sabato 9 luglio 2022

"I BAMBINI SILENZIOSI” di PATRICIA GIBNEY

 


Lo schema narrativo del thriller è rispettato in pieno, con innesti di pedo-crime che risentono delle nazionalità irlandese della Autrice, Patricia Gibney, che si cimenta nel suo ennesimo romanzo giallo con al centro dell’azione la detective Lottie Parker: “I bambini silenziosi” (Newton Compton editori)

La tensione emotiva è costante ed inizia sin dalle prime battute del libro. L’atmosfera costantemente in allarme non fa mai sentire il lettore sicuro. I dialoghi serrati danno un tempo rapido alla narrazione che precipita sul finale – e non potrebbe essere altrimenti- in un ritmo elevato. Le pulsazioni cardiache crescono mentre le storie, inizialmente scisse, si incastonano l’una con l’altra, in modo scoppiettante, dentro un mosaico di psicopatia criminale e fanatismo religioso.

La punteggiatura del racconto è espressa dalla voce oscura del pluriomicida che funge da voce narrante: “Nessuno si è preso la briga di guardarmi. Nessuno sapeva chi camminava tra loro. Ero invisibile agli occhi di tutti. Ma non per molto.

Sto venendo a prenderti.”.

I mostri sono fra noi, si occultano vestendo manti di bigia normalità. Poi uccidono, perché è di questo che si nutrono, della morte dell’altro per saziare il loro appetito infernale.

Io uccido per salvarti l’anima.

 

Fabrizio Giulimondi

sabato 2 luglio 2022

"LA GIUSTIZIA COME PROFESSIONE” di GUSTAVO ZAGREBELSKY

 


Libro che consiglio a giuristi, operatori del diritto e a tutti coloro che si sentono attratti dalle questioni normative, e saggio che mi ha suscitato un turbinio di riflessioni e meditazioni: “La giustizia come professione” (Einaudi) dell’immenso dottore della legge Gustavo Zagrebelsky.

Il titolo, nel riprendere quello dell’opera di Max Weber “La scienza come professione”, rischia di sviare il lettore sul contenuto del lavoro, perché nulla ha a che fare con esso.  Zagrebelsky analizza in modo puntuto le locuzioni “diritto” e “giustizia” attraverso molteplici lenti di ingrandimento, da quella letteraria, filosofica, politologica, antropologica, sociologica e storica, a quella aderente all’architettura e alle arti figurative e propria dei Padri della Chiesa e del Nuovo Testamento, sino al vetrino giurisprudenziale e dottrinale.

Il racconto di teocrazie, tirannidi, dispotismi, dittature, autoritarismi e democrazie è snocciolato attraverso il linguaggio dell’edilizia giudiziaria. Il vestiario e l’arredamento degli uffici dei protagonisti del processo costituiscono l’alfabeto in virtù del quale si comunica il ruolo professionale e la collocazione sociale, il carattere e la personalità di costoro.

Poliformi sfaccettature, angoli prospettici, visuali e punti di fuga convergono su quell’orizzonte affascinante e tortuoso rappresentato dal binomio “diritto” e “giustizia”.

Il grande pensiero e gli aspetti terrifici che allignano in ogni processo, da quelli del 1300 a quelli odierni, sono maneggiati con cura in una operazione chirurgica-culturale, con puntigliosità ma anche con ironia e, talora, con un atteggiamento altezzoso e sprezzante. Ogni singola minuzia facente parte della costellazione composta da tribunali, studi forensi e atenei viene sottoposta al microscopio dell’esimio studioso. La simbologia giuridica, simile a rappresentazioni mitologiche egizie, greche e latine, assume le forme della potenza del mito, indicando al lettore una diversa, e per lo più sconosciuta, lettura del diritto, non mera e angosciante sommatoria di codicilli ed astruserie da azzeccagarbugli, bensì immerso, sino a rischiare di affogarvi, nell’oceano tumultuoso delle vicissitudini umane.

Le immagini della fanciulla bendata, della bilancia a due braccia o della stadera, dello scettro o della spada, e molte altre ancora, sono puntigliosamente analizzate allo scopo di far fuoriuscire lo spirito vitale da parole ed istituti apparentemente algidi, distaccati e disinteressati alle vicende delle persone in carne ed ossa: il diritto è nella vita e la vita è nel diritto.

La struttura espositiva di Zagrebelsky ricorda quella del noto processualpenalista Cordero e, in qualche modo e nascostamente, apre pertugi evocativi all’almanaccare di Veneziani. Di Veneziani si ritrova il senso del mistero simbolico e mitologico, della forza creatrice e vorticosa dell’etica e della morale, che propiziano il dubbio se debbano affiancare il diritto o diversamente da esso scostarsi, riversando la loro essenza nella ben diversa dimensione della “giustizia”: “Il nodo che stringe tra le due opposte realtà, al diritto e alla coscienza resta irrisolto. In più: si chiede perdono, ma a chi? e lo si può ottenere? E, soprattutto, si può vivere senza scioglierlo? E scioglierlo in che senso: la prevalenza della legge o della coscienza? Purtroppo, nei casi più gravi si può solo stare o di qua o di là. Stare in mezzo è impossibile. Fatta una scelta, si dovrà accettare la condanna per non avere fatta l’altra. Se fai prevalere la legge, subirai la condanna della tua coscienza. Se fai prevalere la coscienza, subirai le sanzioni della legge”. La coscienza veste la morale individuale, la legge l’etica collettiva ed entrambe si soffermano sul dubbio se nel magistrato debbano convivere la condotta proba con la perizia tecnica.

“All’università si studia per il voto? La saggezza antica e moderna, da Plutarco a Montaigne, ripete frasi come queste: la mente degli alunni non è un vaso da intasare o un sacco da riempire, ma un fuoco da accendere. Il compito dei maestri è di scoccare le scintille”. Un monito, un dito che indica un percorso, una meravigliosa visione che abbraccia docenti e discenti, uno sguardo gettato in direzione dell’albeggiare di un futuro dove lo scontro fra esoterismo ed essoterismo sarà inevitabile.

Fabrizio Giulimondi