“Sarebbe bello se l’io fosse un’Illusione,
anche se comunque sarebbe un’illusione dolorosa”
“Le particelle elementari” (Bompiani) è la terza opera di Michel Houellebecq che recensisco. Lo
scrittore francese, famoso per essere l’autore di “Sottomissione”, a causa del
quale è stato messo sotto scorta per le minacce di morte islamiste, ha
partorito un romanzo particolarmente complesso, consigliabile a persone
maggiorenni che non si infastidiscano dei numerosi e troppi passaggi
erotico-pornografici che punteggiano – fastidiosamente – la narrazione incisiva,
affascinante, affabulante, coinvolgente, intelligente, erudita e tormentata.
Lo
scrittore attraverso la più brutale e violenta decadenza morale dei
protagonisti, due fratelli e le loro “amiche” costellanti il proprio mondo, percorre
il tramonto dell’Occidente (per dirla con Spengler) per aver sprezzantemente
messo da parte e cancellato la sua storia, le sue radici e la sua spiritualità.
Houellebecq è un Virgilio che indica
al mondo quanto possa essere infernale la vita degli uomini quando essa è
costruita con le fondamenta e le mura fatte della più pura e materialistica
libertà. La tensione del racconto è proprio verso la spiritualità e la religione
tramite l’illustrazione di una tossica disperazione e di una venefica solitudine
malata di sesso. Il lavoro si regge su tre gambe: la solitudine, la
disperazione e una sessualità putrida e forsennata, sino alle aberrazioni snuff del satanismo.
L’elemento
erotico e pornografico è presente in ogni scritto di Houellebecq ma qui
assume un connotato esasperato e esasperante, vero baricentro della storia e
forza motrice autodistruttiva e di isolamento esistenziale. La parte più cupa e
disgregante della letteratura e della cinematografia di Pasolini permea non
pochi momenti narrativi e descrittivi de “Le
particelle elementari”. La liberazione transalpina ed europea dei costumi
ha condotto l’uomo al più tragico solipsismo. Il senso di invecchiamento,
inutilità, malattia e morte avvolgono drammaticamente ed inesorabilmente gli
attori quarantenni (in realtà ancor prima) del romanzo, mentre la libertà
assoluta e deificata accompagna loro in direzione del totale vuoto interiore, del
tutto privo di una prospettiva di futuro, ove i figli non si possono più avere perché
l’aborto non è un atto di liberazione ma di negazione (“Non si rendeva conto di vivere l’esperienza concreta della libertà;
qualunque cosa fosse era terribile, e Annabelle era destinata a non essere più
la stessa, dopo quei dieci minuti”). Il vuoto aleggia per tutta la lettura,
impregna le parole ed assorbe il lettore che lo percepisce come reale,
conseguenza di un edonismo lugubre e asfissiante che non ha emancipato i protagonisti
ma li ha resi servi.
Accattivanti
la fungibilità fra modelli scientifici e sistemi di pensiero completamente
diversi fra di loro, come la fisica, la biologia, la chimica e la letteratura, oltre
l’interscambio fra profonde riflessioni filosofiche e teologiche con studi tecnico-scientifici.
Possenti
e chiarificatrici, riassuntive dell’idea che sottende centinaia di pagine da
leggere, nonostante passi brutali e finanche disgustosi, sono queste poche
righe: “Coppia e famiglia rappresentano l’ultima
isola di comunismo primitivo in seno alla società liberale. La liberazione
sessuale ebbe come effetto la distruzione di queste comunità intermedie, le
ultime a separare l’individuo dal mercato. Un processo di distruzione che
continua oggigiorno.”.
Fabrizio Giulimondi
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