“Miele”, opera prima come regista dell’attrice Valeria Golino, liberamente tratta dal romanzo di Mauro Covavich "A nome tuo", riprende il tema della eutanasia, già affrontato in chiave più ideologica e politica da Marco Bellocchio ne “La bella addormentata”.
Il percorso della trama del film, proprio per l’argomento affrontato, non è una passeggiata, e lascia perplessi la mancanza di divieti, non certo per le scene, che non scendono mai in eccessi ma fanno sempre un passo indietro, ma per la fatale angoscia che la storia infonde nello spettatore.
Miele è il nome “di servizio” di una ragazza che accompagna – a pagamento – persone che, ritenendosi spacciate a causa di patologie devastanti e costrette alla conduzione di una esistenza segnata da terribili sofferenze e annientamento della propria corporeità, chiedono la c.d. “dolce morte”.
Miele si procura un barbiturico per uso veterinario per soppressione di cani in Messico e, se ne va poi in giro per le Città italiane, su segnalazione di un medico che non appare mai (un novello Kevorkian, il “dottor Morte” statunitense che ha ucciso centinaia di persone e deceduto nel 2011), a somministrarlo, rimanendo vicino al “paziente” sino alla fine, curando persino il sottofondo musicale, la presenza di bevande alcoliche, dolciumi e la soddisfazione di ulteriori desiderata precedentemente palesati dal moriturus.
L’intensità e la bellezza del volto di Jasmine Trinca (Miele) è simile a quella tratteggiata dal sottoscritto nella recensione relativa a “Un giorno devi andare” (pubblicata su questa stessa “Rubrica”): anche nella pellicola della Golino v’è il senso di non appartenenza della protagonista (appunto Jasmine Trinco), come se, pur stando in quel luogo vorrebbe stare in un altro, perché il primo non le appartiene, non appartenendole probabilmente neppure il secondo.
La ricerca in “Un giorno devi andare” è positiva, è profonda è spirituale, è ricerca di Bene e di Bello, in “Miele”, invece, l’azione di Irene (questo è il suo vero nome) si ammanta di umanità ma, in realtà, non è altro che profusione di morte.
Questo finché non incontra un signore, interpretato dal grande Carlo Cecchi, che vuole morire, non per sfuggire ad una condanna a morte dovuta ad una terribile malattia, ma per noia, disinteresse a tutti e tutto.
L’etica professionale di Miele non lo può consentire: lei presta ausilio ai morenti, non ai depressi! Ecco che viene a crearsi un sostegno reciproco, che condurrà la ragazza ad un ripensamento sulla propria “professione” e l’anziano signore…..
Altamente consigliato, nella speranza di vederlo vittorioso a Cannes.
Fabrizio Giulimondi
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