“Nel
mondo una volta c’era tua madre e ora non c’è più, c’era un corpo, una voce, un
flusso di pensieri, un insieme di gesti riconoscibili, di vezzi lessicali e
idiosincrasie, e ora non ci sono più”
Si può
recensire una emozione?
Si può
recensire una lunga e possente emozione?
Si
può?
“Mi
limitavo ad amare te” di Rosella Postorino (Feltrinelli) - seconda
al Premio Strega 2023 (prima in pectore), vincitrice del Premio
Campiello nel 2018 (“Le assaggiatrici”) e di numerosi altri prestigiosi premi
letterari - è una lunga e possente emozione. Un romanzo scritto con l’inchiostro
della emozione e dei sentimenti più profondi e drammatici, dove la solitudine governa
la storia ed è dentro gli occhi dei bambini di Sarajevo, fuggiti in Italia dall’”Assedio”
(5.4.1992-29.2.1996) e dai cecchini cetnici che si divertivano ad ammazzare i
figli davanti alle madri per godere della loro insaziabile angoscia e sofferenza.
Vi sarà
difficile dimenticare le ragazze ed i ragazzi co-protagonisti della trama.
A Omar
vogliono imporre una madre e un padre. Ma lui la madre già ce l’ha, e anche una
casa e una città, Sarajevo. Omar sente che la madre è ancora viva anche se
tutti dicono che è morta.
Nada
ha i capelli biondi e un coltello le ha tolto un dito. Lo dice anche il nome:
lei non è nulla ma vorrebbe tanto essere qualche cosa. Nada vorrebbe unire la
sua solitudine con quella di Danilo che vuole dimenticare Sarajevo, i cetnici,
la guerra, le teste mozzate dei serbi con cui i croati giocano a pallone. Anche
Sen, fratello di Omar, vuole lasciare nell’oblio quella puzza di morte e orrore
ed essere solo e unicamente italiano. Jagoda, sorella di Danilo, non vuole
dimenticare, vuole ritornare, perché il balbettio della paura e dell’ansia la conduce a dover aiutare prima sua madre e poi suo padre. Azra, la madre di Danilo e
Jagoda, mollerà quando tutto sarà finito, perché solo quando tutto è finito
esplode ciò che lei ha visto e ha vissuto: gli stupri etnici, una crudeltà
senza alcun limite umano. Dio qui non c’è.
Ivo è
il fratello di Nada, ha conosciuto la guerra. Non capiva perché doveva uccidere
qualcuno ma lo ha dovuto fare. Questa guerra non gli appartiene più e sarà una
madre prostituta che pensava di non avere più a salvarlo e a fargli incontrare di
nuovo la sorella Nada. Nada, però, vuole dire “Niente” e neanche il fratello la
vuole, ma la speranza è dura a morire e una nuova vita fa assumere alla
esistenza tutto un nuovo colore e sapore.
Nino è
la speranza. Nino è la vita: “Nada diventò madre in quel momento, lei che
non era mai stata figlia”.
Sul sottofondo
il vociare buono ed aspro di suore e volontari che impegnano il tempo a dare un
nuovo e diverso tempo a chi ha conosciuto sin da bambino l’inferno in terra.
“Doveva
soffocare la speranza. Ma la speranza gli turbinava nella pancia e nella testa
e nella gola”.
Il
dolore permea tutto, come la solitudine, e contribuisce alla solitudine, perché
separa anime e corpi.
Il
dialogo notturno bolognese fra Danilo e Nada produce brividi su brividi,
sospende il respiro e accelera i battiti, dà corpo ad atmosfere che non si
disciolgono al calare delle parole.
La
guerra è una nuvola nera impenetrabile che, una volta che si dirada, non lascia
nulla come prima corrompendo e decomponendo al suo passaggio qualsiasi essere
umano e qualunque luogo.
La Postorino
con intima bellezza racconta la devastazione interiore che un figlio incontra
quando perde tragicamente i propri genitori e la sua rinascita, nella scoperta
della loro esistenza in vita.
“È
strano pensare che il corpo che ti ha messo al mondo non sia più al mondo, che
il luogo da cui hai avuto origine sia scomparso, è come se il mare avesse
inghiottito la terra in cui sei nato”.
Un
racconto che segna. Un racconto indelebile.
“Non
vi capisco, aveva replicato Ivo, con questa idea che voler vivere sia più
logico o più sano che arrendersi alla morte. Non è più saggio lasciare che la
morte ci prenda, dato che è inevitabile?”.
Fabrizio
Giulimondi