“La sostanza del male”, opera prima di Luca d’Andrea (Einaudi),
ha sbancato alla Fiera del Libro di Londra e sono ben trenta le case editrici in giro per
il mondo pronte a pubblicarla.
Colpisce
la definizione di “thriller” perché tale non è, salvo le ultime 50 pagine su
449. La peculiarità sta proprio qui. Sembra di essere dinanzi una riedizione
di Moby
Dick di Herman Melville: sullo sfondo e lungo la narrazione v’è la
presenza della balena bianca che, però, compare solo alla fine.
La
storia, ben curata e scritta, si snocciola in provincia di Bolzano fra
tradizioni, freddo e una crudele,
cruenta e ignominiosa strage di tre ragazzi. L’orrore è prima solamente
accennato, piano piano si deposita pigramente sullo sfondo, per poi, con l’incedere del racconto,
emergere sempre più incisivamente per approdare ad un finale lungo, spettacolare,
zeppo di coupe de theatre. La
conclusione si articola in più finali che si affastellano fino a giungere alla
verità che farà balzare il lettore sulla sedia, a cui è rimasto incollato nelle
ultime due ore. E’ il ritmo narrativo
incalzante che caratterizza il genere thriller ed è questa cadenza che manca
per tutto il corpo del libro e si affaccia, però, in modo virulento negli ultimi
capitoli. Sul palco del romanzo in realtà vi sono i legami affettivi di una famiglia, i
sentimenti del protagonista per la
moglie, la figlioletta e il suocero: un forte amore coniugale e filiale e il terrore di perdere tutto, perché
la famiglia è tutto e viene innanzi tutto.
Introspezione,
intimità, amabile e delicata descrizione di scene di vita quotidiana, di come
padre e figlia comunicano fra di loro tramite l’indicazione del numero di
lettere che compongono una parola, come cinque lettere, amore…come quattro lettere, papà… come cinque lettere, mamma…
come cinque lettere, Bestia…come cinque lettere, ascia… come cinque lettere,
morte…come quattro lettere, fine.
Fabrizio Giulimondi