“Vagavo tra le note di cronaca dei miei avi,
stupendomi di ritrovarvi piccoli guizzi di vita, pensieri, preoccupazioni,
eventi lieti e tristi, impennate d’orgoglio, malumori; e ancora: eclissi,
alluvioni, terremoti; casi domestici e accadimenti storici quali guerre, pesti
e lotte di potere.”.
Quando
la lettura fa entrare chi ne gode in altre dimensioni dell’essere.
“Il Duca” di Matteo Melchiorre (Einaudi)
- candidato al Premio Strega 2023 - è un
groviglio di racconti di ascendenti e discendenti in un tempo nel quale il
presente ed il passato si fondono ed il lettore, grazie allo stile, alla
struttura linguistica ed al mosaico terminologico adoperato, non riesce a
percepire l’attualità della narrazione, pensando di galleggiare in un perenne prolungamento
delle vicende degli avi del protagonista.
Le
vicissitudini della famiglia nobiliare dei Cimamonte attraversano i secoli
legando le esistenze degli uni a quelle degli altri in un inestricabile nodo
gordiano. Nella villa del Duca lo spazio fisico si dilata nei luoghi dove i
parenti e gli stretti congiunti del Duca hanno combattuto o lordato le loro
esistenze.
Fra
metafora e realtà le parole trascinano il lettore in direzioni sconosciute o
impalpabili.
Questo
romanzo è un inno alla parola che vive di vita autonoma, respira fuori dai
polmoni del libro, possiede un proprio apparato cardiaco.
Le parole
risuonano in modo sinfonico, cantano con voce melodiosa, giungono odorose, dialogano
fra di loro, si colorano tinteggiando il rposcenio circostante, emanano sonorità,
abbeverano il lettore. Le parole ritmano la narrazione dandole giocosità
musicale, mutando la lettura in una recitazione fra prosa e poesie.
Parole
onomatopeiche, ricercate, sofisticate, eleganti, aristocratiche, sottratte alla
caducità del tempo, scoperte in polverose e spettrali biblioteche, radicate in
vernacoli locali, antiche, dal significato ancestrale. Il gusto per le parole
perdute. La parola che si impone al pensiero e che amoreggia con la trama mescolandosi
ad essa in un intarsio semantico di rara bellezza.
Ogni
essere umano è uno, nessuno e centomila perché sono molte le maschere indossate
da ogni individuo, un tutt’uno con la propria. Il Duca le scopre vivendo nella villa
ritrovata, in località che portano nomi usati da Plinio il Vecchio o partoriti
nell’antichità: anche i borghi, quindi, indossano una specifica maschera, costringendo
gli abitanti ad essere altro da ciò che sono. Le maschere sono gabbie: la
montagna è una gabbia; la villa è una gabbia; Berua è una gabbia; Vallorgana è
una gabbia; Fastreda e il Duca si sono costruiti una gabbia ove si sono
rinchiusi.
La
vita maschera una gabbia che imprigiona gli uomini.
Il
mistero permea ogni trancio di pagina ed il Chronica
Cimamomtium contiene un segreto simile a quello nascosto nell’orciolo
scoperto fra le pieghe della lussuosa magione.
“Io volevo uccidere il passato di cui ero
stato schiavo per troppo tempo, volevo scaraventarlo nel pozzo del passato che
tracolla, perché il modo giusto per liberarsi del passato non è dimenticarlo, ma
conoscerlo… a congedarmi dal concilio dei miei avi e a restituire a quell’opprimente
consesso di trapassati le invisibili catene che per troppo tempo avevano legato
ogni mio passo.”.
Fabrizio Giulimondi