Una storia banale, come quella di una donna di 38 anni con due figli e un cane lasciata dal marito per una più giovane, nelle mani di Elena Ferrante diventa un ruvida carezza dell’anima. “I giorni dell’abbandono” (edizioni e/o), seconda opera della “misteriosa” Ferrante - antecedente alla quadrilogia/capolavoro L’Amica geniale – da cui è stato tratto l’omonimo film di Roberto Faenza, è un viaggio introspettivo, compiuto con il sempiterno stile affascinante della scrittrice, lungo la sofferenza di una moglie e il travaglio di una madre sino al suo risorgere, “ab inferos usque ad sidera coeli” (Marsilio Ficino).
Questa
volta non parlerò io, ma l’Autrice stessa.
“Cosa c’entrava lei brutta puttana, cosa c’entrava
con quella linea di discendenza. Si atteggiava a bella fica con le cose mie,
che poi sarebbero diventate le cose di mia figlia. Apriva le cosce, gli bagnava
un po’ il cazzo e si immaginava che così l’avesse battezzato, io ti battezzo
con l’acqua santa della fica, mi immergo il tuo cazzo nella carne madida e lo
rinomino, lo dico mio e nato a nuova vita. La stronza. Perciò credeva di avere
diritto in tutto e per tutto a prendere il mio posto, a fare la mia parte,
puttana di merda……..Mi aveva tradito con lei per cinque anni, in segreto, un
uomo doppio, due facce, due flussi separati di parole……Ma erano soprattutto le
immagini impercettibili della mente, le sillabe scarse, che mi facevano paura.
Bastava un pensiero che non riuscivo nemmeno a fissare, un semplice guizzo
violaceo di significati, un geroglifico verde del cervello, perché mi riapparisse
il malessere e mi montasse dentro il panico…..Dove sono? In che mondo mi sono
inabissata, in che mondo sono riemersa? A quale vita mi sono restituita? E a
quale scopo?......Il futuro – pensai – sarà tutto così, la vita viva insieme
all’odore umido della terra dei morti, l’attenzione insieme alla disattenzione,
i balzi entusiastici del cuore insieme ai bruschi cali di significato. Ma non
sarà peggio del passato….Esistere è questo, pensai, un sussulto di gioia, una
fitta di dolore, un piacere intenso, vene che pulsano sotto la pelle, non c’è
nient’altro di vero da raccontare.”
Fabrizio Giulimondi
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