“La follia è stata a lungo considerata una
malattia contagiosa. I folli, come i lebbrosi, portano impresse su di sé le
stimmate del peccato e se sono così come sono, schifosi e impuri, è perché
portano marchiato il segno inequivocabile del male assoluto”.
Non
è facile parlare di un capolavoro.
Come
si fa a parlare di un agglomerato di bellezza artistica, stilistica e
letteraria e di un contenuto che ti strappa l’anima? Simona Vinci è la Donna Tartt italiana, capace di una incontenibile
ars scribendi percepibile a livello
tattile in ogni periodo e frase e
concetto e idea ed emozione.
Simona Vinci ci
ha abituato ai casi letterari, da quando nel 1997 ha donato al pubblico Dei bambini non si sa niente, tradotto
in molte lingue e venduto anche oltre oceano.
Simona Vinci si
è vista riconoscere il Premio Campiello 2016 con “La prima verità” (Einaudi), dimostrando con questa vittoria che il Campiello ha oramai
sopravanzato lo Strega.
La
copertina anticipa le storie del libro: una foto dell’artista belga Robin Vandenabeele
che ritrae un bambino che potrebbe essere un piccolo malato mentale come potrebbe essere un fantasma, perché i malati
mentali sono fantasmi e quest’opera parla di fantasmi. Uomini abbandonati in
manicomi-lager, al pari di quello ubicato
a Leros, un’isola greca “senza carattere”
nascosta nell’arcipelago del Dodecaneso nel mar Egeo, o di quello a Freetown
nella Sierra Leone, o di quelli sparpagliati silenziosamente per l’Italia. A
Grugliasco, nelle vicinanze di Torino, v’era una struttura psichiatrica nei cui
meandri fu trovata e fotografata una bambina nuda e legata al letto: la foto pubblicata nel 1970 dal settimanale “L’Espresso”
ha accompagnato ossessivamente con la
sua orripilante e violenta coercizione
la stesura del romanzo.
Sono
malati mentali, sono fantasmi, sono entrambi, e si proiettano instancabilmente dal
passato al presente per far conoscere la verità al futuro, perché il passato è
come un fantasma: “Il passato non si seppellisce e non si decompone, ma continua a vivere,
con la sua eco dolorosa e distruttiva dentro quelli che vengono dopo”.
Ma
si sta parlando di un romanzo? La linea di congiunzione fra creazione
intellettuale, biografia e autobiografia è sfumata e imponderabile come
l’orizzonte nel deserto del Sahara dove lungo la linea dell’orizzonte terra e
cielo sono fusi in una inarrivabile e inestricabile zona che non è né terra né
cielo, né corporeità né sublimazione dell’etereo. Angela che nel 1992 insieme
ad altri operatori umanitari e sanitari europei ispeziona il manicomio-lager di Leros, dopo la denuncia di un
giornale inglese ed una risoluzione del Parlamento europeo, è l’Autrice? Oppure
la Vinci è la ragazzina di Budrio,
con una madre disturbata e segni di squilibrio che cominciano ad affacciarsi
anche in lei? Oppure è la ragazza con l’amica anoressica che andrà in giro per manicomi
italiani e poi esteri, per imbattersi in quello africano e greco? La fotografa
Antonella Pizzamiglio che bloccando in una rigida immagine cartacea i pazzi di
Leros toglierà il coperchio dalla pentola, mostrando gli inferi ad un convegno
di psichiatri ad Atene e, quindi, al Mondo, è forse la Scrittrice?
Sì,
inferi e orrore, orrore ed inferi: è lì
che vi inabisserete, vi inabisserete in un baratro da cui si potrebbe non
risalire. Entrerete in danteschi gironi infernali percorrendo un incubo da cui
non vi sveglierete perché quell’incubo è fatto di realtà, inalterata dal
dopoguerra ai giorni d’oggi, una realtà che parte da Leros, per attraversare la
Sierra Leone a approdare a Burdio, cittadina nativa della Vinci nell’hinterland bolognese. Di Leros lo scrittore inglese Lawrence Durrell ebbe a dire: “ Che Dio aiuti chi ci nasce, viene da dire,
chi ci vive e chi ci viene a morire…Sono assolutamente d’accordo col poeta
Focilide, che usò il nome di Leros per buttar fango su un nemico, per sua sfortuna
nato proprio qui”. Leros, la macchia assolata nell’Egeo dove si svolse la
battaglia britannico-germanica durante la seconda guerra mondiale - come
ci è tramandato a livello filmico dal cult
americano del 1961 I cannoni di Navarrone
(ove erroneamente si parla dell’isola di Keros), - e dove dopo qualche anno quattromila
dannati furono inghiottiti, fagocitati, masticati in una Gehenna laica: matti e
detenuti politici a seguito del colpo di stato dei Colonnelli del 21 aprile
1967; matti e prigionieri oppositori del regime militare orribilmente torturati
nel corpo; matti che hanno visto replicare ed incarnare in Leros il Male
Assoluto di Auschwitz, come vagheggiò già
malato di tumore John Merritt, uno dei
primi giornalisti che scoprì le bolge dell’isola greca. Matti: “Lutti, depressioni, fasi maniacali, fobie,
disturbi dello spettro autistico, alcolismo, droga. Ansia. Disperazione. Paura
e povertà, che produce tutto il resto”.
Un
libro che devasta, demolisce, penetra senza riguardi, con implacabile
prepotenza, negli anfratti sconosciuti dell’animo del lettore, gettandolo nella
psiche di vittime e carnefici, nella abiezione
dell’umano essere: abusi sessuali, pedofilia, incesto, aborti praticati da
mammane, usurpazione di corpi e menti e
anime di donne sottoposte al dominio ordinariamente arcigno di mariti e padri e
fratelli, proprietari indiscussi di
sventurate, fatalmente anoressiche, inevitabilmente annullate nelle proprie più
intime interiorità, ineluttabilmente suicide, anche senza morte.
La
bellezza di un’isola, i suoi colori, con “troppo
mare, troppo cielo, troppa aria”, contrastano con i colori pietrosi, grigi, scuri, anonimi, bui
delle strutture manicomiali, delle divise della polizia torturatrice militare e degli infermieri, che altro non erano che disperati o aguzzini o
entrambi, senza alcun titolo, bisognosi soltanto di un misero stipendio per
mantenere famiglie chiuse anch’esse in un tunnel senza uscita.
E’
un’eco quella che si narra, l’eco di vite non vissute, negate, obbrobriose nel
loro sterco, nella loro urina e nel loro vomito, vaganti in altre dimensioni
che non possono essere percepite, udite, viste, ascoltate sul pianeta Terra.
“La prima verità” è
un titolo rubato ad un verso del poeta greco Ghiannis Ritsos, nascosto nelle
vesti di uno dei tanti personaggi le cui esistenze o non esistenze vengono
raccontate con impietosa umanità in questo capolavoro. Ghiannis Ritsos è
Stefanos, il comunista arrestato, torturato e risucchiato nel buco nero di Leros
e della tirannide dei Colonnelli, ma è anche il poeta Stefano Tassinari, a cui
è dedicata quest’ opera.
E la
poesia si nutre del dramma, ne trae la sua migliore linfa. La narrazione è
ricca di interpolazioni poetiche che ci parlano di tragedie e di sofferenze
abissali come solo la poesia sa fare. Prosa e poesia che parlano dei figli
della guerra e dell’ignoranza, sommersi, affogati in un dolore senza fondo e
senza fine, dove Dio è abbinato ignominiosamente a quegli abusi, a quegli
aborti, a quelle donne serve che perpetuano la loro schiavitù nelle figlie, cui
spetterà lo stesso immutabile destino a
cui non possono sfuggire.
La
poeticità è musica essa stessa, ma la fatica letteraria della Vinci necessita anche della sonorità dei
brani cantati da Milva e Dalida e del ritmo del sirtaki.
“La prima verità” è poesia,
prosa, fotografia, cinema, musica ma anche pittura, come i tanti Trittici di Hieronymus Bosch, il pittore
fiammingo quattro-cinquecentesco che con il suo pennello ha raffigurato visioni
terrifiche su cui la mia mente si è soffermata mentre si impossessava di alcuni
passaggi del libro.
“Una
prima verità” non esiste da nessuna parte: “Tutti
i malati di mente, i pazzi, i diversi, gli inquieti, i maniaci, gli
psicopatici, gli ansiosi, i depressi, i suicidi, i morti in vita, i mostri, i
mattucchini del passato sono qui. Ognuno racconta i suoi bisogni, e i sogni,
gli incubi, i desideri, la sua versione dei fatti e hanno ragione perché una
prima verità non esiste da nessuna parte”.
La
legge Basaglia n. 80 del 1978 con il tempo ha, almeno in parte, spazzato in
Italia tutto questo oceanico raccapriccio e i medici psichiatri stimatori di
Basaglia hanno consegnato al passato l’infamia ellenica.
“Ho smesso di pensare alla disperazione di
quei giorni in cui scoprivo un mondo di dolore elementare e solido come un
sasso sbattuto sulla testa…La realtà delle cose che accadono non è fatta della
stessa materia dell’immaginazione, né dell’anticipazione o del racconto di ciò
che è successo ad altri”.
P.s.:
La bellezza del romanzo non contrasta con la granitica durezza dei temi in esso
trattati e, di conseguenza, ne sconsiglio la lettura ai minori e agli adulti dotati
di particolare sensibilità.
Fabrizio Giulimondi