giovedì 24 dicembre 2020

"IO SONO L'ABISSO" di DONATO CARRISI (LONGANESI)



 La spazzatura era la prova dell’imperfezione del creato”.

Un libro che si legge tutto d’un fiato? Detto fatto! “Io sono l’abisso”, ultimo straordinario lavoro del genio italiano del thriller Donato Carrisi, edito dalla Longanesi.

Credo che rinvierete gli impegni piuttosto che smettere di leggerlo.

Carrisi in questo romanzo si avvicina al compianto Pietro Faletti nel tipo di storia, nella narrazione e nello stesso titolo, abbandonando le tinte esoteriche e catacombali di quelli precedenti.

Il Bene e il Male non sono entità nettamente separate come ci vuole far credere Robert Louis Stevenson nel suo racconto gotico “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”. Il Bene e il Male convivono in noi, si combattono e si accoppiano, si odiano e si amano. Il Bene vive anche nell’essere più abietto, a maggior ragione se la sua abiezione è sprigionata da terrificanti abusi subiti da bambino (“Sono stato partorito da una fetida piscina, ho imparato a respirare dentro l’acqua sporca. Quel buco per terra è stato la mia placenta. La melma, il mio liquido amniotico”). Carrisi forgia un personaggio che è lo sviluppo di un bambino che conosce la più brutale violenza fisica e morale. La costruzione del protagonista è frutto di un’attenta analisi psichiatrica della involuzione mentale e comportamentale di un essere umano in cui dominano i germi del Male instillatigli sin dai primi anni della sua esistenza.

L’invisibilità (“Era solo una macchia trasparente che transitava fugace nel loro campo visivo per poi sparire”) è la consapevolezza che la propria vita non valga nulla e sia inesistente per gli altri. L’unica realtà valevole di interesse è l’immondizia, attraverso la quale si può conoscere la vera, unica, autentica interiorità degli altri, quella nascosta al mondo (“L’immondizia non mente mai”). Sapersi incapaci di vivere una esistenza, perché ci si percepisce inconsistenti, neanche in grado di provare odio e impossibilitati persino a sentire un desiderio di vendetta, se non travasando questi sentimenti nell’“altro da sé” che, però, “è in sé”.

L’uomo che puliva-Micky evoca alla mente il ragazzo- macellaio del film del 1996 di Gregory Hoblit “Schegge di paura”: l’essere umano è complesso e nella sua apparente unicità si nascondono molti “altri da sé”.

Il trauma sorge dalla scoperta di dimensioni dell’animo del tutto sconosciute: compassione, empatia, emozioni, affetto. Ci si avverte “visibili” agli occhi di una ragazzina tredicenne vittima di revenge porn (“la ragazzina dal ciuffo viola”), che ha “deluso” la famiglia perché non incarna il “modello” che si aspettavano di aver partorito: il “mostro” comprende di essere incomprensibilmente considerato dall’altro, ossia da una Umanità che vede e ha bisogno di lui. Le modalità di aiuto sono le uniche che conosce. La violenza è salvifica, vista come unico mezzo per interpretare al meglio l’attenzione verso la vittima della crudeltà altrui, un’attenzione di cui non si ha contezza. Il demonio Micky è sconfitto, prevale “la persona che puliva”, evapora la dicotomia distruttiva della personalità che si ricompone in una sola e angelica via di salvezza prima di morire.

Gli attori del racconto spesso non hanno nomi ma sono indicati per perifrasi, non sono persone nella loro interezza ma sono quello che fanno e sono quello che appaiono. Il nome identifica l’individuo nella sua complessità, cattura l’“in sé” dell’essere umano, la sua dignità inviolabile; la perifrasi parcellizza e destruttura un uomo e una donna in singole porzioni mettendone in evidenza soltanto alcune (“La cacciatrice di mosche”): diventeranno persone vere e proprie solo quando sarà riconsegnato a loro un nominativo.

V’è sempre un punto della propria esistenza in cui a ognuno è dato un ruolo da protagonista per la vita dell’altro, un altro anche solo di passaggio, perché quel “passaggio” servirà a far comprendere all’invisibile di turno che è visibile a qualcuno, visibile ed essenziale: “Se quel giorno fossi morto, non mi sarei mai salvata”.

Fabrizio Giulimondi

lunedì 7 dicembre 2020

"LA BOUTIQUE DEL MISTERO" di DINO BUZZATI (MONDADORI)


La boutique del mistero” (Mondadori) è una superba raccolta di racconti di Dino Buzzati, scelti e collazionati dallo stesso  grande scrittore bellunese (vincitore nel 1958 del Premio Strega, quando il Premio Strega era il Premio Strega): un caleidoscopio di storie che divengono letteratura con la L maiuscola, storie  fantastiche, fantascientifiche, orrorifiche, profondamente spirituali permeate ovunque della presenza di Dio, di grande forza morale, di patti mefistofelici, misteriose, inquietanti, crepuscolari, catacombali, cimiteriali, favolistiche, di tragici sprazzi autobiografici, ironiche, sornione ed ilari e di grande, immenso, immane rimpianto per un passato a cui non ci si può più sottrarre, cui non si può più porre rimedio, ma solo dedicarvi un ricordo, ed espiare: “Ogni vero dolore viene scritto su lastre di una  sostanza misteriosa al paragone della quale il granito è burro. E non basta una eternità per cancellarlo. Fra miliardi di secoli, la sofferenza e la solitudine di mia mamma, provocate da me, esisteranno ancora. E io non posso rimediare. Espiare soltanto, semmai, sperando che lei mi veda.”.  

Fabrizio Giulimondi