Si definisce rapporto giuridico ogni relazione fra due soggetti prevista e regolata dal dall’ordinamento giuridico. Il rapporto giuridico è una relazione fra le parti, ossia fra il soggetto attivo titolare di una posizione di vantaggio (diritto soggettivo; interesse legittimo) e il soggetto passivo titolare di una situazione soggettiva passiva ( obbligo, dovere, onere, soggezione).
Le posizioni che un soggetto assume nell’ambito di un dato rapporto giuridico prendono il nome di situazioni giuridiche soggettive.
Come anticipato, le situazioni soggettive possono essere:
- attive, quando attribuiscono una posizione favorevole al soggetto che ne è titolare, legittimando la prevalenza del titolare nei confronti di quello di altri soggetti;
- passive, quando consistono in posizioni sfavorevoli per il titolare e prevedono la subordinazione del proprio interesse rispetto a quello di altri soggetti.
Ogni soggetto di diritto rappresenta un centro unitario di imputazione di situazioni giuridiche. La capacità giuridica, che si acquista al momento della nascita, è attitudine di un soggetto ad essere titolare di rapporti giuridici, cioè di diritti ed obblighi. Dalla capacità giuridica si distingua la capacità di agire, che si acquista al raggiungimento dei diciotto anni, che è l’attitudine dei soggetti a compiere atti idonei a costituire, modificare o estinguere la propria situazione giuridica.
· Diritti soggettivi
La dottrina configura il diritto soggettivo come quella posizione giuridica soggettiva di vantaggio che l’ordinamento giuridico conferisce ad un soggetto, riconoscendogli determinate utilità in ordine ad un bene, nonché la tutela degli interessi afferenti al bene stesso in modo pieno ed immediato.
Il diritto soggettivo, quindi, può essere definito come la pretesa, direttamente prevista e tutelata dall’ordinamento, a che tutti gli altri soggetti si astengano da determinare ostacoli alla libera fruizione di un certo bene oggetto del diritto( diritto assoluto), oppure che un soggetto titolare di una posizione passiva( dovere, obbligo), faccia o non faccia alcunché, ovvero compia una prestazione( diritto relativo o di credito).
Per quanto riguarda la tutela dei diritti soggettivi, in particolare va detto che normalmente è rimessa al giudice ordinario e, solo nei casi tassativamente previsti, al giudice amministrativo (c.d. giurisdizione esclusiva)
· Gli interessi legittimi
L’interesse legittimo è una situazione giuridica soggettiva individuale che ha trovato riconoscimento nel nostro ordinamento con la legge 5992/1889, che ha istituito la IV sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato quale giudice di quegli interessi sostanziali diversi dai diritti soggettivi.
Di interesse legittimo si occupano espressamente anche tre disposizione della Costituzione (artt. 24, 103 e 113) ma nessuna di loro ne fornisce una definizione.
In particolare l’interesse legittimo viene definito come la situazione giuridica soggettiva di vantaggio, costituita dalla protezione giuridica di interessi finali che si attua non direttamente ed autonomamente, ma attraverso la protezione indissolubile di un altro interesse del soggetto, meramente strumentale, alla legittimità dell’atto amministrativo e, soltanto nei limiti della realizzazione di tale interesse strumentale.
Mentre il diritto soggettivo è una posizione autonoma, perché compiutamente configurata dalla stessa previsione di legge e, dunque, spettante ad una persona sulla base di un titolo che può avere la natura più varia, ma che non dipende da una Pubblica Amministrazione, l’interesse legittimo si esprime in termini di posizione inautonoma, in quanto l’utilità sperata cui tende l’ interesse del privato dipende dalla intermediazione provvedi mentale dell’amministrazione pubblica.
L’interesse legittimo è necessariamente correlato all’esercizio del potere amministrativo, come disciplinato dalle c.d. norme di azione: il provvedimento amministrativo subentra comunque o come oggetto di un aspirazione (domanda di suolo pubblico per installarvi una edicola), o come oggetto di una ripulsa( impugnazione del decreto di espropriazione)
La teoria maggiormente seguita dalla dottrina per inquadrare la natura giuridica degli interessi legittimi è quella c.d. normativa.
L’interesse legittimo si caratterizza non solo perché si differenzia da altri interessi, ma anche per essere qualificato. Esso è incluso insieme con l’interesse pubblico nella norma attribuiva del potere la quale definisce, sia pure in astratto, tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda.
Va al riguardo superata la tradizionale impostazione, secondo la quale la norma attributiva del potere alla Pubblica Amministrazione si occupi esclusivamente dell’interesse pubblico, disinteressandosi degli interessi privati, coinvolti a titolo meramente riflesso. Difatti, l’interesse pubblico non è entità che possa ignorare o conglobare meccanicamente gli interessi privati: ne deriva che la norma attributiva di potere non può ignorare tale rapporto ma, nel momento che conferisce tale potestà per il perseguimento dell’interesse pubblico, finisce per prendere in considerazione gli interessi privati, delineando i rapporti fra questi ultimi e quelli di natura pubblica, ossia i limiti e le modalità per la compressione dei primi.
Tale orientamento è confortato dal principio costituzionale di imparzialità che informa l’organizzazione e l’azione amministrativa , principio che impone al soggetto pubblico di perseguire l’interesse pubblico sempre correlandolo agli interessi privati.
Gli interessi legittimi, quindi, sono presi in considerazione dalla norma attributiva del potere nel momento in cui essa fissa, a tutela della posizione dei singoli, limiti e modalità di esercizio del potere medesimo.
Pertanto è palesemente un interesse non solo differenziato ma anche qualificato in ragione del fatto che è preso in considerazione unitamente agli interessi privato.
L’interesse legittimo può dunque definirsi come la posizione di vantaggio conferita ad un soggetto dell’ordinamento in ordine di un bene oggetto di potere amministrativo e, consistente nell’attribuzione al medesimo soggetto di poteri atti ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile l’interesse al bene.
A maggior ragione dopo l’approvazione della legge sul procedimento amministrativo ove il potere amministrativo si esercita previa cooperazione e confronto degli interessi pubblici con quelli privati.
Di conseguenza l’interesse legittimo non può più essere considerato come posizione giuridica indirettamente protetta, bensì autonoma e sostanziale del privato che partecipa alla scelta discrezionale della Pubblica Amministrazione e, altresì, oggetto diretto di tutela giurisdizionale.
Il diritto soggettivo e l’interesse legittimo si differenziano fra di loro principalmente per il grado di protezione e per le diverse forme di protezione.
Grado di protezione: il diritto soggettivo consta di poteri atti a soddisfare sempre e pienamente l’interesse materiale, mentre l’interesse legittimo è tutelato non immediatamente e pienamente, ma in funzione della realizzazione dell’interesse pubblico generale attraverso l’esercizio del potere pubblico.
Le forme di protezione: la titolarità del diritto soggettivo legittima il privato ad ottenere, in sede amministrativa o giurisdizionale, soltanto pronunce di natura reintegratorie o risarcitorie, mentre l’interesse legittimo offre la possibilità di tutela più ampie e differenziate, come: il potere di chiedere l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo al giudice amministrativo; il potere di provocare la rimozione dell’atto amministrativo attraverso l’utilizzo dei ricorsi amministrativi; il potere di partecipare al procedimento amministrativo anteriormente alla formazione dell’atto; il potere di dare inizio al procedimento amministrativo quando sia previsto dalla legge.
Dalla valutazione comparativa dell’interesse legittimo e del diritto soggettivo si può desumere la incomparabilità delle due posizioni giuridiche soggettive attive per la loro disomogeneità.
L’interesse legittimo presenta aspetti positivi e negativi sotto il profilo della tutela rispetto al diritto soggettivo. Il titolare dell’interesse legittimo può partecipare al procedimento amministrativo o farlo promuovere, potendo altresì ottenere l’annullamento del provvedimento di cui si sia accertato che abbia leso l’interesse stesso, effetto che non può esser ottenuto nella ipotesi di lesione del diritto soggettivo. La violazione di esso, invece, può concludersi con un risarcimento in forma specifica o per equivalente, a differenza dell’interesse legittimo che, prima dell’emanazione della sentenza della Cassazione 500/1999, non poteva assolutamente ricevere questa tipologia di tutela.
Questa pronuncia, unitamente alle riforme legislative che si sono succedute in questi ultimi anni ( legge 205/2000; l.15/2005 e riforma del processo amministrativo 104/2010) hanno condotto all’assottigliamento della differenza di tutela fra le due figure in esame.
Anche l’interesse legittimo in caso di sua violazione causata da un provvedimento illegittimo può essere risarcito in forma esecutiva (ossia ottenere specificatamente proprio il bene della vita a cui esso interesse è correlato) o per equivalente (ossia tramite la dazione di denaro corrispondente al valore del bene oggetto del’interesse) sia in sede di giurisdizione di legittimità ( ossia afferente la lesione dei soli interessi legittimi) sia di giurisdizione esclusiva (ossia che implica non solo gli interessi legittimi ma anche i diritti soggettivi inscindibilmente connessi con i primi).
Interessi collettivi e diffusi
Le situazioni giuridiche soggettive attive che rilevano nell’ambito dell’ordinamento sono rappresentate dal diritto soggettivo e dall’interesse legittimo, ed entrambe possono avere sia una strutturazione individuale che ultraindividuale.
Il problema che la dottrina e la giurisprudenza si sono posti a proposito degli interessi ultraindividuali è stato, in primo luogo, quello della loro qualificazione giuridica, nel senso della costruzione di una terza categoria giuridica soggettiva distinta da quelle tradizionali del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo, nonché quello della loro autonoma tutelabilità in sede giurisdizionale.
Gli interessi collettivi sono quegli interessi (es.: interesse alla salute, alla tutela dell’ambiente) che fanno capo ad una ben determinata collettività di individui quali associazioni culturali, partiti, comitati di cittadini etc.
Si distingue fra interesse collettivo e interesse diffuso:
a) Interesse diffusi (o adespoti) sono quelli comuni a tutti gli individui di una formazione sociale non organizzata e non individuabile autonomamente;
b) Interessi collettivi: sono, invece, quelli che hanno come portatore un ente esponenziale di un gruppo non occasionale, della più varia natura giuridica (es: ordini professionali, associazioni private riconosciute, associazioni di fatto), ma autonomamente individuale.
L’interesse collettivo è:
- differenziato: in quanto fa capo ad un soggetto individuato e cioè ad una organizzazione di tipo associativo che si distingue tanto dalla collettività che dai singoli partecipanti; da ciò consegue che la lesione dell’interesse collettivo legittima al ricorso solo l’organizzazione e non i singoli che di essa fanno parte;
- qualificato: nel senso che è previsto e considerato, sia pure indirettamente, dall’ordinamento giuridico.
La proliferazione sempre maggiore di nuovi gruppi organizzati e di associazioni di tipo internazionale ha notevolmente contribuito alla graduale trasformazione in interessi collettivi di alcuni diritti, come quello alla tutela dell’ambiente in forza dell’art. 2 della Costituzione; quello alla salute ai sensi dell’art. 32 Cost e, infine, quello dei consumatori alla genuinità dei prodotti ed a un equo costo degli stessi.
La tutela procedimentale
La tutela di interessi collettivi in sede amministrativa non deve essere valutata solo riguardo all’esperibilità del ricorso amministrativo o giurisdizionale, ma anche in un momento precedente, e cioè durante il procedimento di formazione dell’atto amministrativo.
Infatti, nell’ordinamento italiano, ancor prima della consacrazione, ad opera della legge 241/90, della regola del giusto procedimento, quale regola generale dell’azione amministrativa, erano presenti molte ipotesi in cui la legge attribuiva il potere di presentare osservazioni, deduzioni, proposte e soggetti estranei alla P.A. procedente.
Il principio del contraddittorio procedimentale e segnatamente della legittimazione partecipativa dei portatori di interessi collettivi, è stato sancito, in via generale, dall’art. 9 della legge 241/1990 che ha previsto la facoltà dei “portatori di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati” di intervenire nei procedimenti amministrativi relativi ad atti da cui possa loro derivare un pregiudizio.
· Il processo amministrativo
Prima di procedere all’analisi del processo amministrativo è opportuno, preliminarmente, porre l’attenzione su alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto, occorre specificare che il termine processo indica quell’iter sequenziale nel quale, o mediante il quale, si svolge l’operazione logica del giudizio, inteso quest’ultimo, come qual processo logico consistente nella soluzione della controversia.
Partendo da tali premesse, la Dottrina ha sempre cercato di fornire una definizione del processo amministrativo che tenesse conto delle peculiarità del nostro sistema giurisdizionale, da un lato utilizzando quale criterio identificativo quello della qualità del giudice deputato a risolvere la controversia: a tale riguardo è opportuno definire il processo amministrativo come quel giudizio che si celebra davanti al giudice amministrativo e, in particolare, al giudice amministrativo che appartiene al complesso T.A.R.-Consiglio di Stato; dall’altro, invece, ponendo l’attenzione sulla tutela delle situazioni giuridiche soggettive, coinvolte nella controversia, identificando il processo amministrativo come quel processo finalizzato alla tutela delle situazioni soggettive che il cittadino vanta nei confronti della Pubblica Amministrazione: in linea generale alla tutela degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi ( art.103, comma 1, Cost.).
La distinzione tra tali situazioni giuridiche soggettive è stata da sempre oggetto di analisi da parte degli studiosi del diritto processuale, in quanto su tale dicotomia hanno basato, in linea di massima, il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo.
Da più parti si è, però, iniziato a dubitare della validità di una simile distinzione, anche sulla scorta della sempre maggiore influenza del diritto comunitario, al quale è totalmente estranea qualsivoglia tipologia di classificazione. In tale contesto è da rilevare una interessante posizione dottrinaria la quale, partendo dalla considerazione che detta distinzione è considerata, secondo un orientamento sempre più diffuso, come “un arnese obsoleto”, ha messo in evidenza che una cosa è l’interesse legittimo quale situazione soggettiva che colloquia con il potere amministrativo discrezionale, il cui riconoscimento consente il controllo giurisdizionale di detto potere, altra cosa è assumere la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi quale criterio di riparto delle giurisdizioni.
Dal primo punto di vista appare difficile negare il valore garantistico del riconoscimento degli interessi legittimi che, sia pure con diverse denominazioni, sono perfettamente conosciuti negli ordinamenti europei continentali.
In linea con tale impostazione è sicuramente la considerazione, oggi affermata anche dalla Suprema Corte di Cassazione e dalla Corte Costituzionale, della unitarietà della funzione giurisdizionale, la quale implica che, a prescindere dalla situazione soggettiva fatta valere, deve essere sempre garantita la tutela in sede giurisdizionale del cittadino. In particolare, in un importante passo della sentenza della Corte Costituzionale n. 77 del 12 marzo 2007, si legge: “se si considera che gli artt. 24 e 111 Cost. assegnano all’intero sistema giurisdizionale, nella sua unitarietà, la tutela giurisdizionale di diritti soggettivi ed interessi legittimi, senza operare, quindi, alcuna distinzione di sorta, si arriva a comprendere come tale funzione non possa essere compromessa dalla pluralità dei giudici, ordinari e speciali, che non può e non deve tradursi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale”.
Quale che sia una valida definizione di processo amministrativo, è chiaro che si tratta pur sempre di un tipo di processo, con proprie caratteristiche, distinto e preordinato”, rispetto a quello civile, del quale non può dirsi che ne costituisca una species.
Il processo amministrativo, che si inserisce nell’ambito dei mezzi di giustizia amministrativa, ha, nel tempo, subito una evoluzione mirata a imprimere una maggiore celerità al giudizio ed a realizzare una pienezza di tutela del cittadino nei confronti della Pubblica Amministrazione.
Conseguenza diretta di tale impostazione è data dall’evolversi dell’oggetto sostanziale del processo amministrativo che non può più dirsi circoscritto al solo provvedimento impugnato.
Ed infatti se è vero che il processo amministrativo nasce come tipico processo di legittimità del provvedimento, la situazione è oggi notevolmente cambiata e l’atto amministrativo non è più l’oggetto esclusivo del giudizio amministrativo, questo dovendo sempre estendersi, a patto che sia rispettato lo spazio riservato alla discrezionalità amministrativa, al rapporto.
Rafforza tale nuova prospettiva l’art. 21 octies della legge 241/90 il quale, laddove consente al giudice di valutare la sostanza del provvedimento a prescindere da eventuali illegittimità formali che lo inficiano, spostando l’attenzione dall’atto in sé e per sé considerato al vincolo fra il destinatario della azione amministrativa e la Pubblica Amministrazione: viene salvaguardato l’atto, seppur formalmente illegittimo, per salvaguardare il rapporto che si è consolidato fra cittadino e soggetto pubblico.
Anche il ruolo del giudice amministrativo è cambiato sensibilmente. Non più solo giudice di legittimità degli atti amministrativi, ma anche arbitro di situazioni fondamentali per l’economia delle quali il giudice amministrativo conosce anche i diritti soggettivi in sede di giurisdizione esclusiva: il giudice, nell’interesse generale della società, deve far rispettare le regole del mercato in settori nevralgici come quello dei contratti pubblici e dei pubblici servizi.
· Principi generali del processo amministrativo
- principio della domanda: il processo ha inizio su iniziativa di parte (ricorso): il giudice non può procedere d’ufficio né giudicare oltre i limiti della domanda;
- principio dell’impulso processuale di parte. Sono le parti che con le loro istanze fanno progredire il processo, tanto che l’inerzia di esse per un determinato periodo di tempo manda in perenzione il processo stesso;
- principio del contraddittorio: si determina mediante notifica del ricorso sia all’organo che ha adottato l’atto impugnato quanto a tutti i controinteressati;
- principio della economia processuale: in base a tale principio il processo deve adottare i mezzi più semplici e rapidi per raggiungere gli esiti più efficaci possibili. Con la riforma del processo amministrativo a seguito della approvazione del decreto legislativo 104/2010, i principi di snellezza, concentrazione ed effettività della tutela della posizione giuridica è maggiormente assicurata;
- Principio della oralità: la causa è trattata oralmente in pubblica udienza;
- Principio della collegialità: mentre il Presidente dispone di limitati poteri ordinatori e istruttori, la restante parte di essi sono assegnati dalla normativa al collegio.
· La ragionevole durata del processo
La tutela giurisdizionale per essere effettiva deve essere tempestiva. Con legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, il principio della ragionevole durata del processo è stato inserito nella nostra Carta all’art. 111, trovando riconoscimento all’interno della attuazione del principio del giusto processo.
· Le parti del processo
Anche nel processo amministrativo è parte il soggetto che propone l’azione in nome proprio , nonché il soggetto contro il quale l’azione è proposta.
Pertanto sono parti:
- Il ricorrente (parte necessaria): colui che, avendo interesse all’annullamento o alla riforma di un atto amministrativo, propone ricorso;
- Il resistente (parte necessaria): il soggetto interessato acchè il provvedimento sia conservato e che compulsa il giudice amministrativo affinché rigetti il ricorso, presentando all’uopo deduzioni e documenti. Di solito soggetto resistente è la P.A.;
- Il controinteressato (parte necessaria): colui che ha un interesse eguale e contrario rispetto al ricorrente e posizione analoga a quella del resistente e che, se risulta espressamente dall’atto impugnato o è facilmente individuabile, deve essere coinvolto nel giudizio per assicurare il rispetto del principio del contradittorio;
- Il proponente un ricorso incidentale: è uno dei soggetti al quale è stato notificato il ricorso principale, che impugna il medesimo provvedimento per motivi propri ed eventualmente propone una diversa domanda;
- Differente dal ricorso incidentale è il litisconsorzio che può essere necessario se due o più parti ricorrono o resistono insieme in ragione della inscindibilità delle cause fra loro interconnesse; o facoltativo se è una scelta delle parti per opportunità di economia processuale agire o resistere congiuntamente.
· Competenza territoriale dei T.A.R.
I criteri generali, che possono essere derogati pattiziamente dalle parti processuali, sono:
a) Criterio della sede dell’organo o dell’ente emanante:
1) Se atto è stato emanato da un organo periferico dello Stato, la competenza appartiene al T.A.R. nella cui circoscrizione opera l’organo;
2) Se l’atto è stato emanato da un ente che opera esclusivamente nell’ambito di una Regione, la competenza appartiene al T.A.R. della regione stessa;
3) Se l’atto è stato emanato da un ente che opera su tutto il territorio nazionale, occorre distinguere: se i suoi effetti si esauriscono nell’ambito regionale, la competenza appartiene al T.A.R. della regione; se invece si dispiegano su tutto il territorio dello Stato, la competenza appartiene al T.A.R. del Lazio.
b) Criterio dell’efficacia dell’atto:
1) Se l’efficacia dell’atto è circoscritta al territorio entro cui opera il T.A.R. periferico, questi è competente;
2) Se, invece, l’effetto dell’atto si estende al di là di una sola regione, la competenza spetta al T.A.R. del Lazio.
c) Criterio del luogo di prestazione del servizio del pubblico dipendente. In ordine ai ricorsi in materia di pubblico impiego, nei limiti in cui persiste la giurisdizione del Giudice Amministrativo, la competenza territoriale è quello dell’ufficio presso il quale il dipendente presta la propria attività, a condizione che egli presi ancora servizio alla data di emissione dell’atto.In caso sia adottato un provvedimento che coinvolga gli interessi di più dipendenti pubblici in servizio presso più sedi periferiche ubicate presso diverse Regioni, competente è il T.A.R. Lazio.
· Il Ricorso
L’atto introduttivo del giudizio davanti al T.A.R. è il ricorso, ossia l’istanza rivolta al giudice dall’interessato al fine di ottenere l’annullamento, sulla base dei motivi proposti, del provvedimento impugnato ovvero, ove consentiti (giurisdizione esclusiva), l’accertamento della esistenza di un diritto vantato dal ricorrente ed illegittimamente negato o pregiudicato dalla Amministrazione. Solo in ipotesi di controversia rientrante nella giurisdizione di merito è possibile chiedere al giudice amministrativo anche la riforma o la sostituzione dell’atto illegittimo. Inoltre è sempre possibile chiedere la condanna al risarcimento danni, sia in forma specifica che per equivalente, dei danni subiti sia in sede di giurisdizione di legittimità che esclusiva.
Quanto al contenuto del ricorso elementi essenziali dello stesso sono: l’intestazione del Tribunale Amministrativo adito, le generalità del ricorrente, il petitum, ossia l’oggetto del giudizio, quanto richiesto dal ricorrente, generalmente l’annullamento di un provvedimento che deve essere precisamente individuato nei suoi estremi e contenuto; l’esposizione dei fatti e dei motivi sui quali fonda la pretesa del ricorrente (la causa petendi del giudizio), la sottoscrizione delle parti e dell’avvocato ovvero del solo avvocato, in caso sia a lui rilasciato un mandato speciale, nonché l’indicazione dell’importo del contributo unificato che deve esser pagato dal ricorrente.
Il ricorso deve, poi, essere notificato alla P.A. che ha emanato l’atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati, se sono più di uno, perentoriamente entro 60 giorni dalla notifica dell’atto impugnato, oppure120 giorni dalla realizzazione dell’illecito in caso di richiesta di risarcimento danni. Equiparata alla notifica è la conoscenza del contenuto dell’atto. In caso di mancato rispetto dei termini per cause di forza maggiore o caso fortuito è ammesso l’istituto della remissione in termine.
La notifica deve essere effettuata anche ai soggetti controinteressati in ragione del fatto che hanno tratto un vantaggio dal provvedimento impugnato e, pertanto, hanno l’interesse alla sua conservazione: l’interesse è eguale e contrario a quello dei ricorrenti e riveste una posizione analoga a quella del resistente. Sono anch’essi parti necessario del giudizio.
La notifica può essere effettuata o mediante servizio postale, o per pubblici proclami, o per via telematica o per fax.
Il ricorso, a pena di nullità deve indicare i motivi su cui si fonda, con l’indicazione degli articoli di legge e di regolamento che si ritengono violati e, il giudice amministrativo nella sua decisione è vincolato ad essi, non potendo adottare alcun provvedimento giudiziario basato su motivi non addotti nel ricorso (principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato).
La materia del contendere può essere ampliata solamente per il tramite dei motivi aggiunti al ricorso introduttivo, fondati su fatti e documenti sconosciuti al momento della presentazione del ricorso originario; inoltre in forza della proposizione dei motivi aggiunti possono essere impugnati tutti i provvedimenti emessi in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso stesso.
Il ricorso non sospende l’efficacia dell’atto impugnato, salvo non sia dimostrata la sussistenza del pericolo di danni gravi e irreparabili.
· Istruttoria
Durante questa fase il collegio acquisisce tutte le informazioni necessarie tramite i mezzi probatori al fine di ben decidere al termine del processo con la sentenza.
Il principio fondamentale in proposito è che compete alle parti l’onere di fornire la prova del loro assunto e che il giudice deve porre a fondamento della pronuncia le prove proposte dalla parti.
Il giudice non rimane certo inerte, anzi ha poteri istruttori e di intervento superiori a quelli del giudice civile.
Il Giudice amministrativo può chiedere di ufficio alle parti chiarimenti e di mostrare documenti o quanto altro ritenuto necessario; di disporre l’ispezione di persone o cose; di avvalersi di mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile; di utilizzare l’aiuto di esperti, nelle vesti e nelle funzioni di verificatori e di consulenti tecnici; di disporre, anche d’ufficio, l’acquisizione di informazioni e documenti utili ai fini del decidere che siano nella disponibilità della Pubblica Amministrazione.
Ad ogni modo i poteri giudiziari istruttori si muovono sempre nell’ambito dei mezzi probatori e dei fatti accertati ad opera delle parti o del giudice amministrativo, su sollecitazioni delle stesse, al fine di integrare l’istruttoria.
Il giudice amministrativo, quindi, può:
· Ordinare l’esibizione di documenti anche a terzi;
· Ordinare l’ispezione sia sulle parti sia su terzi o su beni di loro pertinenza;
· Dispone la prova testimoniale, richiesta su istanza di parte e assunta in forma scritta;
· Dispone l’acquisizione di informazioni e documenti - nella disponibilità della Pubblica Amministrazione - utili per decidere;
· Disporre la verificazione e la consulenza tecnica, mezzi necessari per assumere valutazioni tecniche e scientifiche su fatti oggetti della controversia ad opera di esperti. L’ordinanza che dispone la verificazione conferisce l’incarico all’organismo di natura pubblica munito di specifiche competenze tecniche; formula i quesiti; fissa un termine per il compimento ed il deposito della relazione conclusiva; non è previsto la prestazione del giuramento.
La consulenza tecnica segue le stesse procedure della verificazione con la differenza che il consulente tecnico presta formale giuramento.
· Discussione
L’udienza di discussione è fissata dal Presidente del Collegio su preciso atto di impulso della parte( istanza di fissazione della udienza).
Della udienza viene redatto verbale.
L’udienza può essere pubblica o in camera di consiglio.
Generalmente l’udienza è pubblica.
Il giudice incaricato fa la relazione, esponendo i fatti ed i motivi di diritto quali risultano dal ricorso, dal controricorso e dalle memorie delle parti. Le parti, rappresentate da un avvocato sono ammesse a svolgere i propri assunti, a produrre i propri mezzi probatori e a sollecitare il collegio a disporne di altri.
Se l’udienza è in camera di consiglio manca la discussione orale: dopo la relazione del giudice incaricato a svolgerla il collegio pronuncia la sentenza.
Le ipotesi di maggiore rilievo per le quali si ricorre alla camera di consiglio sono:
· ricorso avverso il silenzio – rifiuto della Pubblica amministrazione;
· ricorso avverso il rigetto della istanza di accesso alla documentazione amministrativa;
· nei casi di manifesta infondatezza, inammissibilità, irricevibilità e improcedibilità del ricorso.
· Decisione
La decisione viene adottata dopo che è stata tenuta l’udienza pubblica di discussione o in camera di consiglio. La decisione è presa a maggioranza,
La sentenza, oltre il dispositivo, include obbligatoriamente anche la parte motiva.
La motivazione deve essere concisa e risolversi nella esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione.
La sentenza composta dal dispositivo viene deliberata subito, mentre la motivazione è depositato entro un termine prefissato dalla legge.
La sentenza può essere:
· definitiva: se definisce il giudizio e pone termine ad esso;
· interlocutoria: se si limita a risolvere un incidente, ad ordinare la presentazione di un documento o la formazione di un mezzo istruttorio.
Le sentenze definitive, quanto al loro contenuto, possono essere di rito e di merito:
· le sentenze di rito decidono sulle questioni pregiudiziali e cioè sulle condizioni dell’azione e sui presupposti processuali.
Sentenze di rito sono:
1) inammissibilità: se manca una condizione dell’azione (difetto di legittimazione ad agire);
2) irrecivibilità: se il ricorso è presentato fuori termine;
3) improponibilità: se è stato sperimentato già un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica;
4) nullità del ricorso: se manca un elemento essenziale del ricorso;
5) decadenza: se il ricorso è depositato fuori termine:
· sentenze di merito accertano la sussistenza o meno dei vizi denunciati.
Sentenze di merito sono:
1) rigetto: quando si accerta l’insussistenza dei vizi denunciati;
2) accoglimento: annullamento dell’atto e eventuale condanna al risarcimento danni in caso di giurisdizione di legittimità; annullamento dell’atto (con accertamento del diritto) e eventuale condanna al risarcimento danni in caso di giurisdizione esclusiva; annullamento, modifica o sostituzione dell’atto con eventuale condanna al risarcimento dei danni in caso di giurisdizione di merito.
La sentenza è immediatamente esecutiva e produce effetti solamente fra le parti. La sentenza può essere sospesa, su istanza della parte interessata, in sede di appello dal Consiglio di Stato in presenza di gravi e irreparabili danni nel caso la decisione di primo grado fosse posta in immediata esecuzione.
Altre tipologie di provvedimenti giudiziari sono i decreti e le ordinanze.
I primi sono strumenti agili, che non necessitano di una motivazione, adoperati dal giudice (come nel caso del Presidente del collegio quando adotta in via di urgenza una misura cautelare che deve essere fatta propria con ordinanza dal collegio) per dare risposte immediate a questioni che si impongono per la loro urgenza.
Le ordinanze, per le quali occorre una motivazione sebbene succinta, sono emesse in camera di consiglio e contengono provvedimenti interlocutori.
· Esecuzione della sentenza
Negli ultimi venti anni è invalso il cattivo uso da parte della Pubblica Amministrazione di non eseguire totalmente o parzialmente le sentenze che la riguardano deliberate dai giudici amministrativi e ordinari.
Fino alla riforma del 2010 del processo amministrativo l’ordinamento aveva apprestato una serie di strumenti per il tramite del c.d. giudizio di ottemperanza al fine di imporre alla Pubblica Amministrazione di eseguire le sole sentenze passate in giudicato (non più oggetto di mezzi impugnatori), previa la messa in mora della stessa Pubblica Amministrazione, da parte del soggetto risultante vittorioso nella decisione rimasta parzialmente o totalmente ineseguita.
Il codice del processo amministrativo ha ammesso il giudizio di ottemperanza anche per le sentenze non definitive ma immediatamente esecutive ( come sono tutte le sentenze del T.A.R. emesse in primo grado) e ha escluso l’obbligo della previa messa in mora della P.A. rendendola facoltativa.
Per messa in mora si suole significare la sollecitazione per iscritto ad opera della parte interessata alla P.A. inottemperante di eseguire il dispositivo della decisione entro un termine perentorio di tempo. Nel caso permanga il mancato rispetto della decisione la parte adisce il giudice amministrativo ricorrendo al giudizio di ottemperanza.
Il giudice amministrativo competente in sede di giudizio di ottemperanza e, a secondo dei casi, il T.AR. o il Consiglio di Stato.
Il primo quando è lo stesso che ha emesso la sentenza di cui si chiede l’ottemperanza perché non eseguita dalla P.A.
E’ altresì competente il T.A.R. per i giudizi di ottemperanza attinenti l’esecuzione delle sentenze dei giudici ordinari (Tribunali civili) ubicati nell’ambito della sua circoscrizione territoriale.
E’ competente il T.A.R. anche quando la sentenza da lui emessa e non eseguita è stata confermata dal Consiglio di Stato in grado di appello.
In caso di sua riforma, invece, competente è il Consiglio di Stato.
Il giudizio di ottemperanza si svolge in camera di consiglio e la decisione è adottata nelle forme della sentenza semplificata.
Il giudice siede in giurisdizione di merito e, pertanto, possiede gli stessi poteri della Pubblica Amministrazione, potendo adottare decisioni che non solo annullano, ma anche modificano e sostituiscono il provvedimento amministrativo oggetto del contendere. Il giudice amministrativo può, quindi, agire in luogo della Pubblica Amministrazione inadempiente compiendo quegli atti e ponendo in essere quei comportamenti idonei per eseguire completamente e adeguatamente il dispositivo della sentenza rimasto totalmente o parzialmente inottemperato da parte della P.A..
Il Giudice amministrativo può – ed è la strada che generalmente segue – nominare un commissario ad acta, ossia un soggetto interno alla compagine amministrativa coinvolta, che proceda alla esecuzione della decisione.
Il giudice ha la possibilità in prima battuta di mettere in mora la P.A. fissando un termine entro il quale essa debba adempiere alla sentenza, nominando contestualmente o successivamente ( scaduto il termine e rimasta la situazione di inadempienza) un commissario ad acta o disponendo che la stessa P.A. provveda alla nomina.
Il commissario ad acta agisce per conto del giudice amministrativo, avendo l’obbligo di eseguire in luogo della Pubblica Amministrazione la sentenza del T.A.R., del Consiglio di Stato o del giudice ordinario rimasta elusa o inattuata.
· Le misure cautelari
La tutela cautelare si è basata, fino in epoca recente, sulla sospensione del provvedimento impugnato.
La riforma del 2000 ha operato u un intervento fortemente innovativo in chiave di ampliamento degli strumenti di tutela cautelare, senza effettuare però una riforma organica del settore, avvenuta nel 2010 in forza del codice del processo amministrativo, che ha mantenuto però indeterminata la natura, la tipologia e il contenuto delle misure cautelari.
La finalità della tutela cautelare nel processo amministrativo è, quindi, quella di consentire al giudice di sospendere l’efficacia degli atti amministrativi impugnati, di modo che rimanga impregiudicata la situazione e di diritto in attesa della decisione di merito, o talora addirittura anticipando gli effetti di quest’ultima. La misura cautelare è, quindi, in grado di assicurare una tutela giurisdizionale effettiva ai ricorrenti, nelle more del processo ordinario, anche in virtù della snellezza delle norme procedurali che regolano la fase cautelare.
I presupposti per il ricorso alla misura cautelare sono il:
a) periculum in mora, ossia il rischio che, nelle more del giudizio, dalla esecuzione dell’atto impugnato derivino danni gravi e irreparabili per il ricorrente;
b) Fumus boni iuris, previsto nei giudizi di appello, ossia un giudizio positivo, di carattere sommario, in merito alla fondatezza del ricorso.
L’istanza cautelare può essere presentata congiuntamente al ricorso o con istanza separata.
La domanda cautelare non può essere trattata finché il ricorrente non chieda di fissare l’udienza di trattazione della causa nel merito.
Il giudice dispone la misura cautelare con ordinanza motivata decidendo in camera di consiglio.
Nei casi di estrema gravità ed urgenza la misura cautelare può essere adottata in via provvisoria dal Presidente del Collegio, che dovrà essere poi confermata e fatta propria dal collegio con ordinanza.
L’ordinanza cautelare, essendo emessa rebus sic stantibus, ossia allo stato dei fatti, ha carattere strumentale e provvisorio.
Strumentale rispetto al giudizio di merito per evitare che gli effetti dello stesso possano essere vanificati dal decorso del tempo. Per tale ragione il giudice individuerà la misura maggiormente idonea ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso
Provvisorio in ragione della possibile modificabilità e revocabilità del provvedimento giudiziario cautelare venendo meno le condizioni ad esso sottese.
Proprio in forza della stratta connessione fra misura cautelare e decisione di merito e, al fine di ovviare alle lungaggini processuali, l’udienza di merito deve essere fissata – pena l’inefficacia della misura medesima – entro il termine di venti giorni dall’ultima notifica del provvedimento in questione compiuta ai soggetti interessati.
Il giudice può stabilire di definire direttamente nel corso della udienza camerale il giudizio: il luogo della ordinanza di misura cautelare delibera direttamente la sentenza che definisce il processo.
Altra opzione viene seguita se il giudice amministrativo ritiene che le esigenze del ricorrente siano apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio nel merito: il tribunale fissa direttamente con ordinanza collegiale la data di discussione del ricorso di merito.
Contro le ordinanze che pronunziano sulla domanda cautelare è ammesso l’appello al Consiglio di Stato.
L’impugnazione è proposta entro trenta giorni dalla notifica della ordinanza stessa.
Il giudizio di appello si svolge in camera di consiglio e la pronuncia favorevole deve essere motivata in ordine alla valutazione del pregiudizio, oltre che in base ad un sommario esame della causa che induca ad una ragionevole previsione sull’esito del ricorso ( periculum in mora e fumus boni iuris).
Nella ipotesi in cui il Consiglio di Stato accolga il ricorso avverso il diniego della misura cautelare in primo grado, le dispone, invitando il T.A.R. a fissare l’udienza di merito.
· Impugnazioni
I mezzi di impugnazioni delle sentenze sono: l’appello, la revocazione, l’opposizione di terzo e il ricorso in Cassazione.
L’appello e il ricorso in Cassazione sono mezzi di impugnazione ordinari, ossia afferiscono sentenze ancora non passate in giudicato.
La revocazione presentata per alcuni tipi di vizi – che saranno esplicitati di qui a poco – e l’opposizione di terzo, invece, sono impugnazioni straordinarie, ossia vanno oltre il giudicato della decisione, essendo rivolte contro sentenze definitive.
L’impugnazione si propone con ricorso, salvo che la legge disponga altrimenti. La proposizione si risolve nella notifica dell’atto ai controinteressati, entro i termini perentori – ossia a pena di decadenza – sotto indicati:
- Sessanta giorni dalla notifica della sentenza;
- Sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, se la parte vittoriosa non ha provveduto alla sua notifica;
- Sessanta giorni dal fatto che ha rilievo per la proposizione della revocazione;
L’impugnazione deve essere notificata, entro i sopra citati termini, a tutte le parti in causa nelle controversie inscindibili fra di loro e, quindi, affasciate in un litisconsorzio necessario, nonché a tutte le parti aventi interesse a contraddire, come nel caso di litisconsorzio facoltativo.
Nel caso di cause inscindibili e di mancata effettuazione della notifica ad alcune parti legate da litisconsorzio necessario, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio.
Il ricorso con il quale è proposta l’impugnazione, una volta notificato, deve essere depositato nell’ufficio del giudice di secondo grado che viene così investito formalmente della impugnazione.
La parte che riceve la notifica del ricorso può presentare entro sessanta giorni da essa una impugnazione incidentale avverso gli stessi capi oggetto della impugnazione principale, oppure contro capi diversi della stessa sentenza.
Anche il giudice della impugnazione, se richiesto, può emettere misure cautelari che, in relazione a concrete situazioni di fatto, risultano essere idonee ad evitare imminenti pericoli di un danno non altrimenti evitabile.
Sono passibili di impugnazione non solo le sentenze ma anche le ordinanze aventi contenuto decisorio: la giurisprudenza le considera provvedimenti sostanzialmente equipollenti a sentenze.
L’interesse del ricorrente alla impugnazione di sentenze o ordinanze aventi contenuto decisorio è determinato dall’essere risultato totalmente o parzialmente soccombente nel giudizio di primo grado.
· Ricorso in appello
Contro le sentenze dei T.A.R. è ammesso ricorso al Consiglio di Stato entro sessanta giorni dalla notifica delle stesse.
Il Consiglio di Stato, tranne rare eccezioni in cui siede come giurisdizione unica, è giudice di secondo grado nel rispetto del principio costituzionale del doppio grado di giurisdizione.
Il giudizio di appello innanzi al Consiglio di Stato presenta le seguenti caratteristiche:
· è giudizio di secondo grado;
· è giudizio sia rescindente che rescissorio: annullata la sentenza di prime cure, il Consiglio di Stato decide nel merito la controversia già decisa dal T.AR., senza alcun rinvio della causa al T.A.R.;
· è devolutivo: a seguito dell’appello, la cognizione della questione si trasferisce integralmente al Consiglio di Stato. Il giudizio di appello, pertanto, ha la stessa estensione del giudizio di primo grado. Al Consiglio di Stato, poi, è riconosciuta la stessa portata dei poteri di cognizione e di decisione dei T.A.R..
· non è sospensivo: le sentenze dei T.A.R. sono esecutive e il ricorso in appello non comporta la sospensione della loro efficacia. Tuttavia il Consiglio di Stato su istanza di parte può disporre con ordinanza emessa in camera di consiglio la sospensione della esecuzione della sentenza qualora da essa possa derivare un danno grave e irreparabile.
Sono appellabili tutte le decisioni dei T.A.R. che siano volte alla definizione totale o parziale della controversia e cioè:
· le sentenze definitive: ovvero le decisioni di rito o di merito che pongono fine al rapporto processuale di primo grado;
· le sentenze parziali: di rito e di merito che decidono su un punto della controversia e che pregiudicano per il soccombente la decisione definitiva;
· le ordinanze, che abbiano carattere decisorio come le ordinanze cautelari;
· le sentenze emesse in sede di giudizio di ottemperanza.
Presupposti per la legittimazione ad appellare sono:
· la qualità di parte sostanziale nel giudizio di primo grado: detta qualità compete ai soggetti fra i quali avrebbe dovuto intercorrere il giudizio di primo grado, a prescindere dalla loro effettiva costituzione nello stesso;
· la soccombenza, ovvero il concreto pregiudizio subito ad opera della sentenza di primo grado.
I termini per impugnare, come già detto, in via generale sono di sessanta giorni dalla notifica della sentenza di primo grado.
Si riducono a trenta anche nella seguente ipotesi:
· le decisioni sul silenzio – rifiuto ( ossia ogniqualvolta la P.A. è risultata inadempiente all’obbligo di provvedere entro i termini perentori normativamente previsti, senza che la legge equipari tale silenzio ad un provvedimento amministrativo di accoglimento o di rigetto).
E’ necessario precisare che con l’appello non si possono denunciare vizi del provvedimento non denunciati già con il ricorso di primo grado, nonché non si possono presentare domande modificative di quelle presentate con il ricorso al T.A.R..
Non sono ammessi nuovi mezzi di prova, a differenza di nuovi documenti che possono essere ammessi se il collegio li ritiene indispensabili per la decisione della causa, ovvero se la parta dimostra di non aver potuto produrli in giudizio di primo grado per ragioni ad essa non imputabili.
La sentenza che il Consiglio di Stato può deliberare è di rigetto, nel caso ritenga infondati i motivi denunciati, o di accoglimento, quando annulla la decisione pronunciata in primo grado dal T.A.R.
L’annullamento a sua volta può essere senza rinvio o con rinvio.
V’è annullamento senza rinvio quando il Consiglio di Stato si limita a caducare la decisione del T.A.R. concludendo definitivamente il procedimento giurisdizionale (salvo eventuali impugnazioni in Cassazione, o per revocazione o opposizione di terzo).
Le ipotesi per le quali si procede all’annullamento senza rinvio sono:
· quando è accertato il difetto di giurisdizione del T.A.R.;
· quando è accertato il difetto di competenza del T.A.R.;
· per nullità assoluta del ricorso al T.A.R.;
· quando il T.A.R. avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità o l’improcedibilità del ricorso e non lo ha fatto.
L’annullamento con rinvio invece vede due fasi: una prima innanzi alla Consiglio di Stato che, accogliendo in tutto o in parte i vizi denunziati con il ricorso in appello, annulla la sentenza del T.A.R.; una seconda fase che rinvia a quest’ultimo la causa affinché si pronunci di nuovo.
Le ipotesi per le quali si procede all’annullamento con rinvio sono:
Il Consiglio di Stato accoglie il ricorso per difetto di procedura o per vizio di forma della decisione di primo grado;
il Consiglio di Stato accoglie il ricorso avverso una sentenza del T.A.R. che erroneamente ha dichiarato la propria incompetenza.
Oltre il percorso del rigetto, dell’annullamento senza rinvio e dell’annullamento con rinvio, il Consiglio di Stato in veste di giudice di appello può rimettere al giudice di primo grado l’intera causa, senza pronunciarsi su di essa, nelle seguenti ipotesi:
· quando verifica che il primo grado è mancato il contraddittorio;
· quando verifica che in primo grado è stato leso il diritto di difesa di una delle parti;
· quando dichiara la nullità della sentenza, ossia quando essa è priva degli elementi strutturali impedendole di produrre effetti sin dalla sua adozione;
· quando il T.A.R. aveva declinato la propria giurisdizione o la propria competenza.
· Revocazione
La revocazione è un tipo di impugnazione che si caratterizza per tre peculiarità.
La prima, come il ricorso in Cassazione, consiste nel fatto che è a c.d. critica vincolata, ossia sono tassativamente indicati i vizi alla luce dei quali la si può utilizzare. Mentre si può accedere all’appello per qualsivoglia tipo di vizio, sia di legittimità che di merito, che possa inficiare la sentenza, per la revocazione (come vedremo in Cassazione) il ricorrente deve verificare se nella sentenza(dispositivo e parte motiva) vi siano i vizi enunciati nella legge e di cui di qui a poco tratteremo.
La seconda, si sostanzia nell’essere anche una impugnazione straordinaria, ossia in alcune ipotesi – di cui dopo meglio si espliciterà – può essere presentata anche avverso una decisione passata in giudicato (definitiva).
La terza consiste nel fatto che il giudice competente è il medesimo che ha emesso la sentenza impugnata: competente sarà pertanto il T.A.R. se è stato tale giudice ad emettere la sentenza oggetto della impugnazione, ovvero il Consiglio di Stato se ha deliberato la sentenza ritenuta viziata.
I motivi di revocazione sono tassativamente i seguenti:
1) se la sentenza è l’effetto del dolo di una delle parti a danno dell’altra;
2) se si è giudicato in base a prove dischiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere dichiarate tali prima della sentenza;
3) se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario;
4) se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Ricorre tale errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontestabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, non dovendo essere infine tale punto oggetto di valutazione nella sentenza impugnata;
5) se la sentenza è contraria ad altra precedente passata in giudicato;
6) se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza definitiva.
Le ipotesi indicate ai punti 1)2)3)6) determinano una impugnazione straordinaria: i vizi in parola possono essere sollevati anche avverso una decisione ove è calata la coltre del giudicato e, quindi, è definitiva. Parimenti anche l’opposizione di terzo configura una impugnazione straordinaria.
La evocazione di cui ai punti 4) e 5) fa permanere tale revocazione dell’alveo dei mezzi di impugnazione ordinari essendo portati contro sentenza ancora non definitive.
I termini sono sussunti in seno a quelli generali di sessanta giorni con la particolarità di decorrere non solo dalla notifica della sentenza (ipotesi ordinaria) come nei casi di cui ai punti 4) e 5), ma anche dalla scoperta dei motivi di revocazione come nelle ipotesi di cui ai punti 1)2)3) e 6). E’ onere della parte provare il dies a quo ( giorno di decorrenza del termine per l’impugnazione).
· Il ricorso in Cassazione
Parimenti al ricorso per revocazione anche quello in Cassazione è a critica vincolata, ossia la norma elenca tassativamente i vizi per i quali si può impugnare la sentenza, che si caratterizzano per afferire tutti la sfera della giurisdizione.
A differenza del ricorso per revocazione, invece, il ricorso in Cassazione è ordinario, in quanto impugna una sentenza ancora non divenuta definitiva.
I termini per impugnare sono di sessanta giorni a far data dalla notifica della sentenza.
Sono impugnabili le decisioni del Consiglio di Stato in sede di appello.
I vizi sono i seguenti:
· difetto assoluto di giurisdizione, quando la questione è demandata ad altro potere dello Stato, ossia l’atto non è proprio giustiziabile, come quelli di natura politica;
· difetto di giurisdizione del giudice amministrativo rispetto al giudice ordinario, per essere la questione demandata esclusivamente a quest’ultimo (ad esempio: riconoscimento di indennità e canoni);
· difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a favore di altri giudici, come la Corte dei Conti (materia della contabilità pubblica);
· difetto di giurisdizione nel caso in cui ad esso spettava solo la giurisdizione di legittimità ed erroneamente è intervenuto anche in tema di diritti soggettivi (spettante solo alla giurisdizione esclusiva);
· difetto di giurisdizione per irregolare composizione del collegio (sezioni semplici sono composte da cinque giudici; sezioni riunite da nove giudici).
Queste tipologie di vizi derivano dall’art. 111, ultimo comma, della Costituzione, per la quale le giurisdizioni trovano una loro unità nella garanzia che un organo supremo sorvegli il rispetto dei limiti reciproci delle rispettive attribuzioni delineate dalle disposizioni di legge.
· L’opposizione di terzo
L’opposizione di terzo è di tipo straordinario poiché aggredisce una decisione anche passata in giudicato.
Il ricorrente è un soggetto terzo titolare di una posizione autonoma e incompatibile con quella delle parti protagoniste del processo in esito del quale è stata deliberata una sentenza, la quale abbia provocato effetti pregiudizievoli nei suoi confronti.
Tale ricorrente non ha partecipato affatto al giudizio e questo mezzo di impugnazione gli fornisce la possibilità di impugnare una sentenza, non definitiva ma anche definitiva, che determina lesioni ai suoi diritti soggettivi o ai suoi interessi legittimi. Esempio fra tutti: giudizio avente ad oggetto l’espropriazione di un bene immobile di cui risulta titolare il soggetto A, mentre lo è il soggetto B, che può adire il giudice amministrativo per il tramite della opposizione di terzo per far valere il suo diritto di proprietà.
Competente è lo steso giudice che ha pronunciato la sentenza oggetto della opposizione.
Il termine di sessanta giorni decorre dal momento della scoperta della sentenza (non definitiva ma immediatamente esecutiva oppure passata in giudicato) che pregiudica i suoi interessi legittimi ovvero i suoi diritti soggettivi: è onere ovviamente del ricorrente dimostrare il giorno in cui è venuto a conoscenza della decisione.
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