domenica 7 luglio 2024

"L'ETÀ FRAGILE" di DONATELLA DI PIETRANTONIO (EINAUDI): VINCITRICE DEL "PREMIO STREGA NARRATIVA" e "GIOVANI" 2024



Donatella Di Pietrantonio possiede un tratto di penna leggero mentre narra la drammaticità di grandi storie con la lievità di una autrice di favole.

Già vincitrice del Premio Campiello nel 2017 con L’“Arminuta” e di altri prestigiosi premi con altre sue opere, ha realizzato una doppietta nell’ultima edizione del Premio Strega, vincendo sia quello per la narrativa che “Giovani”.

L’età fragile” (Einaudi) racconta più storie che confluiscono in un unico dramma, un dramma che il lettore neanche si accorge di vivere, avvertendolo lentamente ad ogni incedere delle pagine che scorrono dinanzi ai suoi occhi.

Amanda e Doralice non si conoscono ma non sanno di vivere gli stessi turbamenti dell’animo che scuotono nella medesima maniera le loro vite che trovano così difficoltà a ripartire.

I contorni dei personaggi sono incerti, confusi come l’orizzonte fra il cielo e la linea del deserto. Le loro personalità sono esattamente in quella zona indistinta dove la sabbia trasloca nel cielo che permane ancora giallognolo prima di spiccare in azzurro. I contorni non sono affatto marcati, l’occhio non ne vede la demarcazione, intravede un annuncio di cambiamento ma nulla è nitido, tutto è ancora opaco: l’arancione e il grigiastro si abbracciano mischiandosi nel celeste incerto della volta che, però, ancora trattiene qualcosa delle tinte amaranto del deserto irradiate dal timido lucore del sole che stenta ad albeggiare.

Le montagne nascondono sempre segreti perché segnano al meglio le contraddizioni della Natura: bellezza che cela una permanente violenza.

Le montagne costituiscono il proscenio di vicende che confluiscono in una sola per poi moltiplicarsi in molte altre: affluenti di un fiume che immette le proprie acque in un lago da cui originano molti emissari.

La pandemia ombreggia la narrazione con il suo manto divisivo di pazzia e irrazionalità.

Questo è “L’età fragile”: il pastello dell’inchiostro misto al colore purpureo del sangue affacciato sulla mobilità gelatinosa di non sapere più chi si è e chi sia chi ti sta accanto e che pensavi di conoscere.


Fabrizio Giulimondi   

lunedì 20 maggio 2024

"V13. CRONACA GIUDIZIARIA" di EMMANUEL CARRÈRE



Venerdì 13 novembre 2015 Parigi è stata teatro di un massacro ad opera della mano islamista.

La sala da concerti Bataclan, lo stadio di calcio e alcuni bistrot sono stati presi da assalto dall’odio terrorista musulmano che ha portato all’omicidio di 130 persone colpevoli di essere occidentali: 130 morti, un suicida per grave stato depressivo e centinaia di feriti nel corpo e nell’anima.

Emmanuel Carrère in “V13. Cronaca giudiziaria” (Adelphi) “dal 2 settembre 2021 al 7 luglio 2022, ha raccontato nei dettagli per i lettori dell’’Obs la brutta storia, piena di lacrime e sangue, di quel maledetto 13 novembre 2015”.

Dal 2 novembre 2021 al 7 luglio 2022 si è svolto il processo ai fiancheggiatori e favoreggiatori degli stragisti, morti dopo essersi fatti saltare in aria. L’Occidente ama la vita, costoro la morte, propria e altrui.

Il processo di “V13” non è più soltanto la sede nella quale si amministra la giustizia ma un rito collettivo di metabolizzazione del dolore che perde, così, i suoi connotati individuali per elevarsi a interiorizzazione della tragedia vissuta, mutando da orrore solipsico a riconoscimento del proprio dolore per mezzo della sofferenza dell’altro, così diversa e così eguale. L’angoscia altrui comprende anche il proprio dramma che, acquisendo una forma comunitaria, assume una nuova qualificazione, una nuova struttura, una diversa dimensione. È proprio la dimensione della terribile afflizione provata a modificarsi elevandosi da percezione individuale a ultra-individuale: “Ci hanno dato un luogo, e del tempo, tutto il tempo necessario per fare qualcosa del dolore. Trasformarlo, metabolizzarlo. E ha funzionato. Questo è quello che è successo. Siamo partiti, abbiamo fatto questa lunga, lunga traversata, e adesso la nave entra in porto. Scendiamo a terra”.

Il lutto necessita sempre di una elaborazione per non cadere nella disperazione, o, peggio ancora, nella autoeliminazione fisica, psichica o morale. Se il lutto coinvolge centinaia di persone allora abbisogna di un lavoro interiore di gruppo accompagnato da una cerimonia formale collettiva: il processo.

Il processo raccontato minuziosamente con grande partecipazione emotiva dall’Autore non è solo una concatenazione di formule, atti e comportamenti aventi valore giuridico, bensì, e soprattutto, un procedimento umano che dall’interno degli animi, delle menti e dei cuori dei protagonisti del Bataclan viene proiettato all’esterno e reso visibile ed intellegibile a tutti, a partire dalle stesse vittime.

Letteratura, psichiatria, cronaca e taqiyya si interconnettono a tale punto da divenire una rete inestricabile.

Fabrizio Giulimondi    

lunedì 13 maggio 2024

“L’AVVERSARIO” di EMMANUEL CARRÈRE (ADELPHI, 2013)



Uscire dalla pelle del dottor Romand significava ritrovarsi senza pelle. Più che nudo: scorticato”.

L’Avversario” di Emmanuel Carrère (Adelphi, 2013) è un libro scioccante basato su una storia vera. Nonostante sia come un lungo racconto che può essere letto in poche ore, “L’Avversario” crea problemi di non poco momento nel lettore, che deve ripetutamente frapporre fra il libro e se stesso più di una interruzione per placare lo stato di disagio che avverte nel suo animo.

Il 9 gennaio 1993 è la data di un crimine mostruoso compiuto in Francia: un uomo uccide a sangue freddo la moglie, i due figli, il padre e la madre.

Quest’uomo per diciotto anni ha costruito una dimensione esistenziale e professionale del tutto inesistente. Famiglia e figli hanno pensato che lui fosse ciò che non è mai stato. Quest’uomo per diciotto anni ha mostrato al mondo quello che sotto l’aspetto umano e lavorativo non è mai esistito. Per diciotto anni la finzione ha sostituito la realtà, la menzogna la verità visibile.

Bastavano semplici e banali controlli per capire che era tutto falso, ma quei semplici e banali controlli nessuno in diciotto anni li ha mai posti in essere.

Il lettore, grazie alla raffinata capacità narrativa di Carrère, è gettato in un reticolato mentale inestricabilmente tessuto con i fili del falso pedissequamente sostituito al vero. La penna dell’Autore intinge nei neuroni allucinatori del protagonista che viene travolto dal proprio incubo, incessantemente fabbricato in diciotto anni di falsità che figliavano falsità e ancora falsità. Il protagonista è solo l’artefice originario delle menzogne per poi divenirne nel lungo termine la vittima.

Pirandello assume le vesti di complice letterario inconsapevole di una agghiacciante strage.

L’inganno non cessa mai, nemmeno durante il processo, neppure dopo la condanna, neanche in carcere e la stessa fede religiosa e la conversione non sono altro che l’ennesimo prodotto dell’”eterno Avversario”.

Psichiatria, ritualità quotidiana e familistica e letteratura partoriscono un lavoro che getta chi lo legge in una perturbante riflessione di non facile soluzione.

Uno scritto profondo per menti profonde e culturalmente attrezzate.

Fabrizio Giulimondi

lunedì 11 marzo 2024

"CARACAS" di MARCO D'AMORE

 








Una Napoli alchemica, una Napoli sotterranea, una Napoli misterica, una Napoli tormentata, una Napoli fra fasti e degrado, fra nazi-fascismo e islamismo, una Napoli onirica: questa è l’opera di Marco D’Amore,Caracas”, con un sempiterno straordinario Toni Servillo e lo stesso regista che riveste anche i panni di attore co-protagonista, pur se non riesce ad abbandonare il ruolo di Ciro nella serie televisiva “Gomorra”.

Le tinte rosso plumbee accompagnano una fotografia incantevole (Stefano Meloni) lungo molteplici storie poggianti sulle immaginifiche creazioni intellettuali di un venerato scrittore partenopeo, Giordano Fonte (interpretato da Toni Servillo), che, fra realtà e proiezioni della mente, ritorna in una Napoli irriconoscibile, nella quale Caracas (Marco D’Amore) si sbatte nella ricerca disperata di una verità, di una certezza, che sia il Duce o Allah, l’amore o l’amicizia.

La pellicola traccia molte narrazioni, quante sono quelle vaneggiate da Fonte e quelle ricostruite dallo spettatore, che si imbatte nella densità dell’arpeggio recitativo di Servillo, nella pungente musicalità dialettale di D’Amore e nella tragica fisicità e mimica della sua donna tossica, Yasmina (Lina Camelia Lumbroso).

L’attenzione dello spettatore deve punteggiare ogni scena girata: la distrazione rimuove la poeticità artistica dell’ambientazione e delle sue multiformi atmosfere.

Fabrizio Giulimondi


martedì 5 marzo 2024

"LA ZONA D'INTERESSE" di JONATHAN GLAZER : PREMIO OSCAR 2024 COME "MIGLIOR FILM INTERNAZIONALE"

 


Forse la traduzione del titolo del film di Jonathan Glazer non è corretta: “La zona d’interesse” è lo “spazio vitale” di cui, secondo la demoniaca mente di Hitler, necessitavano le popolazioni germaniche nei territori dell’Est europeo.

L’opera ha una sceneggiatura (Jonathan Glazer e Martin Amis) ed una fotografia (Lukasz Zal) fuori dal comune, mentre la trama racconta quanto sia banale il Male, volendolo dire con la Arendt.

Rudolf Höß (Christian Friedel) è un padre premuroso e un marito attento e gentile, cortese con i propri collaboratori e sottoposti. Rudolf Höß è stato il comandante del più terrificante campo di sterminio nazista: Auschwitz.

Un lavoro cinematografico veramente particolare, nel quale il set principale è la villa con giardino dove vivono Höß e la sua famiglia, a pochi metri dal muro di cinta del campo.

L’orrore è indiretto, di rimando, visibile e invisibile, avvertito in chiave quasi subliminale dalla costante colonna sonora cadenzata dagli spari delle esecuzioni e dalle urla soffocate dei martirizzati, oltre dalla onnipresente cenere che regna ovunque

I primi piani delle splendide corolle dei fiori contrastano con le chiazze rosse accese dilaganti come simboliche macchie vermiglie di sangue, che si estendono con il dilagare del genocidio.

L’annientamento è sotto gli occhi di tutti, non solo di una sparuta truppa di SS, ma di centinaia di migliaia di soldati, civili e lavoratori con ruoli amministrativi.

La serena quotidianità e l’Inferno oltre il muro, ossia l’allegoria del presente.

Bellezza e orrore: la capacità del Regista di far percepire e far vivere quest’ultimo senza alcun segno di violenza.

Il finale è geniale e rimetto valutazioni ed interpretazioni agli spettatori, nell’auspicio che almeno una nomination all’Oscar vada in porto.

Fabrizio Giulimondi


                            


domenica 3 marzo 2024

“SOUND OF FREEDOM - IL CANTO DELLA LIBERTÀ” di ALEJANDRO MONTEVERDE

 


Sound of freedom - Il canto della libertà” del messicano Alejandro Monteverde, entra nell’antro oscuro del commercio di bambini per scopi sessuali. Il film è del 2018 ma stranamente è uscito nelle sale italiane solo da poche settimane. Son certo che se la trattazione del tema mostruoso della pedofila fosse stata legata alla Chiesa cattolica il lancio pubblicitario sarebbe stato fatto in pompa magna e su larga scala, coinvolgendo per settimane centinaia di sale cinematografiche e non poche unità, per pochissimo tempo e in poche grandi città. Lo sviluppo narrativo è basato su una storia vera, con richiami documentaristici alle immagini di quanto realmente accaduto, mettendo in risalto i legami dello sfruttamento sessale dei fanciulli -  anche di soli 6 anni- con gli ambienti dominati da ricchi magnati americani (evocando l’affaire Assange, Hillary Clinton e Weinstein).

La pellicola è dura ma non esagera nella brutalità delle scene che rimangono, pur particolarmente intense, sempre sulla soglia. L’interpretazione dei due fratellini honduregni Rocio e Miguel, brutalizzati dalla malvagità di individui senza alcun limite umano, è fuori dal comune. Lo sguardo della bambina nel rivedere il padre in ospedale, mentre gli accarezza il volto ancora incredula di poterlo rivedere insieme a Miguel (anch’egli finito nello stesso girone dantesco), penetra nell’anima dello spettatore per rimanervi a lungo.

È un lavoro sulla nobiltà d’animo ed il coraggio (inverati dall’agente dell’FBI Tim Ballard) e sulla quinta essenza del Male, quello con la M maiuscola, che da anni si vuole attribuire soltanto al mondo ecclesiastico, per nascondere le sue vere radici ove vive, prolifera ed imperversa: l’alta finanza e quegli stessi ambienti politici a stelle strisce che hanno come impegno primario, secondario e terziario la illimitata liberalizzazione di qualsiasi costume sessuale, comportamentale ed esistenziale, incluso l’amore transgenerazionale: indovinate che cos’è?

Fabrizio Giulimondi   


                    


lunedì 19 febbraio 2024

MARCELLO VENEZIANI: "L’AMORE NECESSARIO. LA FORZA CHE MUOVE IL MONDO” (MARSILIO NODI)

 


L’amore libero passa, soggetto alle labili volizioni della vita; l’amore necessario resta perché investe l’Essere e non il volere”.

Stiamo entrando nell’era del Non-Essere, nel quale soggetti liquidi galleggiano in un eterno presente, immersi dentro una cultura mortifera in continua autodeterminazione di se stessi, senza vincoli, limiti e freni, in seno ad una a-civiltà priva di orizzonti, patrie o religioni, perché ogni limite, vincolo, freno o orizzonte è un grave affronto all’uomo sradicato da se stesso, senza eredità biologica, controllato nell’uso della parola e calato in un ambiente ecologico privo di Natura. La Natura autentica è bandita, solo l’artificiale espansione dei propri desideri contano per l’uomo senza passato né futuro.

Simone Weil affermava che “pensare è un atto eroico”. Probabilmente l’ultima fatica letteraria di Marcello Veneziani, “L’amore necessario. La forza che muove il mondo” (Marsilio nodi), si pone entro questa energia intellettiva: Veneziani - prima con “Dispera bene”, “La cappa” e “Scontenti”, poi con “L’amore necessario” - compie lungo il tracciato del suo almanaccare ed argomentare una serie cospicua di atti eroici, forse epici.

Da quando l’essere umano è comparso sulla Terra e da quando ha vergato i primi segni sulle pareti delle caverne si è posto dinanzi al sentimento più misterioso, potente e non descrivibile: l’amore. L’amore è stato atto creativo e sarà l’ultimo segno alla fine dei giorni.

La storia dell’uomo è storia di amore, della sua degenerazione, l’odio, e del suo opposto, l’apatia e l’accidia.

L’Autore si intrattiene sull’amore nell’epoca del disamore globale: “L’epoca del disamore è l’epoca del disdio, il Dio disdetto, ancor prima che negato e confutato”.

L’amore è un dialogo con se stessi, con l’altro, con il mondo, con la Divinità, con la verità, l’amore è amor fati, abbandono ad un destino, necessità del passato e proiezione nel futuro: “Quel che precede la nostra libertà e la nostra volontà si chiama natura, identità, origine, destino”.

Una corrente metafisica scorre lungo la schiena del lettore per scuoterne l’anima, l’intelletto e il cuore mentre legge pagine memorabili sulla Patria, l’affetto materno, paterno e filiale e sulla vecchiaia: “Quanti vecchi come lui sognano di tornare a casa, di fuggire dagli ospizi variamente denominati….per riprendere il flusso amorevole della vita, e magari concludere la loro esistenza  non in un posto separato, asettico, privo  di ricordi e di odori nostrani, ma là dove hanno vissuto, patito, gioito, faticato, amato”.

Il pensiero non è sospinto solo da una brezza invisibile ma può possedere anche una sua corporeità, una sua fisicità, quando è talmente denso, profondo, colto ed erudito da essere percepito dai sensi, quasi che le dita possano sfiorarlo, le narici sentirne l’odore e gli occhi vederne le fattezze reali.

L’uomo, specie quello occidentale, sta percorrendo il moto ondoso all’incontrario, nella direzione inversa al suo naturale propagarsi, procedendo nella direttrice opposta alla “amorizzazione” originata da Dio.

Tutto ciò che è reale non esiste, divenendo esistente ciò che non esiste solo perché percepito come esistente: “Viviamo una guerra di liberazione permanente e globale dalla natura, dalla storia, dai limiti, dal corpo e da tutto ciò che ci fu assegnato dalla sorte, e dunque non deciso, non voluto da noi”.

Non esiste la “cosalità” ma solo la percezione dell’”Oltre il limite”, che diviene l’unica realtà ammissibile.

Chi oppone ed eccepisce ancore naturali assume la natura dell’homo neanderthalensis. La vera civiltà è nella sua negazione, il Non-Essere appunto, negazione dell’Essere.

L’amore come archetipo primigenio e come scopo finale è negato. Non v’è amor fati, né amor Dei, né null’altro, solo l’eterno e solipsico reinventarsi senza costrutto. Conta solo ciò che desidero e la sola legge è il mio desiderio e se la scienza lo rende tecnicamente realizzabile questo muta in diritto imperativo e categorico. Desidero, quindi sono: è il tempo di Cartesio rivisitato e corretto.

Il pensiero si fa parola, poesia, letteratura e neologismo, poi sentimento ed emozione ancestrale ed alchemica: “La patria, la religione e la famiglia sono confini che non solo delimitano la nostra vita rispetto al mondo esterno, ma sono argini al nostro egoismo che limitano il nostro individualismo, la nostra volontà particolare”.

 

 Fabrizio Giulimondi