“L’olivo bianco” (Aboca) di Carmine Abate
- prolifero scrittore arbëreshë vincitore
del Premio Campiello (2012) e di numerosi altri prestigiosi premi letterari
- fornisce al pubblico un’altra prova
della sua poetica bucolica e della sua lirica della terra, degli alberi come
entità spirituali, del dialogo silenzioso e affascinante della natura con
l’uomo, delle famiglie che tramandano storie perché il futuro non le dissipi.
Al pari delle piante che resistono alla furia delle acque grazie alle proprie
radici, la letteratura di Carmine Abate
si oppone ad un modernismo cieco, algido e anonimo.
Le
pagine di Abate profumano dei fiori
calabresi e sono saporitosi come le pietanze preparate dalla madre.
Spillace
e Hora sono i due volti sognanti di Carfizzi, paese natale di Abate, luogo dell’anima, spazio
metafisico delle memorie e degli affetti. Ogni storia, in fin dei conti, è una
storia d’amore: Luca per la sua rarità botanica, l’olivo bianco; Carmine per la
sua Elena; il padre di Carmine per quel mondo trasudante fatica, odori, sudore
e bellezza; la madre per la sua famiglia e il suo cibo.
L’interpolazione
di idiomi calabresi rende melodioso l’incedere del lettore, che avverte la
sensazione di mettere le proprie mani sotto la colata soffice e calda della
pasta mentre esce dal macchinario; percepisce le proprie mani scavare una terra
pastosa e carica di umori e profumi, presagio della pianta che verrà.
Sembra
di vederli quei boschi così gagliardi, lussureggianti, selvaggi e rigogliosi.
Sembra
di respirare quell’aria così fina, tersa e pregna di fragranze pungenti e
inebrianti.
I
grafemi sprigionati dalla penna dell’Autore espandono i polmoni facendoli respirare
un venticello primaverile e genuino, che “sa
di erbe aromatiche, di mare, di pomodoro e mandorla fresca”.
Fabrizio Giulimondi
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