venerdì 30 agosto 2024

"IL COGNOME DELLE DONNE" di AURORA TAMIGIO



Vincitore del Premio Bancarella edizione 2024 “Il cognome delle donne” (Feltrinelli) di Aurora Tamigio è un bel romanzo che parte in maniera elefantiaca e disorientante per sviluppare nel corso d’opera in modo maggiormente incisivo, convincente, coinvolgente ed emozionale. Ideologicamente orientato, dove gli uomini sono prevalentemente mascalzoni, violenti e stupratori, “Il cognome delle donne” sviluppa letterariamente il film di grande successo di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”. Ricordando nello stile narrativo la quadrilogia “L’amica geniale” di Elena Ferrante, la Tamigio ripercorre la storia di una famiglia, da nonna Rosa alla figlia Selma sino alle tre nipoti Patrizia, Lavinia e Marinella, anche attraverso il richiamo ad eventi storici, politici, sportivi e di costume, alle stragi di mafia e agli attentati terroristici, dal fascismo ai giorni nostri.

La pigmentazione linguistica sicula si fonde con l’idioma italico dando una impronta di ragguardevole musicalità, una sorta di arpeggio idiomatico-sinfonico in cui le sonorità vanno a braccetto con la prosa neo realista, altalenandosi le storie fra letteratura, musica, cinematografia neo-realista de sicana e le interpretazioni di grandi stelle al pari di Virna Lisi. La sicilianità palermitana non solo costituisce l’ambientazione del romanzo ma anche il luogo sinergico fra diverse forme di arti nel loro progredire e mutare nel corso dei lustri.

La violenza, i soprusi e gli abusi percorrono lo sviluppo narrativo come la corrente elettrica il filo della luce. Ciò che prevale, però, è la determinazione nell’amore, nell’unione e nel ricordo.

L’amore oltrepassa la coltre del tempo e rende indistinguibile il confine fra il mondo dei vivi e quello dei morti che vivono ancora, ma da un’altra parte, invero non così distante da quella dei vivi.

Il cognome delle donne” è un lungo dialogo fra il visibile e l’invisibile, fra chi è ancora e chi è già andato, fra Rosa e suo marito Sebastiano Quaranta, fra Selma e le figlie Patrizia, Lavinia e Marinella, ragazze nascoste nelle pieghe del tempo, legate da un vincolo di amore eterno e verace, autentico e aspro.

Questo romanzo è “come prima di un temporale, quando il vento è elettrico e le veneziane sbattono un colpo dopo l’altro sul davanzale delle finestre”.

Chi legge partecipa della morte di Selma grazie a pagine memorabili fra corporeità e incorporeità. La tragicità di questo come di altri eventi si avverte materiale, percepita dai sensi umani. I sentimenti, le emozioni, i tratti salienti delle personalità delle donne e degli uomini che scorrono innanzi agli occhi del lettore sono “con-vissuti” dal lettore: lo sdegno, l’orgoglio, l’alterigia, la dignità, la risolutezza, la costumanza, la piccineria non sono espressioni impalpabili dell’animo ma appartenenti al reale, dimensioni dense avvisate dal corpo prima che dallo spirito.

Lo sdegno, l’orgoglio, l’alterigia, la dignità, la risolutezza, la costumanza si inverano e vivono non solo nella fisicità delle famiglie Maraviglia, Incammisa e Passalacqua, ma anche nell’intimità del lettore, che spesso la rifugge.

Fabrizio Giulimondi


martedì 27 agosto 2024

"COME L'ARANCIO AMARO" di MILENA PALMINTERI



L’essere umano privato delle sue radici è dimezzato senza che se ne accorga.

Quello stato di inquietudine che, talora, rasenta l’angoscia potrebbe avere la propria ragione su questa assenza, spesso avvertita negli strati profondi della coscienza ma divelta dalla propria razionalità. Un malessere che non si riesce a spiegare ma che insiste nelle esistenze di alcune persone: da dove vengo? Quali sono le mie reali origini? Chi è mio padre? Chi è mia madre? Quale è la mia autentica Terra natia?

È questo l’humus da cui è composto il retroterra della nostra dimensione quotidiana.

Milena Palminteri morbidamente narra questo stato percettivo, spesso inavvertito a livello di corteccia celebrale, in “Come l’arancio amaro” (Bompiani).

In “Come l’arancio amaro” il racconto si snoda in un lungo percorso interno all’anima tramite una complessa storia personale e familiare, originata negli albori del fascismo e approdata nel 1965 e che ha come set una Sicilia ancestrale e nobiliare, afosa e antica, dove le “serve” sono usate ad uso sessuale del “padrone”, “serve” che subiscono questi fatali abusi con vendicativa rassegnazione.

Ogni personaggio possiede un carattere marcato e, per quanto piccolo e agli angoli della scena, non v’è uomo o donna, giovane o vecchio, povero o ricco, che non dia un contributo determinante alla trama, che non spicchi con la propria specifica configurazione umana. Forse non esistono partecipazioni secondarie o comparse ma tutti sono resi protagonisti e co-protagonisti, intorno ai quali gravitano vicende che si vanno ad incastonare in altre vicende, e ancora e ancora.

L’Autrice parla di una umanità composta dai tanti individui che si affastellano nel romanzo, tutti legati da un unico filo conduttore: l’essere vittime, prima di tutto, di se stessi.

Come l’arancio amaro” riprende la grande tradizione della letteratura verghiana del verismo siciliano.

La tragicità di taluni accadimenti non è mai sospinta verso tinte fosche, sempre attenuati dalla irriverenza, dalla capacità sorniona e sfottente, dal cinismo o dalla dignità di attori che riescono a smussare i contorni cinerei dei fatti.

L’umanità nella sua declinazione oscura, furbesca e canzonatoria modella i personaggi che sembrano provenienti da un lontano passato, quello forgiato da commediografi Terenzio e Plauto, immersosi poi nelle acque veneziane di Goldoni per assumere, infine, le sembianze drammaturgiche e veristiche insulari.    

Le pagine sono pregne dei sapori della cucina siciliana e degli odori della zagara, autentiche colonne “sonore” gustative e olfattive del romanzo che non è fatto solo di inchiostro, ma anche di sensazioni corporali. Forse è lo stesso inchiostro che assorbe i sapori culinari e il sentore della pianta di arancio amaro quando è in fiore: ”…io dell’arancio amaro conosco solo le spine e oramai non mi fanno più male. Ma il profumo del suo fiore bianco è il tuo, ed è quello della libertà”.

Quale libertà? Quella di donne che prendono coscienza di cosa esse realmente siano e di quanto possano dare, prima di tutto, a se stesse: “Nessun albero come l’arancio amaro merita il nome di “pianta madre”: impavida, resiste a tutte le intemperie per compiere la sua missione, rendere forte e rigogliosa la nuova pianta che è altra da lei eppure da lei germoglia.”.

Fabrizio Giulimondi