il cui
significato è riconducibile a “non
parlare”), pseudonimo dello scrittore e sceneggiatore Guan Moye, è nato in
Cina, nella provincia dello Shandong, da una famiglia di contadini, il 17
febbraio 1955. Per molti anni ha lavorato al dipartimento culturale delle forze
armate della Repubblica Popolare. Ha scritto numerose opere narrative, fra cui
i romanzi, i racconti e le novelle di
maggior pregio sono Sorgo Rosso
(1997), L’uomo che allevava i gatti
(1997), Grande seno, fianchi larghi
(2002) e Il supplizio del legno di
sandalo (2005). Nello stesso anno ha vinto il premio Nonino per la letteratura internazionale.
Nel 2012 gli è stato assegnato il Nobel per la letteratura.
Le sei
reincarnazioni di Ximen Nao (Einaudi editore), è un lavoro corposo formato da 730 pagine,
cinque parti e cinquantotto capitoli, che immerge il lettore per tutta la
durata del libro in un mondo fisico e metafisico molto più distante delle reali
latitudini spaziali e lontananze temporali.
Primo gennaio del 1950: Ximen Nao, un ricco proprietario terriero, è
stato giustiziato dai suoi mezzadri alla vigilia della rivoluzione comunista
cinese condotta da Mao Zetong (26 dicembre 1893 - 9 settembre 1976). Da due
anni vive nel mondo delle tenebre. Sebbene subisca i più dolorosi e crudeli supplizi,
rifiuta di pentirsi: è convinto di avere avuto una vita giusta e di essere
stato immeritatamente condannato. Re Yama, il terrifico signore della morte,
stufo di lui, gli conferisce la
possibilità di reincarnarsi nei luoghi ove ha vissuto la sua vita terrena.
Ximen Nao crede di poter riprendere possesso della moglie, delle due concubine,
della terra e degli altri suoi averi. In realtà il suo corpo rinascerà animale
e prenderà le sembianze, nell'arco di cinquanta anni, di un asino, di un toro,
di un maiale, di un cane e, infine, di una scimmia.
Seppur collocato ad un livello inferiore della gerarchia delle forme di
vita in seno alla natura, Ximen Nao mantiene un ruolo di protagonista e di
“capo” nelle sue diversificate vestigia animali, non cessando mai di essere
l’unico e il vero dominus del
romanzo.
Al momento di congedarsi dagli inferi e di tornare nel nostro mondo,
Ximen Nao si rifiuta di bere una pozione che gli consentirebbe di dimenticare
il passato e di liberarsi progressivamente delle pulsioni umane, del desiderio,
dell’odio, della sete di vendetta: vuole che
le esperienze avute come essere
umano rimangano saldamente impresse nella sua memoria di bestia.
Giungerà il momento in cui re Yama consentirà a lui di riassumere l’aspetto di
uomo: il 31 dicembre del 2000, la notte che vedrà la nascita del nuovo
millennio, nascerà un bambino di nome Lan Qiansui (translitterato: Lan mille anni), con un corpo piccolo e magro e la testa insolitamente grande, una
memoria eccellente e una parlantina sciolta. È il “bambino dalla testa
grossa” che il giorno del suo quinto compleanno incomincerà la narrazione della
propria esistenza dal primo gennaio 1950.
Lan Qiansui è la sesta e ultima reincarnazione di Ximen Nao: il cammino
di liberazione dal fardello del rancore è stato completato e re Yama ha
consentito che egli riacquistasse fattezze umane.
Il racconto è di grande effetto e
pieno di spunti di notevole interesse intellettuale.
Ogni pagina è pregna di detti e adagi popolari, leggende, concezioni
filosofiche ed esistenziali orientali, di motti, proverbi e saggezza cinese, di
usanze matrimoniali e funerarie e consuetudini locali, di credenze mediche e pratiche
farmacologiche, di principi buddisti e pensieri confuciani, di teorie marxiste-leniniste
ed interpretazioni ideologiche maoiste, di
costumi sociali e storie di vita rurale quotidiana, di descrizioni della
struttura economica socialista e dell’ordinamento verticistico del partito
comunista cinese a livello centrale e periferico.
Ogni pagina palesa l’opulenza dei gerarchi di partito rispetto alle
misere prospettive delle miriadi di agricoltori, allevatori ed operai,
obbligatoriamente astretti fra di loro in comuni
e alle loro anonime ed umili abitazioni tutte eguali, con il mobilio
marcescente e l’aria di cui il lettore ne respira chiaramente la polverosità.
Ogni pagina dipinge la campagna similmente ad una pittura facendone
sentire l’intensità dei profumi. Da ognuna di esse trapelano cultura, tradizioni
e mentalità contadina e filtrano gli effluvi delle frittelle cucinate nelle
strade e l’afrore delle case, il ticchettio delle scarpette folcloristiche
femminili dell’estremo oriente, il tamburellare secco degli zoccoli agresti
maschili, il clangore, la confusione e l’inquinamento dei grandi centri urbani,
dove si muovono disordinatamente masse di persone come pulviscolo nel vento.
L’odore delle eroine del romanzo si
propaga, facendo immaginare il loro
modo di vestire e la particolarità dell’acconciatura dei capelli; parimenti
affascinante è il trattamento che ogni pagina riserva agli uomini, abbondantemente
descritti nella loro fisicità e nella loro maniera di fare, di comportarsi e di
manifestare le proprie abitudini, ponendoli a confronto con l’altra metà del cielo.
Il sottofondo di ogni pagina è la nenia provocata dagli strumenti
musicali tipici e di antica fattura, con sonorità talora tediose, mentre le
medesime pagine scandagliano la famosa ars culinaria con gli occhi a mandorla che trasforma in pietanza qualsivoglia
vivente, bipede o quadrupede che sia, eccettuati ovviamente gli ominidi.
Ogni pagina è ricca della geografia dei luoghi, generosa nella
rappresentazione della flora che adorna
i paesaggi del Paese dei fiori di loto con un variopinto florilegio di piante,
boccioli e corolle, sempre attenta ad ogni genere di animale e ai molteplici
aspetti faunistici, non disattendendo le metodologie di coltivazione degli
appezzamenti di terreno e le tecniche di allevamento del bestiame.
Ogni pagina esalta teneri rapporti familiari e coniugali e forti vincoli
solidaristici familiari.
Numerosi sono i riferimenti ad opere letterarie, teatrali e cinematografiche dell’epoca rivoluzionaria, inclusi
i continui richiami (finzioni artistiche? stratagemmi? artifizi letterari?) agli scritti -
di cui vengono riportati interi brani - dello stesso Mo Yan, che assume nella storia le
vesti di un onnipresente personaggio,
con caratteristiche professionali (e umane?) identiche allo stesso Autore, un
po’ antipatico, primo della classe e
pedante.
Non solo: anche la grande letteratura russa viene presa in esame, come quella
rappresentata da Il placido Don di
Michail Solochov, attraverso il quale il Premio
Nobel descrive potentemente lo strazio dell’innamorato che perde
all’improvviso la propria amata.
L’approccio favolistico ricorda Erodoto, la visuale è fantasiosa e
l’ottica visionaria fa pendant con i grandi cineasti cinesi e
giapponesi. Lunghi periodi legano scene ivi descritte di particolare intensità
erotica ad alcune immagini della pellicola L’impero
dei sensi del recentemente scomparso regista giapponese Nagisa Oshima,
immagini che appaiono fugacemente in chi
legge come sprazzi, quasi subliminari, di ricordi.
Viene ripercorsa la storia della Cina - con il supporto di chiare note
esplicative a piè di pagina e di minute
sintesi nel prologo di ogni capitolo - dalle prime dinastie antecedenti alla nascita
di Cristo; alle due guerre cino-giapponesi
(1894-1895; 1937-1945); all’era comunista maoista, sorta con la sconfitta nel 1949 a Nanchino ad opera
dell’esercito di liberazione popolare guidato da Mao delle milizie condotte da
Chiang Kai-shek, leader del Partito
Nazionalista del Kuomintang, diventato poi il movimento di maggioranza che ha
governato per anni Formosa (oggi Repubblica di Cina su Taiwan); alla guerra di
Corea (1950-1953) e alla rivoluzione
culturale (1967-1969), al termine della quale ha trionfato la tradizione
ortodossa maoista su quella maggiormente “riformista” di Deng Xiaping, nuovo
segretario del partito comunista cinese nel 1978, dopo il breve interregno biennale
di Hua Guofeng (1976-1978), conseguente
alla morte di Mao il 9 settembre 1976.
Il dittatore- tiranno - fatherland ha
lasciato decine di milioni di morti alle sue spalle a cagione dei laodai,
i campi di lavoro e di rieducazione sorti nel 1957 su tutto il territorio
nazionale (di cui in questi giorni il Governo cinese ne sta ponderando la
chiusura), affini ai Gulag sovietici e ai lager nazisti, oltre che a seguito delle
scellerate e criminali politiche agricole e della forzata industrializzazione
realizzata manu militari. Mo Yan, degli orrori di quella
stagione, ne parla in penombra,
soffusamente, velatamente.
Gli ultimi capitoli si ambientano in una Cina bifronte sul piano
sociale, fra modernità e feudalesimo, centaura sotto l’aspetto economico, tra
capitalismo e socialismo reale, saldamente totalitaria a livello
politico-governativo.
Un cupo moralismo fa da scenario alle vicende di tutti gli attori che si
affacciano, anche secondariamente, nella trama, implementato, invece che ridotto,
dall’avvento del sol dell’avvenire.
Il finale è delicatamente poetico, dolcemente drammatico,
malinconicamente triste, reso tenuamente crepuscolare da un tramonto nascosto –
se presterete attenzione - fra le pieghe
delle parole e delle righe.
Fabrizio Giulimondi