Quando abbiamo a che fare con Marcello
Veneziani siamo ben consci di imbatterci nella densità di un pensiero che
si impone sugli effluvi culturali imposti alle masse.
“Vico dei miracoli. Vita oscura e
tormentata del più grande pensatore italiano” (Rizzoli) accompagna
il lettore nelle pieghe misteriche della filosofia di Giambattista Vico, entro i
confini del “Cilento mistico e magico, agreste e patriarcale, parco di
parole, generoso di frutti”, della “napolitudine” e delle mura perimetrali
di una Napoli esoterica, alchemica, mistica e magica.
Veneziani, con suo stile antico e affascinante,
effettua una indagine endoscopica dell’opera vichiana e del suo sommo lavoro “La
scienza nuova”: “opera unica, inimitabile in cui convergono saperi diversi
che s’intrecciano: storia e filosofia della storia, archeologia e antropologia,
filologia e letteratura, scienza e diritto”.
Vico contrasta l’Illuminismo che oppone
la scienza alla fede, affasciando entrambe nell’“unità di mito, religione e
filosofia, legati in principio della poesia”.
Come Dante, Vico vuol collegare “cielo
e terra, storia e metafisica, mito e realtà” con acutezza e profondità, ma
anche in modo criptico, quasi oracolare. Non potrebbe essere altrimenti in una Napoli
barocca e metafisica, bagnata dal Mediterraneo ponte fra Oriente e Occidente: “Non
possiamo estraniare il pensiero di Vico dalla storia e dai luoghi in cui è
stato concepito; è pensiero profondamente italiano, latino, mediterraneo,
cattolico, meridionale, partenopeo”. Assistiamo in questo saggio all’inveramento
del senso più autentico del genius loci.
Le riflessioni interpolate da
inflessioni dialettali proiettano le pagine di Veneziani oltre il nostro
tempo ed il nostro spazio, nel tempo e nello spazio che furono di Vico, non
appartenenti più ad un tempo storico o ad uno spazio geografico, ma all’”Ultroneo”,
a ciò che non è più qui ma nell’“Altrove”.
Il Mito, che permea le ultime opere
di Marcello Veneziani, allunga il suo sguardo dalla Grecia classica e la
Roma imperiale agli abbozzi di strade napoletane settecentesche e alle coste di
una Campania spagnola, asburgica e borbonica reduce da antiche glorie, non più
viventi ma oramai eterne.
Fabrizio Giulimondi