martedì 13 dicembre 2022

"IL MALE CHE GLI UOMINI FANNO" di SANDRONE DAZIERI (HarperCollins)

 


Chi ama il thriller infarcito di serial killer, ragazzine scomparse, sequestrate ed uccise, tensione, suspence, azione, capovolgimenti di trama e di situazione, coupe de theatre, scene mozzafiato, è tempo che si legga l’ultimo romanzo di Sandrone DazieriIl male che gli uomini fanno” (HarperCollins).

Oggi e Ieri. Due donne: Francesca e Itala, un avvocato pieno di rimorsi e una poliziotta piena di “peccati”. Non sono unite da nulla salvo dal tempo e da una lunga scia di sangue. La polizia penitenziaria irrompe in un racconto giallo e ne diventa protagonista.

Non fatevi ingannare dalle apparenze, nulla è come sembra. Non distraetevi, pensate a leggere.

Il Male da sempre esercita un fascino irresistibile sull’essere umano e, in modo ancor più possente, qualora il Male sia incarnato da un omicida seriale.

Con Baudelaire l'arte rivendica il diritto a trattare il brutto anche nella sua forma più estrema, quella del disgustoso. Già Aristotele si era posto la domanda sul perché nell'arte ci attrae ciò che nella vita ci spaventa o ci ripugna. Il Male è una calamita per gli uomini la cui esistenza si nutre del permanente contrasto fra malvagità e bontà. La vita umana è una sempiterna scelta fra il Bene ed il Male, la cui linea di confine non è sempre così marcata, nitida, netta. C’è chi somministra dolore pensando di giungere in tal modo a ciò che è benigno.

La mente non è un unicum ma una realtà misteriosa ed inestricabile, non dominata affatto dall’uomo, che corre il rischio di ingannarsi qualora pensasse di sapersi gestire compiutamente.

Dazieri insinua la narrazione nei pertugi abominevoli del nostro animo, mostrando agli occhi del lettore cosa siamo capaci di fare.

 

Fabrizio Giulimondi

lunedì 12 dicembre 2022

“VITAACANESTRO”, regia di STEFANO MORMILE, testi, musiche e recitazione di PATRIZIO CANNATA




VITAACANESTRO”, regia di Stefano Mormile, è un One Man Show teatrale di Patrizio Cannata, sul palco per un’ora e quaranta, autore dei testi recitati e cantati e delle note che giocherellano nell’aria.

Un’ora e quaranta! Non è poco quando, accompagnati da un basso (Fabio Tortora) e dalle percussioni (Roberto Capacci), si tiene banco fra prosa, chitarra e canto.

Parlare di mafia e delle sue eroiche vittime seguendo la metafora di una partita di pallacanestro: stravagante? Forse geniale!

Cannata menestrello con la chitarra in mano esprime una dimensione della storia, seduto un altro aspetto della narrazione, in piedi una ulteriore visuale del racconto: i movimenti, le tecniche e le regole di una partita di basket si incrociano con le esistenze di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Paolo Borrometi (giornalista e scrittore sotto scorta – vera – dal 2014) e Umberto Mormile (il regista ne è il fratello), educatore penitenziario ucciso l’11 aprile 1990.

Densità storica e leggerezza sonora, in piedi, seduto, in piedi, seduto, con chitarra o senza: le vicende trattate cambiano al ritmo del su è giù, mentre il plettro che pizzica le corde incornicia la contemporaneità resa immortale come solo gli spiriti indomiti  riescono a fare.

 

Fabrizio Giulimondi 

 


sabato 3 dicembre 2022

"LA CASA DELLE LUCI" di DONATO CARRISI (LONGANESI)



Non mi ricordo come mi chiamo. Smettetela di chiedermelo. Io non lo so più

Il Suggeritore…l’Affabulatore…l’Ipnotista…il buio…

Arimo.

Che significa la parola “Arimo” e a cosa serve?

Donato Carrisi, il Maestro dello psico-thriller, è tornato nelle librerie con “La casa delle luci” (Longanesi), romanzo ad alta intensità narrativa ed un finale misterioso e sfuggente.

L’”Addormentatore di bambini” ne esplora solo uno adesso: una bambina, Eva.

Qual è il collegamento fra Eva e un bambino scomparso 25 anni prima, Zeno Zanussi?

Qual è la connessione fra Maja e Hanna?

Arimo.

Una Firenze misterica, una villa isolata dove vivono una bambina, la sua “governante”, la sua “babysitter” e un “bambino immaginario”.

Il passato non è mai passato. Il passato irrisolto è sempre presente.

Arimo.

Le foto nascondono sempre dei segreti.

Adesso ti confiderò un segreto”.

La potenza dell’ipnosi. La ricerca della verità.

Arimo.

Ma la verità esiste o è una disperata invenzione dell’immaginario umano?

 

Fabrizio Giulimondi


mercoledì 23 novembre 2022

"TORNARE UMANI" di SUSANNA TAMARO (SOLFERINO)

 


Duecentosettantotto pagine di delicatezza. Duecentosettantotto pagine di riflessione. Duecentosettantotto pagine di quel denso e lieve ragionato spessore di cui oramai in molti della platea umana sono privi.

L’ultimo libro di Susanna TamaroTornare umani” (Solferino) è di una struggente bellezza. Struggente perché sai che in troppi non lo leggeranno e continueranno a intossicarsi di nefandezze imposte dagli “squaleni”; bellezza per la poetica, in ragione della lirica letteraria.

Gli ideogrammi cinesi tracciano il filo di luce che il lettore segue al fine di percepire il mondo vissuto dall’Autrice nel biennio pandemico italico. Susanna Tamaro ha rispettato i dettami imposti dallo Stato, dai vaccini, all’uso delle mascherine, al rispetto dei confinamenti, ai divieti serali di uscire, al distanziamento fra esseri umani.

La paura, il Kong, è il mezzo per impedire di pensare. Il pensiero è l’arma più potente che un essere umano possegga e, per siffatta ragione, qualunque regime che si rispetti cerca di impedirne il libero esercizio: “L’unico valore ammesso è l’assoluta obbedienza”.

Dinanzi all’irrazionalità delle misure intraprese, alla discriminazione, alla segregazione e all’odio “ufficiale” nei confronti delle persone non vaccinate (“Il no vax da figura folkloristica si è trasformato nel nemico mortale della nazione”), la Tamaro, vaccinata e con la mascherina, non solo non ha cessato di ragionare ma ha potenziato la sua volontà di entrare nel dedalo opprimente delle prescrizioni pubbliche per indagarne le basi razionali, e non scovarne alcuna: il vaccino non impediva nulla, né contagi, né sintomi gravi, né ospedalizzazioni, né morti. La Scrittrice comincia ad avvertire intorno a sé storie di danni fisici, anche fatali, di individui che, fiduciosi in una scienza divenuta inscalfibile religione e fede dogmatica, si sono fatti inoculare il Siero Miracoloso: “Nel culto del vaccino non era più presente neppure la più lontana parvenza di scienza, perché la scienza è davvero tale soltanto quando ammette il dubbio e la possibilità dell’errore”.

Tornare umani” è una meditazione pacata ma tagliente immersa nelle immagini bucoliche dell’Umbria, tanto che all’orecchio di un attento lettore possono giungere i suoni lontani del garrire delle rondini, del mugghio delle mucche ed il fruscio delle foglie.

La delicatezza è la cifra di questo libro, inno all’almanaccare oramai proibito da Kong: “Il pensiero fa la grandezza dell’uomo”.

Non conta ciò che si vede, ciò che si sente, ciò che si è, conta ciò che viene detto “da chi vuole il nostro bene” anche se i fatti lo contraddicono ampiamente.

Un uomo che non pensa è un uomo che è pensato. Un uomo che non agisce è un uomo che è agito. Un uomo che obbedisce senza analisi critica è un uomo pericoloso. La storia del passato racconta di orrori di cui popoli interi si sono resi complici, supini agli ordini: “Il virus di un’irragionevole obbedienza, perché, se non si è in grado di ragionare, tutti gli ordini scanditi con voce autorevole sembrano degni di venire obbediti.”

Il cuore del lettore, verso l’imbrunire del lavoro, viene scaldato dalle vite di tre giganti che hanno opposto un diniego ad obbrobri statuali che hanno inghiottito l’Umanità, con il suo consenso,  (“Come mai seguono così docilmente un tiranno?”): Marie Curie, Fredy Hirsch e Franz Jägerstätter: "Il male provoca fracasso, dolore, smarrimento, confusione; il bene ha una natura silenziosa, forse appena un mormorio, ma la sua luce splende inestinguibile nell'oscurità del tempo, come brillano le lucciole nel torrido calore delle notti estive”.

Le pagine sul perdono che deve essere chiesto dalle Istituzioni sono di mirabile commozione: “Non lo è (idiota, ndr) piuttosto uno Stato che impone a tutti un obbligo su cui non brilla alcuna luce di razionalità, se non quella perversa e cupa del controllo sociale?”.

 Fabrizio Giulimondi

sabato 19 novembre 2022

“SCONTENTI. PERCHÉ NON CI PIACE IL MONDO IN CUI VIVIAMO” di MARCELLO VENEZIANI (MARSILIO NODI)








Scontenti. Perché non ci piace il mondo in cui viviamo” di Marcello Veneziani (Marsilio Nodi) è in qualche modo il secondo tempo di “La cappa”. L’energia cinetica non si era ancora dispersa, non aveva perso di potenza, la bellezza era in moto, in ansia di poter prorompere dalla penna del filosofo pugliese.

Nel tempo dell’apparire, dell’eterna giovinezza e dell’ossessione per l’autodeterminazione dei capricci personali elevati a diritti umani universali, la scontentezza fiorisce come un balsamo venefico fra le pieghe di un “Io” divinizzato.

L’essere umano è in permanente mutazione, esiste e persiste in costante conflitto con la Natura con cui ha ingaggiato una lotta per sostituirla con sempre nuove “non-identità”.

L’essere umano si fabbrica come soggetto mutante, oggetto dei propri desideri volti a plasmarlo sempre in qualche cosa di diverso, in un ansiogeno smarcarsi dalla sua impronta primigenia. La Natura è sostituita dall’ecosistema, l’egocentrismo si trasforma in eco-centrismo.

L’uomo è responsabile di ogni nefandezza e si è messo al bando per essere governato dalle sue vittime: l’Ambiente inclusivo ed animalista.

La scontentezza è ciò che qualifica e aggettiva l’uomo d’oggi o, forse, costituisce il carattere coessenziale della sua natura innata.

Rimanere legati alla propria memoria è uno dei più gravi peccati civili che possa essere compiuto: “Guy Debord notava: «Si sono tolte alle persone tutte le certezze fisse delle quali vivevano e si è anche sottratto e materialmente mutato, nel loro ambito effettivo, tutto ciò che conoscevano e credevano». In questo modo, concludeva, non li hanno resi più liberi; al contrario, sono più schiavi del loro scontento.

Dopo aver coltivato l’alienazione intorno a lui l’uomo si è industriato per alienare se stesso: il corpo gli è dato, gli è disposto, gli è imposto, intollerabile argine alla propria divina libertà. Alienarsi e sradicarsi sono gli ultimi atti per affermare l’”Io” creatore, non succube di nessuno se non delle proprie passioni transitorie, novello Prometeo che ruba il fuoco per donarlo al suo Ego. Dal sistema tolemaico si è passati a quello copernicano per approdare al modello “selficentrico”: l’essere umano gira intorno a se stesso in un vortice asfittico di scontentezza, moderna accidia libera da ogni insopportabile lacciolo morale, etico e religioso.

Il desiderio si costruisce come soggetto e l’individuo ne è l’oggetto. Il desiderio si sostituisce a Dio, agli Dei e al Mito, rompe gli argini e si fa norma indiscussa, incontrovertibile e incontrastabile. Nel desiderio dover essere ed essere coincidono.

Veneziani a questo punto palesa la sua blasfemia: “L’uomo non è il signore dell’universo, la nostra vita non è assoluta e perenne; riduciamo le pretese e i desideri, recuperiamo il senso del limite, accettiamo il destino con amor fati.”.

Il transitorio rimuove le radici e rende la persona fluttuante e priva di orizzonte. Riscoprire il senso dell’Assoluto e dell’Eterno, del Tempo e dello Spazio, di noi come figli non di una incolore ripetitività ma discendenti di  quella Umanità che ha fecondato un futuro fatto di scoperte e meraviglie, e non solo infarcito di catastrofi e tragedie. La paura priva l’uomo del suo domani, rendendolo piccolo dinanzi alle sfide che lo attendono, “in sintonia con fonti a noi superiori e meno transitorie di noi; la tradizione, la trascendenza, la comunità, i legami, l’amore.”.

Fabrizio Giulimondi

 

 

giovedì 22 settembre 2022

"MEMORY" di MARTIN CAMPBELL

 

 


"Memory" di Martin Campbell, classico action movie targato a stelle e strisce, parte con grande intensità per poi scaricare l'energia cammin facendo. L'attore protagonista Liam Neeson è una garanzia avendo una lunghissima carriera come interprete di personaggi impegnati a correre contro il tempo, a colpi di karate e di pistola, in condizioni ambientali impossibili.

La trama riprende altre narrazioni cinematografiche che vedono al centro della scena criminali che poi convertono la propria violenza ad una causa giusta. L'incontro del killer professionista Alex Lewis con una ragazza coinvolta in un gito di prostituzione minorile e pedofilia suscita in lui un tale moto di indignazione da condurlo a collaborare a distanza con i "buoni": i metodi, ovviamente, rimangono inalterati!

Splatter, azione, ambienti turpi e voglia di redenzione costellano la storia che, però, risulta essere, al suo termine, sanza infamia e sanza lodo.

 

Fabrizio Giulimondi

lunedì 19 settembre 2022

"IL SIGNORE DELLE FORMICHE" di GIANNI AMELIO

 



Il signore delle formiche” di Gianni Amelio, bel, affascinante e raffinato film appena uscito dal Festival del cinema di Venezia ed entrato nelle sale cinematografiche (liberate dal green pass e dalle mascherine). Il cast di attori è di tutto rispetto: il bravissimo e neofita Leonardo Maltese nei panni di Ettore, accompagnato da due grandi attori come Luigi Lo Cascio, interprete del protagonista della storia ed Elio Germano, nel ruolo del giornalista “eretico” del quotidiano l’Unità.

Il racconto è tratto da una vicenda realmente accaduta che gira intorno alla vita del mirmecologo, letterato e drammaturgo Aldo Braibanti nella Emilia Romagna comunista degli anni ‘60. Braibanti è omosessuale e attratto dai propri giovani discenti frequentanti la sua scuola di teatro. Con l’accusa dell’allora vigente reato di plagio (art. 603 del codice penale, poi dichiarato incostituzionale dalla Consulta nel 1981) al professore viene storpiata definitivamente l’esistenza con una condanna a nove anni di prigione, mentre al giovane allievo (Ettore) con cui oramai conviveva, viene fagocitata la mente dopo un lungo periodo di manicomio ed una serie di elettroshock.

Braibanti è un antesignano provinciale e sconosciuto di Pasolini, ricordandone le fattezze e l’attrazione per i ragazzi e ripetendone lo schema relazionale fra figlio e madre: la madre di Aldo è figura maestosa straordinariamente inverata da Rita Bosello.

Nel ribadire la delicatezza estetica, il garbo narrativo e le tinte morbide delle immagini, è opportuno mettere in evidenza anche l’esasperazione ideologica che punteggia la pellicola, ideologia che prorompe nella scena della suora che alza il Crocefisso innanzi agli occhi della madre di Ettore a mo’ di esorcismo o in quella in cui il Pubblico Ministero pronunzia parole duramente razziste nei confronti dei neri in un’aula di giustizia.

Il dato “politico” innovativo rispetto al Mainstream si palese nell’esplicita accusa di omofobia ai comunisti nostrani e sovietici, comportamento che oggi comporterebbe la damnatio memoriae.

Fabrizio Giulimondi

 

 

mercoledì 10 agosto 2022

“ALGHEDON. LE CATENE DEI RICORDI” di GABRIELE QUARTA

 


Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere” (Barbara Alberti)

Un’opera prima. Un giovane Autore. Un nuovo scrittore che si affaccia nel mondo letterario. Una speranza che si accresce come la luce di una stella che diviene più intensa e luminosa.

Alghedon. Le catene dei ricordi” (Albatros) di Gabriele Quarta è un mix di generi letterari, dove all’introspezione si affiancano l’horror e il fantasy, con evocazioni cineastiche al pari de “Il Paradiso può attendere” e “La storia infinita” (il “Grande Vuoto” ricorda “Il Nulla”).

Il romanzo è immaginifico, allucinatorio, onirico, gotico, creato dalla potenza dei ricordi. Gli incubi raffigurati dai pittori fiamminghi quattrocenteschi e cinquecenteschi emergono orripilanti e disgustosi durante il racconto del viaggio a ritroso del e nel dolore di due fratelli, Lorenzo e Daniele, con sullo sfondo il padre.

Sensazioni, emozioni, sentimenti e stati d’animo vengono “cosalizzati”, percepiti dai cinque sensi, veri, autentici: il carattere algido del padre abbassa la temperatura dello studio dove egli lavora, mentre la prigione dell’anima e la disperazione di colui che la ospita si trasformano in una prigione dotata di sbarre. La sofferenza non è una entità astratta ma diviene tortura fisica inflitta da un carceriere, null’altro che la propria proiezione.

Metempsicosi, concezioni religiose e filosofiche innervano la narrazione: “Il piacere, come l’amore, non sono altro che uno sporco imbroglio. Il creato stesso è solo un inganno. Siamo allevati come bestie da macello”.

La liberazione avviene cercando la sorgente del patimento, che cresce quanto più si fugge dalle sue ragioni e dalle sue cause. Il simbolismo è lo stilema di Quarta, inventore di storie che non conoscono cesure fra il materiale e l’invisibile, perché l’immateriale compie una metamorfosi in sostanza che, a sua volta, è inscindibilmente connessa con lo spirito, con l’”Altrove”, con l’”Al-di-là”.

La realtà è una ed una sola e può essere compresa sia  con il corpo, sia con l’intelletto e lo spirito.

L’arioso fraseggio, fra il colto ed il giovanilistico, è talora punteggiato da dialoghi serrati come quello micidiale fra il padre e il figlio Lorenzo, estetica letteraria di psicanalisi dei rapporti parentali.

É stata una incredibile avventura. Prometto a voi e a me stesso che sarà solo la prima di molte”.

Me lo auguro!

Fabrizio Giulimondi

 

sabato 9 luglio 2022

"I BAMBINI SILENZIOSI” di PATRICIA GIBNEY

 


Lo schema narrativo del thriller è rispettato in pieno, con innesti di pedo-crime che risentono delle nazionalità irlandese della Autrice, Patricia Gibney, che si cimenta nel suo ennesimo romanzo giallo con al centro dell’azione la detective Lottie Parker: “I bambini silenziosi” (Newton Compton editori)

La tensione emotiva è costante ed inizia sin dalle prime battute del libro. L’atmosfera costantemente in allarme non fa mai sentire il lettore sicuro. I dialoghi serrati danno un tempo rapido alla narrazione che precipita sul finale – e non potrebbe essere altrimenti- in un ritmo elevato. Le pulsazioni cardiache crescono mentre le storie, inizialmente scisse, si incastonano l’una con l’altra, in modo scoppiettante, dentro un mosaico di psicopatia criminale e fanatismo religioso.

La punteggiatura del racconto è espressa dalla voce oscura del pluriomicida che funge da voce narrante: “Nessuno si è preso la briga di guardarmi. Nessuno sapeva chi camminava tra loro. Ero invisibile agli occhi di tutti. Ma non per molto.

Sto venendo a prenderti.”.

I mostri sono fra noi, si occultano vestendo manti di bigia normalità. Poi uccidono, perché è di questo che si nutrono, della morte dell’altro per saziare il loro appetito infernale.

Io uccido per salvarti l’anima.

 

Fabrizio Giulimondi

sabato 2 luglio 2022

"LA GIUSTIZIA COME PROFESSIONE” di GUSTAVO ZAGREBELSKY

 


Libro che consiglio a giuristi, operatori del diritto e a tutti coloro che si sentono attratti dalle questioni normative, e saggio che mi ha suscitato un turbinio di riflessioni e meditazioni: “La giustizia come professione” (Einaudi) dell’immenso dottore della legge Gustavo Zagrebelsky.

Il titolo, nel riprendere quello dell’opera di Max Weber “La scienza come professione”, rischia di sviare il lettore sul contenuto del lavoro, perché nulla ha a che fare con esso.  Zagrebelsky analizza in modo puntuto le locuzioni “diritto” e “giustizia” attraverso molteplici lenti di ingrandimento, da quella letteraria, filosofica, politologica, antropologica, sociologica e storica, a quella aderente all’architettura e alle arti figurative e propria dei Padri della Chiesa e del Nuovo Testamento, sino al vetrino giurisprudenziale e dottrinale.

Il racconto di teocrazie, tirannidi, dispotismi, dittature, autoritarismi e democrazie è snocciolato attraverso il linguaggio dell’edilizia giudiziaria. Il vestiario e l’arredamento degli uffici dei protagonisti del processo costituiscono l’alfabeto in virtù del quale si comunica il ruolo professionale e la collocazione sociale, il carattere e la personalità di costoro.

Poliformi sfaccettature, angoli prospettici, visuali e punti di fuga convergono su quell’orizzonte affascinante e tortuoso rappresentato dal binomio “diritto” e “giustizia”.

Il grande pensiero e gli aspetti terrifici che allignano in ogni processo, da quelli del 1300 a quelli odierni, sono maneggiati con cura in una operazione chirurgica-culturale, con puntigliosità ma anche con ironia e, talora, con un atteggiamento altezzoso e sprezzante. Ogni singola minuzia facente parte della costellazione composta da tribunali, studi forensi e atenei viene sottoposta al microscopio dell’esimio studioso. La simbologia giuridica, simile a rappresentazioni mitologiche egizie, greche e latine, assume le forme della potenza del mito, indicando al lettore una diversa, e per lo più sconosciuta, lettura del diritto, non mera e angosciante sommatoria di codicilli ed astruserie da azzeccagarbugli, bensì immerso, sino a rischiare di affogarvi, nell’oceano tumultuoso delle vicissitudini umane.

Le immagini della fanciulla bendata, della bilancia a due braccia o della stadera, dello scettro o della spada, e molte altre ancora, sono puntigliosamente analizzate allo scopo di far fuoriuscire lo spirito vitale da parole ed istituti apparentemente algidi, distaccati e disinteressati alle vicende delle persone in carne ed ossa: il diritto è nella vita e la vita è nel diritto.

La struttura espositiva di Zagrebelsky ricorda quella del noto processualpenalista Cordero e, in qualche modo e nascostamente, apre pertugi evocativi all’almanaccare di Veneziani. Di Veneziani si ritrova il senso del mistero simbolico e mitologico, della forza creatrice e vorticosa dell’etica e della morale, che propiziano il dubbio se debbano affiancare il diritto o diversamente da esso scostarsi, riversando la loro essenza nella ben diversa dimensione della “giustizia”: “Il nodo che stringe tra le due opposte realtà, al diritto e alla coscienza resta irrisolto. In più: si chiede perdono, ma a chi? e lo si può ottenere? E, soprattutto, si può vivere senza scioglierlo? E scioglierlo in che senso: la prevalenza della legge o della coscienza? Purtroppo, nei casi più gravi si può solo stare o di qua o di là. Stare in mezzo è impossibile. Fatta una scelta, si dovrà accettare la condanna per non avere fatta l’altra. Se fai prevalere la legge, subirai la condanna della tua coscienza. Se fai prevalere la coscienza, subirai le sanzioni della legge”. La coscienza veste la morale individuale, la legge l’etica collettiva ed entrambe si soffermano sul dubbio se nel magistrato debbano convivere la condotta proba con la perizia tecnica.

“All’università si studia per il voto? La saggezza antica e moderna, da Plutarco a Montaigne, ripete frasi come queste: la mente degli alunni non è un vaso da intasare o un sacco da riempire, ma un fuoco da accendere. Il compito dei maestri è di scoccare le scintille”. Un monito, un dito che indica un percorso, una meravigliosa visione che abbraccia docenti e discenti, uno sguardo gettato in direzione dell’albeggiare di un futuro dove lo scontro fra esoterismo ed essoterismo sarà inevitabile.

Fabrizio Giulimondi

lunedì 27 giugno 2022

DIVORZIO DI VELLUTO di JANA KARŠAIOVÁ


Ci sono espressioni che portano in sé l’atmosfera del periodo storico, sono testimonianze degli schemi mentali che sì, proprio come dici tu, Mirka, dopo un po' scompariranno”.

Quanto la lingua determina il flusso della storia e porta divisioni, scissioni e nascite di nuovi stati! I cechi e gli slovacchi, due popoli, due nazioni, due idiomi: il 1º gennaio 1993 la Cecoslovacchia partorisce la Repubblica ceca e la Slovacchia. Il linguaggio trasforma un cittadino in straniero: i cechi in Slovenia e gli slovacchi nella Repubblica ceca.

Le storie raccontate in “Divorzio di velluto” (Feltrinelli) dalla scrittrice di Bratislava Jana Karšaiová si inseriscono in questo frangente della storia, sono forgiate dal fuoco dello shock di una separazione voluta dai governi ma probabilmente non da quelle comunità.

Gli amori, i sentimenti, le lontananze, le tinte scure che connotano gli animi dei personaggi, quasi tutti al femminile, sono il sottofondo, lieve o fragoroso, di quel momento dettato dalla fine dell’impero sovietico.

I pensieri e gli stati interiori sono sopiti, come piedi poggiati sulla moquette. Il romanzo non narra presenze, ma solo assenze, distanze fisiche e mentali. Ciò che non si ha e non si è incarna il vero tessuto del racconto.

Lei non viveva i dolori in quel modo, li seppelliva, non sapeva come fare altrimenti”.

Le stesse città fungono da ambientazione confuse in un veloce movimento di donne e uomini che si spostano dall’una all’altra senza soluzione di continuità: Praga, Bratislava, Verona, Bologna….e sullo sfondo una lontana America.

Le persone sono solo in apparenza in un luogo perché in realtà sono altrove, con i loro corpi ed i loro pensieri. La Karšaiová riempie gli spazi ed il tempo di spazi e di tempi che sono in altri luoghi e in altre epoche. La fisicità non vuole dire esserci: le menti e gli spiriti non sono lì ma in cerca di qualche cosa che i personaggi non riescono ad afferrare. La separazione non è stata solo politica ed istituzionale ma dentro le comunità, le famiglie, le persone.

I loro figli non avrebbero smesso di intrecciarsi, di cercarsi, specchi di loro stessi, a volte innamorati, a volte indifferenti, ma intenzionati a guadagnarsi il proprio posto nel mondo”.

Fabrizio Giulimondi

PS Nonostante l’autrice non sia italiana, il lavoro ha potuto partecipare (poi escluso in uno degli stadi della selezione) alla competizione per il Premio Strega 2022.


 

lunedì 13 giugno 2022

"LE MADRI NON DORMONO MAI" di LORENZO MARONE (EINAUDI)

 

"Tilde era avvelenata dello stesso veleno, c'era in lei quell'espressione di marmo piena di rancore, i suoi occhi erano una prigione per chi li incrociava.".

È difficile recensire una lunga onda emozionale, lunga quanto un romanzo intitolato "Le madri non dormono mai" (Einaudi). Mi auguro che la fatica letteraria di Lorenzo Marone scali le vette dei più importanti premi letterari italiani, dallo Strega al Campiello al Bancarella, perché rasenta il capolavoro.

"Le madri non dormono mai" costituisce un lavoro corale che gira intorno ad una Umanità rotta, abbandonata a se stessa, priva di futuro per se stessa ed i propri figli. "Le madri non dormono mai" si attorciglia ai fianchi di un grido, prima silente e poi sempre più roboante sino ad esplodere acuto, violento e disperato sul finale. Un libro drammaticamente bello, tragicamente e irrimediabilmente coinvolgente, con tinte pasoliniane, tratteggi neorealistici, evocazioni di volti simili a quello intenso della Magnani.

Il set è un ICAM (Istituto a Custodia Attenuata per Detenute Madri) campano. I bambini, sino all'età di dieci anni, sono detenuti con le madri, per poi essere mandati via e tornare da dove provengono, nelle strade pullulanti di topi, immondizia e delinquenza. Le madri hanno coperto uomini violenti o dietro false promesse si sono macchiate di crimini. Il dolore dentro quelle mura è tacitato dalla forza della vita che fa emergere e scoprire nuovi sentimenti e inaspettate amicizie, sentimenti ed amicizie che sciolgono anche i cuori più duri.

Ogni personaggio è una storia a sé stante e i tanti straordinari personaggi compongono un mosaico fitto di volti, corpi, anime, angosce, sofferenze, tristezze, nostalgie per un avvenire diverso.

Diego, Gambo, Adamu, Melina e Jennifer vi sminuzzeranno il cuore: "Nessuno seppe scorgere oltre, dentro il cuore di quel gruppetto di bambini, prigionieri senza colpe, dov'era annidato un pianto ininterrotto.".

Miriam, Dragana, Amina, la madre di Melina: detenute, vittime, autrici di reati, ma, soprattutto, solo e soltanto mamme.

Gli operatori, gli educatori, gli psicologi, la polizia penitenziaria, ossia un florilegio di esistenze volte a salvare se stesse salvando gli altri. Greta, Antonia e Miki sono noi attraverso i loro occhi e le loro movenze.

Il direttore, Giacomo Parisi, esprime lo squallore umano che si deposita ovunque, come polvere cancerogena che alla fine uccide.

Non si può non leggere "Le madri non dormono mai", perché per la durata della lettura dimenticherete voi stessi e sarete gettati in un mondo così lontano ma così vicino, e così terribile, un mondo guardato dalle pupille di bambine e bambini innocenti, attraverso la bellezza di parole brevi ma dalla gradevole sonorità, colorate, come quelle che ricerca Melina per disegnare il suo mondo e quello dei suoi amici, che non vedrà più.

"Ogni cosa per loro era nuova, sembrava fossero tornati a nascere, vivevano di contagiosa allegria. Non che in carcere non avessero avuto la possibilità d'essere felici, i due bimbi prendevano istintivamente quanto la vita dava loro e lo tramutavano col gioco in qualcosa di buono.".

Fabrizio Giulimondi