“Ma
c’era un quadro di lui, rivelatore, negli anni tristi seguiti a Miguel, un
quadro di grandi proporzioni, lo sfondo nero e cobalto, grappoli di fuoco al
posto delle stelle sparite, alberi spogli neri e bruciati, e al centro il
menino, il bambino, angoli aguzzi le spalle, angoli aguzzi le mani chiuse e
strette al petto, occhi vuoti e orbite nere, croci ovunque e di lontano, come
rimembranze, labili apparenze di sogno, una donna col capo reclinato sul suo
piccolo in atto di protezione e di amore. Alberi spogli simili a mani
imploranti. Quasi immateriale, piccolo e indifeso nel gran fragore e nella
morte, nella guerra e nell’abbandono, la criança, la creatura innocente doveva
essere il simbolo, un totem onirico e morale.”.
Quando si riesce a rendere palpabile la
Bellezza non è agevole parlarne.
Scrivere un romanzo autobiografico
come si dipinge un quadro. La parola come il colore. La parola usata sulla carta
come una pasta pigmentata su un acquerello, sino a non riuscire più a vedere i
contorni che li differenziano.
L’Autrice è dentro la parola e, in
maniera raffinata, la manovra. Questo è
il libro delle parole e dei colori che si appaiano con tratti incerti, persi in
un orizzonte confuso e tremolante simile a quello del Sahara immerso in una
nube di sabbia rosso fuoco. La Sarti
dipinge con la scrittura e la penna è un pennello usato con maestria che dà vita
a parole che incarnano emozioni allo stato brado.
Non si capisce se una parola sia tale
o, invece, sia un colpetto di spatola su una tavolozza o la voce di Edith Piaf
o il fermoimmagine di una strada affollata di San Paolo o di un villaggio polveroso
africano o, semplicemente, uno dei tanti mattoni di una magnificente opera
architettonica.
“Di
ocra e di cobalto” è un lago placido cui improvvisamente irrompe un sasso
violentemente lanciato, una passeggiata su una morbida moquette che muta in una
distesa di spilli per diventare poi di chiodi, o il profumo di un fiore rosso
acceso che prima sprigiona un delicato sentore di miele, per pungere
inaspettatamente l’olfatto del lettore con un aroma acuto e penetrante.
“Di
ocra e di cobalto” è un instancabile flusso di energia, è un andare e
tornare, un salire scale che non hanno abbastanza pioli per discenderle.
Si odono da un luogo indecifrabile i
ritmi malinconici della bossa nova e
i suoni che usciranno dalle pagine conducono per mano il lettore a danzare la batucada.
E’ un libro errante, un incessante
peregrinare di Dario, mentre la sua amata moglie Maria vaga ininterrottamente
lungo sentieri impervi dell’anima che nessuno riesce a scrutare.
Un tocco leopardiano inebria d’immenso
gli occhi soggiogati da parole che non racchiudono ma sono racchiuse da spazi
infiniti, come le grandi foreste amazzoniche o la stilizzata ed algida
Brasilia. Dal tappeto magnifico di aggettivi e giochi sintattici emergono
Dario, Maria, Bruno, Lele e Miguel, come da una pittura la cui prospettiva si
acuisce sempre più prepotentemente sino a fuoriuscire dal quadro come un
bassorilievo: i loro sentimenti, emozioni e stati d’animo, prima tenui e
soffusi come la luce ambrata e gentile di uno studiolo shakespeariano, irrompono
nella narrazione senza più riguardi per alcuno, senza pelle, disincarnati nella
loro più brutale autenticità nel tramonto della storia, non concedendo più
scusanti alla saudade, alla
malinconia, alla tristezza, alla sconfitta.
Come direbbe Sartre, la gardenia è un
fiore che abbellisce il giardino di Maria o, forse, è il fiore che decora i
capelli di Maria o, meglio ancora, è una parola che diventa una chiazza
purpurea che si compone in fiore o, in realtà, non è altro che una voluminosa
gardenia che si fa parola per impreziosire di flora tutta la storia?
Personaggi che delicatamente incedono
e avanzano lungo lo sfogliare delle pagine per mostrare la loro tragicità
ellenica solo al termine.
La parola che, poliforme e polimorfa,
germoglia in architettura e musica e danza e pittura e impenetrabile quanto
vigorosa scultura, ma anche in ornamento floreale; una trama che, posizionata
in un primo momento sullo sfondo del palcoscenico, balza all’improvviso sul
proscenio con fare accigliato.
La prosa abbraccia la poesia in un amoroso
ed indistinguibile amplesso. Pagine immacolate che invadono lo spazio per
conferirgli un senso di non più procrastinabile morte, di rassegnata fatalità,
di destino a cui non ci si può più opporre, di solitudine carica di un amore
denso come il sangue rappreso, di un irrinunciabile desiderio di tornare ad una
forma eterea.
E’ il vecchio uomo addormentato che
sogna di essere diventato una farfalla gialla – si domanda il “trovatore”
Branduardi - o è la farfalla gialla che
sogna di essere un vecchio uomo addormentato alle radici di un albero?
Immergersi in un mare di letteratura
per naufragare in essa: come è dolce questo abbandono in segni tinti
nell’inchiostro “di un cielo imprigionato
dai fili”!
“La
base su cui noi camminiamo è il quotidiano e le persone che noi amiamo sono
quelle che ci salvano o ci portano alla distruzione. Siamo sempre accompagnati
da una solitudine che ignoriamo, da un amore che non conosciamo appieno.”.