“Ero stato un fascista, un soldato e in
delatore. Non sapevo cosa fosse lavorare”.
“Bambino” di Marco Balzano (Einaudi) è
un romanzo duro, roccioso, impressionante, sull’orrore che l’uomo può
realizzare in Terra nel voler sostituire l’ideologia alla realtà.
La
città di Trieste nazi-fascista e poi comunista titina più che l’ambientazione della
storia ne costituisce la trama. Trieste, con la sua bora ed i suoi segreti sanguinari,
è la colonna vertebrale di una narrazione calda e tragica.
Mattia,
un fascista portato alla violenza, alla angheria e al sopruso, scopre che la
sua vera madre è un’altra e comincia a cercarla nei volti delle slovene del
Friuli e dell’Istria, dove etnie e religioni sono affasciate fra loro da un
antico sentimento di odio e cieca violenza.
L’avvento
del fascismo, la Campagna di Grecia, l’8 settembre, l’arrivo della Stella Rossa
nelle terre giuliano-dalmate, l’abisso delle foibe.
L’incubo
nazista e poi quello comunista.
Le pagine
del libro sono intinte di sangue, polvere e morte, stupri e torture: il lettore
se ne avvede senza vederli come nelle tragedie elleniche.
Uno
stomaco chiuso e un senso di angoscia e impotenza accompagnano questa ricerca
di radici materne, di Cecilija, di Adriano, di Ernesto, del padre stesso di
Mattia, Mattia che dovrà dismettere anche il proprio nome.
“Bambino” diviene sempre più implacabile
con lo sfogliare delle pagine.
Ogni
volta che l’uomo ha voluto forgiare l’”uomo nuovo” ha forgiato solo l’incubo in
Terra, uno “sprofondo che esala odore di
carogne e di maledizione”.
Si
legge in poche ore ma ciò che provoca la lettura del lavoro di Marco Balzano dura giorni.
Fabrizio Giulimondi
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