“Nessuno vuole il male vicino perché ha paura
di contaminarsi”.
Quando
si ha difficoltà a scrivere una recensione vuole dire che il libro ti è entrato
dentro con una tale moltitudine di emozioni da non riuscire a trovare ordine
nelle parole: queste ti attanagliano vorticando intorno a te in un turbinio di sentimenti.
“Cuore nero” di Silvia Avallone (Rizzoli)
non avrà pietà di voi e vi lascerà soli, travolti da stati d’animo come un
torrente irascibile in piena.
Il
passato non passa perché cancella il presente e risucchia il futuro. Presente e
futuro sono sotto la coltre degli abiti cenciosi e maleodoranti del passato.
La
sofferenza dei protagonisti è quella del lettore che opera un processo di
metamorfosi in Bruno, Emilia e Riccardo attraverso uno stile letterario
pungentemente delicato, addirittura morbido.
“Cuore Nero” racconta il dolore, quello
vero, quello tragico, quello che necessita di tagli in ogni parte del corpo per
ridimensionarne gli effetti. Il dolore senza orizzonti per una finta fatalità,
per una malattia mortale e per un crimine orrendo, devasta, destruttura, decompone,
divide, cancella, annienta, ma può anche rigenerare ed unire, perché è famiglia
anche quando c’è un padre che lotta per la figlia detenuta in un penitenziario
minorile, avvertendo accanto la presenza della moglie, perché una mamma non
muore mai e l’amore di un padre non conosce limiti: “Una famiglia è una fune, Adelaide. Un cavo d’acciaio che ti tiene,
qualunque cosa accada”. Un padre che ricorda eroi mitologici greci. La
mancanza di una madre che inverte l’incedere del tempo. Un fratello e una
sorella che vedono languire le proprie esistenze nell’attimo in cui scompaiono
dalla loro visuale i genitori. “La vita
non chiede permesso, non si lascia programmare. Anzi, adora prenderti per il
culo”.
Senza
una famiglia si precipita nel buio. Fuggire da se stessi conduce alla propria
cancellazione. Occorre riconoscere le proprie colpe, anche se terribili, non
fuggire più da loro. Riccardo non è mai fuggito, si è caricato sulle spalle il pesante
fardello della figlia e, a testa alta, ha cercato di aiutarla a scrollarsi di
dosso i macigni che le zavorrano il futuro: “Fatte non foste a viver come brute”.
Lo
Stato dovrebbe intervenire prima, quando una ragazzina è abusata e una moglie
massacrata. Dopo potrebbe essere tardi per troppi: “ ‘E perché’ le aveva risposto la maschera occhialuta,
grigio-imperturbabile della burocrazia, ‘che vita normale pretendi?’ ”.
Bruno
è lo Stato. La direttrice del carcere è lo Stato. La cura degli altri e la
passione per i classici consentono il superamento delle Colonne d’Ercole non
solo altrui, ma anche proprie: “La verità
è che né tu, né io, né nessuno è mai veramente fottuto finché è vivo”.
Bruno
ed Emilia compiono un cammino a ritroso per ritrovarsi, perdonare e perdonarsi,
consegnando il proprio dramma alle parole che lo assorbono togliendogli la
patina del silenzio.
Questo romanzo, accompagnando l’anima dall’abisso
all’alba, risulta essere di una bellezza struggente, che disvela lo scarno confine
fra Bene e Male e quanto le persone debbano perdonarsi e perdonare, conoscere e
riconoscersi, per tornare a scrutare la vita con occhi chiari.
“Sui desideri non abbiamo potere, dobbiamo solo
trovare il coraggio di ascoltarli”.
Fabrizio Giulimondi
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