László Krasznahorkai, vincitore del Premio Nobel per la letteratura 2025, con la sua opera particolarmente
rappresentativa del proprio tocco artistico “Avanti va il mondo” (Bombiani,
2024), traccia le ragioni per le quali è stata vista la sua letteratura
dominare su quella degli altri aspiranti al prestigiosissimo riconoscimento.
Allucinatorio, onirico, surreale, ectoplasmatico,
vaneggiante, sganciato dalla realtà, una realtà evanescente assorbita nel
profluvio di parole incastonate in periodi lunghissimi privi di punti. L’assenza
dei punti conferisce alla lettura un ritmo ansiogeno e martellante, togliendo
al lettore il respiro e dando vita ad uno stile distonico a quello tradizionalmente
adoperato. Come la pittura cubista e astratta ha rotto i canoni stilistici dell’arte
figurativa classica, lo scrittore magiaro irrompe nell’ars scribendi deformandone i paradigmi rimodulati non secondo le
regole estetiche canoniche, bensì nella volontà di inceppare i meccanismi misteriosi
delle emozioni umane.
Le storie narrate non hanno un inizio
e non possiedono una fine perché al momento della narrazione esse sono “già
incominciate” e non si concludono affatto perché spetta a noi compiere l’attività
creativa di individuarne una.
Krasznahorkai
costruisce i ventuno racconti intorno ai dettagli più minuti e insignificanti,
perché il significato sta nell’insignificanza e nella osservazione di ciò che
sfugge alla quotidianità.
Shangai, Varanasi e altre città non possiedono
una loro consistenza geografica ma rappresentano soltanto una scenografia che
circonda la parola, unica e vera protagonista dell’esercizio letterario: i
personaggi, gli spazi, i comportamenti, gli oggetti sono secondari, è la parola
e la sua composizione, correlazione e confluenza in altre parole a dominare
tutto, è l’irrealtà della parola a primeggiare sulla realtà delle cose.
L’opera letteraria di Krasznahorkai traspone in letteratura le
modalità recitative di Carmelo Bene: il suono della parola sovrasta il vociare
noioso degli individui. Nell’Amleto di Carmelo Bene il frastuono incalzante della
interpretazione teatrale mette in secondo piano le vicende del principe danese.
Non v’è né realtà né irrealtà in
quanto il lettore vaga in un terzo genere esistenziale, in un iperuranio
letterario.
Una sinfonia scomposta di fonemi, un
nuovo modo di concepire la scrittura, lo schema classico che cede il passo ad
una destrutturazione della composizione letteraria ridisegnata secondo i
dettami dell’anima che ne viene inevitabilmente scossa, come quando si rimane a
lungo innanzi ad una figura umana ripensata in modo non umano.
Le assonanze e le dissonanze, le
armonie e le distonie dei vocaboli non sono la base delle ventuno storie
narrate ma sono le ventuno storie stesse.
Fabrizio Giulimondi
