L’ultimo
lavoro di Carmine Abate “L’albero della fortuna” (Aboca) è la prosecuzione di una
narrazione lunga anni che evoca storie raccontate a ragazzini con occhi sgranati
dinanzi al fuoco. L' "Albero della
fortuna" emoziona i suoi lettori, una emozione che dura da tempo e che
prende la forma dei libri dell’Autore arbereshe. "L’albero
della fortuna” è una lunga e intramontabile nostalgia che commuove il
lettore e non lo abbandona per giorni.
La
storia di un albero di fichi può vivere del respiro della Comunità che lo
ospita e che si nutre dei suoi dolci frutti. Il racconto della vita di un
albero di fichi può far conoscere la vita degli abitanti dei luoghi che lo
accolgono, come sono accolti loro stessi dall’albero, rinfrescati dai suoi
lussureggianti rami.
“L’albero della fortuna” è come una
tavola imbandita che profuma del pane che viene baciato, odora intensamente
della pianta di bottafichi, possiede il gusto antico della pasta al forno, di
sapori dimenticati. Eccole, sonorità di feste antiche, di "feste del
ritorno", le cui note vibrano ancora. Eccole, parole gioiose che hanno radici
nell’anima dell’Autore, segni ancestrali di affetti incancellabili, di tempi e
spazi dimenticati e ritrovati.
Stile
morbido, pastello, delicato, caldo, che incede con tratti di penna fatti di
sentimenti perduti che rivivono ad ogni pennellata d’inchiostro, inferta da un Abate che squarcia il velo e irrompe in
una dimensione in cui non è più ma vorrebbe tornare.
Linguaggio
infarcito di succulenti vocaboli calabresi, succulenti come le pietanze che
vengono descritte e di cui il lettore sente il bruciore del peperoncino sul
palato.
Fra
prosa e poesia, non si riesce a vedere la linea di demarcazione fra l’una e
l’altra: una prosa poetica, una poesia prosastica.
Abate è come Nuni Argentì,
riesce a trasformare le parole in immagini nitide che scorrono davanti agli
occhi di chi legge come un film.
Abate vorrebbe fermare il
tempo, ma non può, e allora come un novello Virgilio ci guida sognante per
farci vagheggiare, almeno un'altra volta, almeno un’ultima volta, anche a noi.
Fabrizio Giulimondi