mercoledì 30 agosto 2017

VERSO IL PREMIO CAMPIELLO 2017: "ANIME BALTICHE" DI JAN BROKKEN (IPERBOREA)

V’è una storia di serie A e una storia di serie B. Quest’ultima non sempre è affrontata con i dovuti mezzi storiografici e rigore scientifico. Quando gli studi della contemporaneità sono affasciati a quelli della vita delle persone, sconosciute e vaporizzate nelle masse travolte dall’azione disgregatrice dei grandi eventi, o appartenenti al gotha dell’inteligentia, la ricerca e i risultati che ne conseguono si manifestano estremamente stimolanti per le menti degli amanti del genere.
I Paesi baltici (Lettonia, Estonia e Lituania) hanno conosciuto epopee di bellezza e di martirio, di pacifica convivenza e di stragi, oppressioni, deportazioni e sangue.
Il giornalista, scrittore e viaggatore olandese Jan Brokken in “Anime baltiche” (Iperborea) trasfonde nel suo lungo saggio questo sforzo di parlare di fatti del passato tramite l’intimità di donne e uomini, le cui memorie vengono estratte dalle miniere dell’oblio e portate alla luce nell’esatto istante in cui il lettore ne scruta le esistenze e le devastazioni.
Un viaggio vero e un viaggio metaforico lungo lo zarismo, lo stalinismo, il nazismo e di nuovo il comunismo che hanno dominato le tre Repubbliche, sino alla agognata indipendenza nata nel 1991 sulle ceneri dell’impero sovietico.
Il leitmotiv della narrazione è lastricato di lettere struggenti e molteplici e puntuali riferimenti geografici, cronologici e fotografici, seppur con qualche sbavatura (la Finlandia non è affatto entrata a far parte della Unione Sovietica dopo il patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939).
La musica, la letteratura, la scultura, la pittura e l’architettura sono inscindibilmente attratte alle vicende legate alle imprese belliche, alla politica, alle tirannidi ed agli orrori marchiati dalla “Falce e Martello” o dalla “Svastica”.
L’arte ispirata dalle tragedie del Secolo Breve. L’arte che coraggiosamente si oppone alle dittature imperanti. L’arte che descrive la follia da cui è circondata.
Arte e Storia. Storia e Arte.
Estoni, lituani e lettoni che conducevano la stessa nostra vita e che si sono visti proiettati dentro un vertiginoso buco nero.
Sì “Anime baltiche” è un viaggio: un viaggio vero, un viaggio metaforico, un viaggio metafisico, un viaggio di milioni di persone per decine di migliaia di chilometri fra la Russia, la Polonia, la Germania sino ai confini dell’Europa.
Brokken nel suo lavoro, a tratti algido, a tratti appassionato, segue meticolosamente come stella polare le parole di Czeslaw Milosz: “Cosa strana: la nostra è un’epoca in cui si parla tanto di storia. Ma se fossimo capaci di ravvivarla con qualcosa di personale, la storia rimarrebbe sempre più o meno astratta, piena di scontri di forze anonime e di schemi. La generalizzazione, indispensabile per una visione di insieme di un materiale immenso e caotico, uccide però i particolari, che sfuggono per definizione alle semplificazioni schematiche”.
Il corposo studio gravita proprio intorno ai particolari: gli accadimenti per l’Autore nederlandese non sono altro che un insieme concatenato e inscindibile di particolari che, nel fornire corporeità a dimensioni storiche composte da esseri umani in carne ed ossa, soverchiano la storiografia ufficiale costituite da un sistema di date, luoghi e nomi roboanti.
La storia per Brokken è una costellazione silenziosa e sofferente di tante Lotti: “‘Sono nel letto di qualcun altro’, si diceva ‘sotto le lenzuola di qualcun altro. Proprio come adesso, nel mio letto di Nõmme o nella mia cameretta in mansarda a Mõisamaa, è sdraiato qualcuno che non conosco’. Sul cuscino le sembrava di sentire ancora l’odore di chi ci aveva dormito prima di lei”.

Fabrizio Giulimondi

martedì 29 agosto 2017

VERSO IL PREMIO CAMPIELLO 2017: "LA COMPAGNIA DELLE ANIME FINTE” DI WANDA MARASCO (NERI POZZA)


La compagnia delle anime finte” di Wanda Marasco (Neri Pozza) – cinquina Premio Strega 2017 – è un romanzo scritto con uno stile fra il barocco e il gotico, che talora incespica in una eccessiva ampollosità, in una rugginosità nel registro linguistico, costellato da locuzioni eccessivamente forbite e ricercate per l’ambiente ove scorrazzano i personaggi. Lo stesso linguaggio adoperato fonde la lingua italiana all’idioma dei bassifondi napoletani. Non una parlata simile al siciliano aristocratico creato da Camilleri o l’arbëreshë gettato abilmente fra le pieghe dell’italiano da Carmine Abate, ma un gergo dei bassi partenopei che si infiltra nella lingua italiana intercettandone parole e compiendo su di esse una inaspettata metamorfosi. Esperimenti linguistici e semantici ben lontani da quelli di Elena Ferrante che con il suo periodare fluido ed incontenibile fa penetrare nell’animo del lettore anche la Napoli più lordata. In Wanna Marasco vi sono tracce pasoliniane, seppur immerse nelle acque del Golfo di Napoli, come se la “sugna” proveniente da un ambiente moralmente e materialmente sozzo e succhiata dai pori delle parole, costituisca l’anello di congiunzione fra la scrittura di Pasolini e quella della Marasco. Senz’altro la Scrittrice risente del “Portavoce della miseria”, Curzio Malaparte. Al pari del grande letterato napoletano, la Marasco canta la povertà, l’ignoranza, la sporcizia, il degrado, la superstizione, l’ignominia vissuta come quotidiana normalità. Nella scena, con chiare venature teatrali, del matrimonio fra Vincenzina e Rafele esplode la sonorità campana unita alla ironia e sagacità carnascialesca propria della commedia goldoniana e eduardiana, accompagnate alla potenza della tragedia ellenica classica. L’Autrice mantiene per tutta la narrazione lo stesso angolo prospettico – pur mutando la voce narrante – da cui tratteggia i personaggi su più piani temporali: quasi non v’è distinzione fra esser vivi o esser morti, perché il vivente di ieri è il fantasma di oggi e chi sta sul palcoscenico oggi sarà lo spettro di domani. Talora ci si chiede se protagonisti e comparse non siano già tutti defunti e non si ingannino, quasi si incaponiscano, a voler restare in vita. In realtà, in ogni personaggio della Marasco v’è sempre un elemento ectoplasmatico.
Tutta la loro vita era concentrata sull’orlo di un pozzo. Rosa aveva fatto il volto cupo e la malinconia in tutta la carne. Nella pena del momento, Vincenzina pensava al ventre. A un enorme ventre spuntato dalla notte, che conteneva il suo e quello di Adelí. Una grotta di carne che aveva fatto i feti destinandoli a una miseria senza fine”.

Fabrizio Giulimondi

lunedì 28 agosto 2017

VERSO IL PREMIO CAMPIELLO 2017: "L'ARMINUTA" DI DONATELLA DI PIETRANTONIO (EINAUDI)

Dettagli prodotto
Lo sguardo e l’espressione mimica della donna della copertina del romanzo finalista del Premio Campiello 2017, “L’arminuta” di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi), preannuncia ciò che sarà raccontato, accenna lo stile seguito dalla Scrittrice: aspro come la terra delle montagne abruzzesi; morbido come la cima della Majella, delicato come le ondine che giungono infiacchite sulle spiagge pescaresi; cocciuto come un contadino chietino. Non v’è un proscenio ben definito. Si sa solo che l’ambientazione è l’Abruzzo, fra la costa, dove il mare addolcisce tutto, e l’interno, dove l’asperità del terreno entra nel cuore di genti abituate alla fatica ed alla sofferenza. Forse è il clima, forse lo stesso ambiente, ma lo stacco di rappresentazione psicologica, morale e fisica dei personaggi è netto.
L’arminuta” è la storia ruvida di una bambina a cui viene stravolta la vita: la madre molto benestante in realtà è sua zia, mentre la zia povera è la vera madre. La ragazzina tredicenne viene calata, al pari di una forra, in una famiglia derelitta. Il tocco delicato della Di Pietrantonio, però, rende morbido ciò che è puntuto e il lettore, nell’incedere della storia, sentirà sempre meno il fetore inizialmente promanato dalle pieghe dei periodi. La famiglia derelitta ha una sorella, Adriana, da cui socraticamente usciranno sentimenti veri, dirompenti, e la madre di quella misera famiglia saprà ben comprendere le esigenze di quella figlia “arminuta”, ritornata.
La scrittura è disseminata di momenti profumatamente poetici: “Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. E’ un vuoto persistente, che conosco ma non supero”.
E’ un romanzo sui bisogni affettivi più ancestrali, animato da una narrazione prorompente sul filo di seta che affascia tutti noi al prima, al dopo, alla vita, alla morte, all’Umanità: la madre. La mamma è il da dove veniamo, il dove andiamo, la strada che percorriamo, gli occhi attraverso i quali vediamo la nostra e l’altrui esistenza: “Non c’era più ragione di esistere al mondo. Ripetevo piano la parola mamma cento volte, finché perdeva ogni senso ed era solo ginnastica delle labbra. Restavo orfana di due madri viventi

Fabrizio Giulimondi  

VERSO IL PREMIO CAMPIELLO 2017: "LA PIÙ AMATA" DI TERESA CIABATTI (MONDADORI)


La più amata” di Teresa Ciabatti (Mondadori), inserito nella “cinquina” del Premio Strega 2017, non lo ascriverei nel genere romanzo ma senza ombra di dubbio in quello autobiografico, fortemente, robustamente autobiografico. Teresa Ciabatti a quarantaquattro anni, ventisei anni dalla morte del padre e a quattro da quella della madre, è ossessionata dal dover capire chi fosse il professor Lorenzo Ciabatti, chirurgo, primario e Padreterno a Grosseto. La trama attraversa le vicende familiari e si inerpica in quelle italiane, dal tentativo di golpe del 7 dicembre 1970, alla P2 e ai mille misteri che avviluppano, soffocandola, la storia italiana.
Il ritmo è sincopato, le parole come singulti e i periodi brevi, convulsi, concitati. Lo stile assorbe i gravi strascichi comportamentali, psicologici e psichiatrici di ogni protagonista della narrazione, a partire dall’Autrice.
Teresa Ciabatti era assillata dalla figura paterna, era oppressa da una domanda: “Chi era veramente il padre?”
Co-protagonista è la madre, Francesca Fabiani, donna ribelle, complice, succube e, infine, anch’essa tormentata dallo stesso dubbio: “Io devo sapere chi è mio marito”.
Passare dalla ricchezza più luminescente alla mediocrità medio borghese, da essere la “figlia del Professore” a divenire una Ciabatti qualsiasi. Drammi sociali, umani, personali, fanciulleschi che portano a conseguenze mentali che impregnano l’esistenza di angosce e quesiti insoluti.
Sociopatia, disaffettività, necessità di amore vero, famiglia autentica.
Francesca Fabiani non sa come frenare il disfacimento. Papà vende, svende, persino regala. Presta soldi, cento milioni a un giovane medico in difficoltà, regala appartamenti non si sa a chi”.
Ironia e autoironia, scrittura e terapia, analisi e letteratura, questo è “La più amata”: ”Questa sono io adolescente. Un agitarsi di forze scomposte e disperate. Una protesta cieca contro qualcosa. Il mondo, la famiglia, me stessa? Sono grassa, mamma…Sono bassa…Sono sola, così sola, non voglio crescere, torniamo indietro tutti insieme, ti prego”.
Fabrizio Giulimondi.


VERSO IL PREMIO CAMPIELLO 2017: "QUALCOSA SUI LEHMAN" DI STEFANO MASSINI (MONDADORI)


Qualcosa sui Lehman
Nelle librerie v’è una biografia romanzata a forma di ballata, “Qualcosa sui Lehman”(Mondadori, finalista Premio Campiello 2017), scritta da un autentico genio artistico italiano, Stefano Massini, che demolisce i consueti canoni stilistici e saltella fra letteratura, cinema, fumettistica, musica, giudaismo, finanza e due secoli di storia.
 “Qualcosa sui Lehman” è una summa di linguaggi e di culture letterarie che abbraccia Grecia e futurismo. La varietà di epiteti  e di poliformi figure letterarie scoppiettano con pirotecnici usi polifonici della parola. Massini è l’acrobata delle parole con cui gioca e si diverte con il lettore facendogli attraversare avvenimenti bisecolari che hanno coinvolto la potente e numerosa gens di finanzieri americani Lehman (i Lehman Brothers). Massini induce il suo pubblico a dipanarsi fra i marosi di arditismi linguistici e fantasiose architetture retoriche. Il lettore, avido di sapere “come va a finire”, in alcuni momenti inconsapevolmente accantona la narrazione per seguire costruzioni funamboliche per intere pagine ruotanti intorno all’avverbio NON; affascinato si perde nel serrato dialogo duettante fra Peter Lehman e Peggy Rosenbaum, tutto composto di frasi estrapolate da film cult degli anni ’30 e ’40; si stupisce dinanzi all’improvvisa trasformazione della prosa in fumetti che tramutano magicamente i discorsi in battute fra super-eroi; si concentra sul lungo ed eccentrico periodare in cui parole evidenziate in rosso si combinano fra di loro dando vita a locuzione di matrice marxista-comunista; viene rapito dalla metamorfosi delle vicende dei Lehman in quelle vissute dai protagonisti nel film King Kong del 1933 (guarda caso finanziato proprio dalla Lehman Brothers!); è avviluppato dagli onirici incubi di Philip Lehman e incespica in fitte discussioni in cui le parole si mischiano agli indicatori numerici di quei “derivati” che determineranno la crisi economica mondiale del 2008, trotterellando prima per il  24 ottobre 1929.
La parola fatta segno trasloca nel frastuono delle contrattazioni borsistiche, intrappolando chi vi si imbatte similmente a sabbie mobili.
Qualcosa sui Lehman” è la storia di una famiglia di mercanti di bestiame, che ha le sue radici in Germania prima di inondare gli States con il  proprio volumetrico mercanteggiare su tutto, dal cotone, al ferro, al caffè, al petrolio al tabacco, per giungere agli arei, alla computeristica e  ai titoli “sporchi”.
Il ritmo narrativo seguito è sincopato in quanto vi confluisce la metrica greca e latina unitamente ad una singhiozzante estetica grafica che incolonna frasi e periodi, oltre ad incanalare in una stessa colonna ripetute parole, identiche fra di loro o fra di loro in alterco, ossessivamente ticchettanti nelle orecchie di chi legge.  Al pari di una canzone, reiterati fraseggi a mo’ di irriverenti ritornelli sono posti all’inizio, nell’intermezzo e al termine di brani e capitoli.
Il lucro è al centro di tutto, perversa patologica brama di denaro che deve fruttificare altro denaro e altro ancora per l’immortalità della famiglia Lehman, sino alla malattia mentale, che si insinuerà nelle intelletti di ogni suo singolo membro.
La lettura ondeggia fra Vecchio Testamento e finanza, ebraismo e lavoro parossistico, per la sempiterna gloria del cognome Lehman, per la glorificazione dell’unico idolo da adorare: “il vitello d’oro”.
Ogni passaggio è infarcito di ironia, tutto è ironia, non c’è momento della vita dei Lehman che non sia maneggiata da Massini con ironia, non leggiadra, ma sprezzante, feroce ironia; e poi il gioco fra termini italiani e in lingua yddish, e il motteggio e l’allegro connubio tra plurimi idiomi con cui vengono tradotte medesime espressioni, per rendere allegro ciò che è tragico, un tragico mercato globale fatto a immagine e somiglianza della  biblica Torre di Babele.
E nulla sarà come prima.

Fabrizio Giulimondi


mercoledì 23 agosto 2017

"SOLE CUORE AMORE" DI DANIELE VICARI

Locandina Sole cuore amore
Sole Cuore Amore”, titolo tratto dal brano-tormentone dell’estate 2001 di Valeria Rossi, è un film di particolare bellezza artistica, estetica e contenutistica. La pellicola, nonostante la sua drammaticità, fa vivere allo spettatore i momenti di vita familiari in modo sereno e, direi, lieto. E’ un’opera sul coraggio di mettere su famiglia nonostante tutto. E’ un film sull’amore gratuito, sull’ amicizia gratuita, sulla solidarietà vera e non ideologica, sui sentimenti autentici. E’ un film centrato sulla forza eroica di Eli (interpretata da una incommensurabile Isabella Ragonese) che, per mantenere i quattro figli (con cui è sempre dolce e disponibile) e il marito (il bravo attore Francesco Montanari) - costretto a lavoretti estemporanei a dispetto della grande voglia di lavorare -, fa avanti e indietro fra il litorale laziale e la zona sud di Roma (due ore di tragitto per andare e due ore per tornare) per fare la commessa (in nero e sottopagata) in un bar. Anche qui la “piccola eroina di tutti i giorni” profonde sorrisi e positività, ossia umanità malgrado tutto, malgrado il proprietario del locale (il sempre grande Francesco Acquaroli) sia un tarpano ripiegato sui soldi che passa il tempo a contare ristretto nello spazio angusto della cassa. La vita di Eli si interseca con quella di Valentina, una cara giovane amica ballerina contemporanea (Eva Greco, cui non mancano particolari doti espressive) con gravi problemi di rapporto con la madre e che mal vive il proprio lesbismo.
La fatica; la quotidianità sempre eguale a se stessa; la ripetitività di gesti e delle movenze; i medesimi mezzi pubblici da prendere, tanti, affollati, troppi chilometri da percorrere; il sonno sempre presente che tortura gli occhi di Eli, la sveglia tutti i giorni alle 4.30 del mattino; il lavoro sette giorni su sette con mezza giornata di riposo: la Ragonese esprime mimicamente e corporeamente tutto questo. Eli è raro che si alteri ma subito dopo si ferma, blocca il risalire e il fluire di sensazioni nefaste.  Eli deve rimanere calma, deve sorridere, perché l’amore per il marito, i figli, la famiglia, l’amica Valentina, la collega di sfruttamento Malika (Chiara Scalise) prevale su tutto. E’ un film che trasuda stanchezza, ma è una stanchezza tinta di sorrisi, di sguardi incoraggianti, di “ce la possiamo fare, questo momento è transitorio, passerà”.
Il colore del film è il rosso e la sua sonorità quello di un sax melodico o jazz, sino ai ritmi cardiaci di un clavicembalo distorto elettronicamente che diviene musica tecno angustiante, presagio di tragedie. V’è una tecnica suggestiva adoperata dal noto Regista Daniele Vicari: la trama si fonde nelle immagini che compongono scene nelle quali lo scuro della notte contrasta con il purpureo del giorno, purpureo che diviene sempre più acceso per esplodere nei vestiti di scena delle danzatrici sul finire della proiezione e, infine, sciogliersi in una colonna sonora che racconta essa stessa di una vita che dovrebbe essere altro.
Film che non può non essere visto.

Fabrizio Giulimondi


giovedì 10 agosto 2017

ECONOMIA SOMMERSA, LAVORO NON REGOLARE ED ECONOMIA CRIMINALE - CONCLUSIONI



Contesto macroeconomico

Viviamo un momento storico particolare e complesso. Gli indici macroeconomici ci dicono che il Paese è in ripresa, l’inflazione sembra ormai sotto controllo, le esportazioni del settore manifatturiero sono tornate a registrare numeri importanti, i volumi di spesa sono in aumento e il risparmio privato si mantiene a livelli più che accettabili rispetto a tutta l’area Ue. La crisi economica, originata con la caduta dei mutui subprime nel 2008 e deflagrata in tutti i Paesi a capitalismo avanzato nel 2009, sembrerebbe rappresentare, ormai, il passato. Eppure, la saggezza consiglierebbe di mantenere un margine di cautela più che considerevole.
Il sistema bancario europeo registra, infatti, continui affanni e la sua esposizione a prodotti di rischio particolarmente tossici desta, tutt’oggi, forti preoccupazioni internazionali. Ma a suscitare l’attenzione maggiore vi sono i dati del comparto occupazionale, da sempre indice macroeconomico per eccellenza nella valutazione dello stato di benessere di un’economia nazionale.
La crescita dell'occupazione, iniziata nel 2015, ha beneficiato soprattutto degli sgravi fiscali previsti dalle ultime due leggi di stabilità. La crescita dell'occupazione si è stabilizzata nell'ultimo trimestre del 2016 grazie al miglioramento dell'occupazione dipendente: 543mila posti di lavoro in più nella media del terzo trimestre 2016, rispetto allo stesso periodo del 2015. Il saldo è positivo (+93mila posti di lavoro nel III trimestre), di cui 83mila contratti a tempo determinato.

Economia sommersa ed economia criminale

L’economia sommersa è l’insieme di tutte le attività economiche che contribuiscono al prodotto interno lordo ufficialmente osservato, ma che non sono state registrate e quindi regolarmente tassate, con l’esclusione del giro d’affari delle attività criminali. In pratica, in base a questa definizione, possiamo dire che esistono tre PIL: quello ufficiale, quello sommerso e quello criminale.
Passando ai numeri, le valutazioni di Banca d’Italia, Corte dei Conti, Istat ed Eurispes sul sommerso vanno da un terzo a oltre metà del fatturato in chiaro del settore privato.
Per la Banca d'Italia, che si basa sull’analisi del flusso di denaro contante nel quadriennio tra il 2008-2012, l’economia inosservata rappresenta il 31,1% del PIL. In valore assoluto, l’economia che sfugge alle statistiche ufficiali sfiora i 490 miliardi di euro, 290 dei quali dovuti all’evasione fiscale e contributiva e circa 187 all’economia criminale.
Per la Corte dei Conti l'evasione si situa intorno al 21% del PIL, dato che pone l’Italia al secondo posto della graduatoria internazionale, dopo la Grecia. La Corte, a differenza di Bankitalia, piuttosto che valutare in modo sistematico il fenomeno del sommerso in termini di imponibile, valuta il mancato gettito e in particolare gli effetti perversi e pesanti della corruzione sul funzionamento della pubblica amministrazione.
Secondo l’Istat - rapporto del 2016 in riferimento a dati del 2013 - il sommerso rappresenta il 12,9% del PIL, ossia 210 miliardi di euro circa. Il dettaglio dell’evasione è così ripartito: 31% nel settore agricolo, 13,4% nell'industria e 21,9% nei servizi.
Le stime dell'Eurispes si attestano a 540 miliardi di euro (36% del PIL ufficiale). Circa 290 miliardi dovuti all'evasione fiscale e contributiva, 170 miliardi di lavoro nero nelle imprese e altri 105 di economia informale. Nello stesso anno il PIL criminale avrebbe superato i 200 miliardi di euro. Il dato si basa estendendo i risultati su oltre 700mila controlli effettuati presso le imprese da parte della Guardia di Finanza - attraverso i quali sono stati riscontrati 27 miliardi di euro di base imponibile sottratta - ai circa quattro milioni di piccole e medie imprese. Da qui si arriva ai quasi 160 miliardi sopra indicati. Sommando i tre PIL (ufficiale, sommerso e criminale) il prodotto interno italiano complessivo schizzerebbe a oltre 2.200 miliardi.
La quantificazione del fatturato e del patrimonio delle mafie è attività, invece, molto più difficoltosa: secondo i diversi studi (Sos Impresa, Banca d'Italia e Transcrime), si passa da 26 a 138 miliardi di euro. Di solito le stime si basano su valutazioni soggettive ritenute attendibili dalle fonti investigative istituzionali (denunce, sequestri e confische), ma si tratta di criteri basati su presunzioni e non su una complessità di dati empirici.
La fonte che di solito viene presa a riferimento per la quantificazione in termini economici delle attività criminali è il rapporto annuale di Sos Impresa, secondo il quale nel 2012 il fatturato delle mafie era stimato in 142 miliardi di euro, la liquidità disponibile in circa 68 miliardi, l’utile in 105 miliardi.
La Banca d'Italia ha effettuato una stima basandosi sulla domanda di contante integrata da informazioni sulle denunce per droga e prostituzione messe in relazione al PIL delle singole province italiane. Nel rapporto pubblicato nel 2015 attribuisce all’economia criminale un valore pari al 10,9% del PIL nel periodo 2005-2008, ma in continua e costante ascesa.
Più contenuti i dati di Transcrime (centro di ricerca sul crimine transnazionale): il giro d’affari della criminalità organizzata ammonterebbe in media “solo” all’1,7% del PIL, con un fatturato che varia in un intervallo compreso tra i 17,7 e i 33,7 miliardi. L’ipotesi di fondo dello studio è che solo una fetta delle attività illegali sia controllata da organizzazioni criminali (ad eccezione delle estorsioni, tipiche del crimine organizzato): il fatturato delle mafie varierebbe tra il 32 e 51% del PIL illegale.
Mentre sul fatturato delle mafie i dati risultano contrastanti, viceversa sul patrimonio accumulato i numeri mancano del tutto, così come sulle infiltrazioni delle organizzazioni criminali nell'economia legale. L'unico dato certo è che il patrimonio sottratto fino a oggi alla criminalità organizzata e a disposizione dello Stato ammonta a circa 20 miliardi. In altre parole, sugli aspetti più opachi dell’economia illegale non esistono analisi certe e dati scientifici.     
Di certo v’è di certo l’esistenza di una gigantesca distorsione nel nostro tessuto economico istituzionale tale da drenare, ogni anni, una quantità ingente di risorse produttive.


Interventi normativi
                      
I recenti provvedimenti adottati dal Governo, in particolare l’approvazione del decreto legislativo sulla corruzione tra privati (decreto legislativo 38/2017, in attuazione della delega prevista dall’art. 19 della legge di delegazione europea 2015 - legge 170/2016), rappresentano un ulteriore passo in avanti all’interno di un percorso riformatore che, in questi anni, ha inteso combattere senza quartiere la corruzione, riformulando le ipotesi criminose, aggravando la risposta sanzionatoria ed introducendo anche meccanismi premiali e di deterrenza.
L’intervento in esame si polarizza ancora una volta sia sui soggetti operanti che sulle condotte di reato punendo, per il reato di corruzione nel settore privato, coloro che svolgono funzioni direttive all’interno di un ente ed ampliano le condotte sanzionatorie ricomprendendovi anche l’istigazione alla corruzione.
Il fenomeno corruttivo provoca, infatti, danni all’interno del sistema, pubblico e privato, creando un deficit di trasparenza ed efficienza che incrina la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e indebolisce il mercato, favorendo la concorrenza sleale e scoraggiando gli investitori stranieri. Il provvedimento ha completato la risposta normativa rispetto al fenomeno corruttivo tra privati, già colpita dal nuovo Codice degli appalti che ha introdotto, tra le altre misure, il sistema del rating di legalità quale strumento di garanzia di accesso delle imprese sul mercato pubblico. Senza contare l’introduzione di poteri molto più pervicaci in capo all’ANAC sul fronte repressivo oltre che preventivo.
Sul piano sanzionatorio si introducono nuovi illeciti penali e amministrativi per presidiare l’osservanza degli obblighi di adeguata verifica della clientela, di conservazione dei dati e di segnalazione delle operazioni sospette dettati in funzione di prevenzione del riciclaggio e di finanziamento del terrorismo, nonché di un più adeguato controllo degli operatori del settore del “money transfer”. La natura di per sé sovranazionale del fenomeno del riciclaggio ha indotto, poi, il nostro Paese a dotarsi di strumenti di cooperazione più ampi, attuando il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca a livello europeo e questo con l'adozione del decreto legislativo n. 137 del 2015.
Tra le azioni di Governo, desidero ricordare inoltre l’approvazione il 18 ottobre 2016 del disegno di legge sul caporalato. La nuova normativa ha rafforzato il contrasto a questa realtà, con l’introduzione nel codice penale dell’art. 603 bis, collocato proprio tra i delitti contro la libertà individuale della persona. Il caporalato è un fenomeno inumano che questo Governo ha inteso avversare con grande determinazione. La legge sanziona la condotta anche del datore di lavoro e non soltanto dell’intermediario; prevede l’applicazione di un’attenuante in caso di collaborazione con le autorità, l’arresto obbligatorio in flagranza di reato e, in alcune ipotesi, la confisca dei beni. Il provvedimento stabilisce, inoltre, l’assegnazione al Fondo anti - tratta dei proventi delle confische ordinate a seguito di sentenza di condanna o di patteggiamento per il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro ed estende, altresì, le finalità del Fondo alle vittime del delitto di caporalato, oltre a valorizzare le aziende virtuose.
Da segnalare, inoltre, la riforma del codice penale, approvata poche settimane fa, che ha introdotto una serie di innovazioni per l’aggravio delle pene in ordine ad alcuni reati ad elevato allarme sociale (dal voto di scambio mafioso al furto e rapina aggravati), ma che incidono anche sulla natura del processo, introducendo elementi di forte modernizzazione, semplificazione ed innovazione.
Infine, ricordo che è attualmente in atto la discussione sul testo di riforma del codice antimafia, approdato al Senato dopo l’approvazione alla Camera. L’auspicio di tutti è che si possa arrivare alla rapida conclusione del procedimento legislativo, così da introdurre i correttivi più efficaci in tema di confisca dei beni mafiosi, di poteri di scioglimento dei comuni infiltrati dalle organizzazioni mafiose e di nuove regole a cui i comuni sciolti devono uniformarsi finito il periodo di commissariamento.

Conclusioni

E’ necessario stabilire un lavoro sempre più sinergico fra tutti gli attori istituzionali che agevoli il nostro Paese ad implementare la propria crescita economica, i livelli occupazionali già in costante aumento ed il clima di fiducia (già migliorata), rafforzando contestualmente la cornice di legalità all’interno del sistema economico e sociale.
La nostra economia ha registrato una crescita che fa ben sperare per il futuro e ci stimola a continuare il percorso di modernizzazione degli impianti normativi volti alla semplificazione della burocrazia e alla razionalizzazione delle risorse, come fatto in questi ultimi anni.
Per quanto concerne il settore di mia competenza, la giustizia, si è avviato un cammino innovatore che sta portando risultati già molto importanti, quali: la velocizzazione dei procedimenti e la conseguente diminuzione dell'enorme carico di arretrato civile, la valorizzazione delle procedure di risoluzione stragiudiziale ed arbitrali delle controversie, la razionalizzazione e modernizzazione delle norme in materia fallimentare e la maggiore specializzazione dei magistrati in materia commerciale con il potenziamento dei Tribunali delle Imprese. Il buon funzionamento del “sistema giustizia” rappresenta uno dei fattori di maggiore importanza per quanto concerne la potenziale attrattività di un Paese. In un’economia sempre più globalizzata è decisivo attrarre investimenti stranieri e incoraggiare la competitività sul piano internazionale, così come contrastare con rinnovata efficacia le sacche di economia sommersa e criminale, oggetto della nostra discussione odierna, che rappresentano un odioso freno allo sviluppo economico e produttivo del Paese.
Abbiamo messo in campo azioni finalizzate al mantenimento della continuità aziendale, alla maggiore accessibilità al credito per le imprese che si trovano in un momento di difficoltà e a rendere più celere il recupero dei crediti, con la creazione della nuova figura del pegno non possessorio. Strumenti non solo repressivi, dunque, ma che intendono affiancare i settori produttivi in crisi in un’ottica virtuosa e collaborativa, evitando che siano le sacche mafiose a svolgere funzioni di “welfare” criminale per le imprese.
In conclusione, vogliamo e dobbiamo vincere la sfida della legalità. Una sfida che è prima di tutto culturale, poiché solo contrastando con efficacia i gli incancreniti fenomeni mafiosi si può davvero ripristinare il rispetto della legalità nei rapporti sociali ed economici. Abbiamo il dovere di garantire una leale concorrenza sul mercato, improntata a parametri di equità e di equilibrio sociale.  
Inoltre, occorre garantire una maggiore appetibilità delle strutture e delle funzioni statuali, a cominciare dalle regioni maggiormente in difficoltà dal punto di vista economico. Bisogna aiutare i cittadini a scegliere lo Stato e aiutare lo Stato stesso ad essere appetibile agli occhi dai cittadini. Dobbiamo rompere questo circuito pernicioso che conduce a trovare nelle mille opportunità sommerse dell’economia mafiosa le risposte ai piccoli e grandi drammi occupazionali e sociali esistenti, a maggior ragione in quei imprenditoriali sfibrati dalla crisi.
Ecco perché, e vado a concludere, il nostro Paese ha il dovere di continuare nel cammino intrapreso dal Governo in maggiori investimenti nella pubblica amministrazione, nel miglioramento dei servizi pubblici unitamente ad una loro costante modernizzazione, qualificando sempre di più il capitale umano.

Fabrizio Giulimondi

ASPETTI DELLA FILOSOFIA APPLICATI AI CAMPI DELLA POLITICA E DELL’ECONOMIA



Il rapporto fra economia e politica è indubbiamente vicendevole, essendo essi settori di vita pubblica e sociale che si auto influenzano. Gioca, invece, un ruolo “pivotale” il concetto di filosofia, capace di influenzare tanto l’economia quanto la politica, e arrivando ad incidere sulle scelte di fondo nel campo dell’una e dell’altra. L’esito ultimo finisce per ripercuotersi sulla definizione delle scelte di politica pubblica, sui temi di policy rilevanti ed anche, inutile nasconderlo, sul modo che gli attori istituzionali politici ed economici hanno di esercitare tali funzioni. Non stupisce l’attinenza tra lo svuotamento della dimensione valoriale che attanaglia il nostro presente, i numerosi scandali che sconquassano il rapporto tra pubblici poteri e attori economici e il macro problema che tutto ciò comporta all’interno della sfera dell’etica pubblica.
Economia è un termine greco, composto dai due sostantivi oikos (casa) e nomos (regola, governo). Il “governo della casa” rinvia all’idea di una buona amministrazione, e quindi del corretto uso delle risorse disponibili. Il significato primario di economia non contiene dunque un immediato richiamo filosofico ma rimanda al concetto di efficienza, ossia a un principio di razionalità strumentale (rapporto mezzi/fini) pure storicamente centrale per l’economia.  Il termine “casa” può assumere diversi significati, che vanno dal nucleo domestico e familiare fino all’ azienda, per arrivare alla polìs. Nell’antichità il termine economia rimandava ad una scienza normativa che prevedeva il “vivere bene dentro l’oikos”. La “crematistica”, invece, indicava l’arte dell’accumulare ricchezza. Gli antichi tennero particolarmente a cuore tale distinzione, che permetteva di non identificare il campo della crematistica con l’intero campo sociale. La differenziazione dei due concetti, così marcata nell’epoca antica, finì per essere costantemente compressa nel corso dei secoli, tanto che l’economia politica moderna nacque nel 1700 con Adam Smith esattamente grazie all’ unificazione dei concetti di economia e crematistica.
Ma altri aspetti del sapere economico, che oggi riteniamo attuale, affondano le proprie radici nel pensiero antico. Il tema dello scambio, che anticipava l’utilizzo di moneta, fu al centro della creazione della logica di mercato. Il tema dello scambio, del mercato, della moneta rappresentarono la prima forma di giustizia, che Aristotele chiamava commutativa e che distingueva dalla giustizia distributiva. Ogni volta che riceviamo qualcosa questo crea in noi l’obbligo a ricambiare. Ciò fa sì che in ogni società il ricambio avvenga con qualcosa di fisicamente diverso, ma in qualche modo equivalente, a quanto ricevuto. Nasceva, di fatto, la concezione del valore economico e la moneta diventa(va) lo strumento di misura degli equivalenti. La giustizia commutativa anticipò, e di molto, l’idea di concorrenza, stabilendo una sorta di “democrazia economica”. Naturalmente non era facile, e del resto non lo è tutt’ora, realizzare la giustizia commutativa attraverso il regime di concorrenza: le alterazioni della concorrenza erano comunissime, sino all’estremo della condizione di monopolio, che per Aristotele rappresentava il massimo esempio di violazione della medesima giustizia commutativa. La disciplina economica nasceva, dunque, su basi filosofiche, addirittura normative. Siamo nell’ambito di una disciplina morale, il cui fine è la realizzazione della giustizia, quanto meno da Platone e da Aristotele in poi.
Mentre la giustizia commutativa era l’equivalenza nello scambio, la giustizia distributiva mirava ad un’equilibrata proporzione nella distribuzione dei beni, anticipando ciò che oggi noi chiamiamo giustizia sociale. In epoca moderna, la distinzione tra economia e crematistica finì per ridimensionarsi sempre più e la ricchezza divenne misura crescente della felicità. Conviene qui ricordare subito che la massima opera di Adam Smith, del 1776, riguardava la ricchezza stessa. Il titolo completo dell’opera di Smith è Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Oggetto dell’economia per i moderni divenne anzitutto il sistema economico, piuttosto che il singolo individuo. Occorreva stabilire la natura della ricchezza (ossia cosa fosse la ricchezza) e, su questa base, sviluppare un’eziologia della ricchezza stessa (la ricerca delle sue cause). In epoca moderna la ricchezza iniziò ad avere al centro del suo interesse lo studio della dinamica della ricchezza, con l’indagine sulle cause della sua formazione e della sua “esportabilità”. La modernità, non a caso, fu l’epoca della formazione degli Stati nazionali, con un processo storico che portò in evidenza il valore politico della ricchezza delle nazioni. Accanto alle armi e alla diplomazia, la ricchezza gradualmente emerse come fattore spesso pragmaticamente decisivo di potere politico. Le scuole di pensiero economico che si succederanno nel corso dell’epoca moderna si divideranno, infatti, proprio sulla natura della ricchezza, e finiranno per legarsi storicamente all’esercizio del potere politico del proprio tempo.
La prima concezione della ricchezza, sviluppata dalla scuola mercantilista (tra il 1500 e il 1700), è quella dell’accumulazione di denaro come misura della ricchezza di un sistema statuale e, quindi, come parametro della sua forza sullo scacchiere internazionale. Proprio del valore del denaro e dei beni, in relazione alla loro diffusione sul mercato, si occuparono numerosi autori, come Potter, Asgill, Cary e Davenant. Furono tra i primi a sostenere l’adozione monete cartacee, sotto forma di banconota, proprio per separare il valore del metallo delle monete dal valore comunemente assegnato al denaro quale parametro comune di scambio, suggerendo che la maggiore rapidità di scambio delle monete cartacee avrebbe favorito l’industria e il commercio. In generale, la scuola mercantilista assegnò grande attenzione alla bilancia dei pagamenti degli Stati, vale a dire lo strumento che registra ancora oggi il saldo del dare e avere di un sistema statuale rispetto all’estero, ritenendo tale via l’unica possibile per la misurazione dell’espansione o della diminuzione della massa monetaria di un sistema statuale e, dunque, il suo stato di salute.
La scuola mercantilista indurrà a una mentalità capace di diffondersi gradualmente e rapidamente, che privilegerà non solo il denaro in sé in quanto misura di salubrità di un dato sistema economico, ma che influenzerà i temi del credito prima e della finanza poi. L’obiettivo dell’economia sarà quello di accrescere il valore delle attività monetarie, tanto di quelle creditizie che di quelle finanziarie. La finanza rappresenterà uno step successivo, e avverrà con la cartolarizzazione dei rapporti di debito e credito. Il credito (con il corrispondente debito) non sarà più semplicemente il rapporto tra un soggetto identificabile e un’istituzione creditizia, ma si tradurrà in un prodotto finanziario negoziabile, e quindi in un titolo di credito a tutti gli effetti. Il periodo mercantilista, non a caso, fu l’epoca della nascita delle grandi istituzioni finanziarie del capitalismo moderno. Intuizioni quali i mercati finanziari, i debiti pubblici e le banche centrali appartengono esattamente a questa fase. Il mercantilismo, in sintesi, divenne il frutto più maturo di quella mentalità pragmatica e dirigista che caratterizzò la tarda età dell’assolutismo e che poco si curava delle sottigliezze della giustizia commutativa o della giustizia in genere. Tale mentalità finì per propugnare una prassi politica ontologicamente nuova, che trovò il suo alveo politico naturale nella formazione dei moderni Stati nazionali ma che ebbe nella graduale migrazione da un’economia prettamente aristocratica e terriera ad una tipicamente borghese e industriale la sua manifestazione teoretica più piena. Il protezionismo che produsse finì per esaltare gli aspetti monetari e finanziari della vita economica, segnando la cesura definitiva tra l’epoca antica e quella moderna.
Largamente francese è la reazione al mercantilismo che si sviluppa sin dagli anni venti del Settecento, per poi crescere impetuosamente attorno alla metà del secolo XVIII, e che prese il nome di scuola fisiocratica. La fisiocrazia aveva per obiettivo il recupero di una concezione della vita economica frutto della speculazione intellettuale, e non appannaggio esclusivo di banchieri e creditori. Il nome di fisiocrazia evocava, già di per sé, il richiamo al dominio della natura. I fisiòcrati, infatti, si richiamavano al diritto di natura e promuovevano la concorrenza quale mezzo di accrescimento della ricchezza, finendo per criticare l’imposizione di dazi e di imposte indirette. L’approdo ultimo finì così per essere la critica feroce della concezione monetaria e finanziaria della ricchezza propugnata dal mercantilismo. Moneta e finanza non potevano essere più, a patto che lo fossero mai stati, i parametri esclusivi della ricchezza di uno Stato. Al massimo, potevano essere strumenti utili per la promozione di ricchezza, ma a patto che tale ricchezza fosse misurabile in termini reali, ossia di beni materiali prodotti. Nel celebre Tableau économique del 1758 del grande maestro della Fisiocrazìa, François Quesnay, la moneta veniva messa all’angolo e ridotta a mero strumento di circolazione. L’accumulazione della ricchezza, per Quesnay, dipendeva dalla capacità di un sistema paese di produrre prodotto netto, ossia di produrre un avanzo di prodotto a seguito dell’accantonamento delle risorse utilizzate per la produzione stessa. Non da altro. Per i fisiòcrati il solo settore economico capace di produrre prodotto netto era e rimaneva l’agricoltura. Rovesciando le parti rispetto alla concezione mercantilista, i fisiòcrati finirono per esaltare l’agricoltura come settore produttivo per eccellenza e per prendere le distanze dalla manifattura, “sterile”, a loro avviso, perché incapace di creare prodotto netto.
Questa piccola sistematizzazione delle correnti economiche nell’Occidente moderno non può che portarci al pensiero di Adam Smith, grazie al quale l’economia politica nel ‘700 ebbe il suo grande momento di gloria. Caratteristica specifica delle analisi di Smith fu il peso e il rilievo che egli attribuì al concetto di “simpatia”. Nel sistema di Smith il dato antropologico di fondo fu costituito dalla capacità dell’uomo di condividere, attraverso l’immaginazione, i sentimenti dei suoi simili, sviluppando una capacità di immedesimazione. Nessuna delle specie animali ha una simile capacità. Dalla simpatia, dall’immedesimazione, scaturirebbero non solo regole morali di comportamento ma anche l’origine stessa dello scambio nella vita associata. La coscienza morale, per Smith, finirebbe per non risponde più ad un principio razionale interiore, ma, scaturendo dal rapporto simpatetico che l'uomo ha con gli altri uomini, presenterebbe un carattere prevalentemente sociale. Le stesse norme sociali non possono che spingere verso modelli di solidarietà e integrazione sociale.
In quest'ottica, ad esempio, il diritto di proprietà non è un diritto naturale, come l'intendeva John Locke, e per questo anteriore ad ogni convenzione sociale, né un artifizio storico come sostenuto da Hume, ma il risultato di un processo speculare di simpatia e socializzazione che giustifica ad esempio la proprietà in quanto possesso di un oggetto, frutto legittimo di un lavoro personale, che se fosse espropriato, implicherebbe un giudizio negativo dell'uno sull'altro.
Riprendendo la riflessione di Smith, anche il Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz sottolinea più volte come sia rilevante anche oggi, a livello antropologico ed economico, il concetto di simpatia, il cui compito è quello di non cedere ad una politica astratta caratterizzata dalla perdita di contatto da parte degli attori politici con le realtà sociali circostanti ma tendere ad un miglioramento concreto e continuo delle condizioni di vita economiche e sociali. Il politico e l’economista sono coloro che ragionano, proprio come il filosofo, su una realtà sociale già costituita al fine di arricchirla e perfezionarla, apportando nella società un contributo diretto e condiviso che miri ad un beneficio reale delle persone.
E’ da queste premesse che nascerà una nuova concezione della ricchezza, proposta già da Smith dopo aver criticato le nozioni delle due scuole precedenti (quella mercantilista e quella fisiocratica). La ricchezza, a partire da Smith, diviene il frutto dell’intensificarsi della relazionalità umana attraverso lo scambio. Lo scambio quale altra faccia della divisione del lavoro che, secondo Smith, resta la principale causa del progresso e dell’accumulazione della ricchezza. La divisione del lavoro a sua volta trova, per Smith, la sua applicazione caratteristica nella manifattura (espressione paradigmatica dell’apogeo borghese fin ad allora politicamente sotto-rappresentato), così che anche da questo punto di vista lo schema fisiocratico arrivi ad essere sovvertito.
Il frutto avvelenato di tale concezione, di certo illuminata nella sua incredibile capacità di analisi e lettura della società nel suo divenire, fu un il laissez faire che condizionerà gli aspetti teorici e pratici dell’economia politica per tutto l’800, fino ai primi decenni del Novecento. Complice la crisi economica di sistema che attanaglierà il settore produttivo statunitense tra le due guerre mondiali, l’avvento di John Maynard Keynes cambierà radicalmente i parametri teorici fino ad allora caratterizzati da dogmatici assiomi. Primo, fra tutti, lasciare libero il mercato di regolarsi e di regolare la vita sociale. L'asse portante della teoria macroeconomica dell'economista inglese sarà, invece, l’eliminazione dell’instabilità del mercato e delle diseguaglianze economiche e sociali per realizzare “una buona vita e una buona società”.
Fautore della piena occupazione, che non coincide con la crescita economica illimitata ma con l'equa ripartizione del lavoro e dei redditi, Keynes è stato ridotto, negli anni,  all'assunto che la causa della disoccupazione risieda nella rigidità dei salari monetari. Al contrario, è l'assenza e l’imprevedibilità della domanda, sosteneva Keynes, a causare l'instabilità del mercato. Il che, si badi bene, è in diretta opposizione alla tesi degli economisti neoclassici secondo cui l'offerta generi la sua domanda e il sistema di mercato si autoregoli.
Dalla Teoria generale prese avvio quella che è stata chiamata la “rivoluzione keynesiana”. Fedele alla sua idea di fondo che gli economisti dovessero mirare a scrivere cose utili, Keynes si propose di superare le profonde differenze di opinioni fra gli economisti, colpevoli di aver distrutto l’influenza pratica della teoria economica. Ossia, incapaci di generare ricchezza e benessere. Proprio tale appello agli economisti, affinché si sforzassero di uscire dal campo ristretto delle formulazioni astratte, specialmente quelle di carattere matematico, per “sporcarsi le mani” con i fatti e con le passioni politiche degli uomini spiega il fascino straordinario che Keynes esercitò sugli economisti del suo tempo, e in particolare su quelli più giovani. Fascino che divenne irresistibile quando l’aumento apparentemente inarrestabile della disoccupazione e della povertà, seguito al crollo di Wall Street del 1929, rese palese l’inservibilità delle teorie economiche tradizionali di fronte a fatti straordinari. La forza del messaggio di Keynes fu quella di offrire una spiegazione convincente delle cause della crisi, accompagnata dal rifiuto morale di rassegnarsi davanti ai problemi della società, ricercando al contempo risposte credibili e sperimentabili.
Per i primi trent’anni del secondo dopoguerra è sembrato che l’interpretazione keynesiana del funzionamento delle economie capitalistiche fosse fissata una volta per tutte e che le relative implicazioni, dal punto di vista della politica economica, fossero solide e indiscutibili. Poi, dalla metà degli anni settanta del secolo scorso, la rivoluzione keynesiana ha perso rapidamente mordente e vigore, e sono ritornate in auge, pur se confezionate in forme apparentemente nuove, le idee che la Teoria generale aveva spazzato via. Un ritorno al passato che ha fatto sì che la scienza economica perdesse nuovamente di vista, nel prevalere dei modelli formali, la sua vera ragion d’essere, ossia quella di contribuire a risolvere i problemi dell’umanità.
A partire dal 2007/2008 il crollo del mercato dei subprime negli Stati Uniti, l’ondata dei fallimenti bancari, l’improvviso venir meno dei canali di circolazione della moneta, il diffondersi della crisi in tutto il mondo e il panico evidente dei governi e delle istituzioni internazionali hanno incrinato le certezze della teoria economica dominante, di cui si erano nutriti il mondo accademico e i governi. Per molti decenni il discrimine fra destra e sinistra era stato segnato dal giudizio di fondo sull’assetto finale che avrebbe dovuto avere il sistema economico dal punto di vista del controllo sui mezzi della produzione. Da un lato i sostenitori del capitalismo, dall’altro i sostenitori della necessità di una radicale trasformazione delle basi stesse del sistema economico nel senso del socialismo. La caduta del Muro di Berlino, la venuta meno di un intero mondo valoriale ed economico quale quello della galassia sovietica, avevano fatto ritenere che la “fine della Storia” teorizzata da Francis Fukuyama, ossia l’apice del processo di evoluzione sociale, economica e politica dell'umanità raggiunto alla fine del Ventesimo Secolo, fosse più di una ammaliante suggestione. Oggi, venuta meno l’alternativa radicale fra capitalismo e socialismo, il discrimine fra destra e sinistra è finito per porsi all’interno stesso del mondo capitalistico. La luce accesa su zone d’ombra per troppo tempo dimenticate, ha finito per scoperchiare antinomie non più riconducili a soluzioni di piccolo cabotaggio. I soggetti politici, dinanzi a tassi elevatissimi di disoccupazione e ad ineguaglianze sociali sempre più accentuate, hanno titolo per ingaggiare una battaglia volta a cambiare le leggi e la filosofia delle istituzioni economiche dominanti, avendo, nelle politiche keynesiane, il più forte e organico complesso di proposte programmatiche. Il caso dell’Unione Europea, e della crisi politica, economica e monetaria che attanaglia la vecchia Europa, ne rappresenterebbe il miglior caso di scuola possibile.
Da oltre duemila anni l’economia si affanna, dunque, attorno alla compatibilità tra giustizia commutativa e giustizia distributiva. La linea prevalente negli ultimi anni ha privilegiato una concezione piuttosto radicale del mercato concorrenziale, accompagnata dalla diffusa convinzione che la giustizia distributiva rappresenti un prodotto congiunto rispetto alla promozione della giustizia commutativa. Questo ha condotto ad un’ enorme sottovalutazione delle analisi sulla distribuzione della ricchezza e del reddito, in contrasto con una realtà fatta dalla crescente e smisurata diseguaglianza. Di qui la vastissima eco ottenuta dal recente volume in tema di distribuzione della ricchezza e del reddito, dell’economista francese Thomas Piketty, che ha colpito nel segno riportando energicamente alla ribalta proprio la teoria della distribuzione. Ne è derivato una decisa rivalutazione del pensiero keyensiano, capace di porre su basi nuovamente dialettiche le azioni del decisore pubblico nel contesto macro economico con il rilancio dell’economia reale, soprattutto in tempo di stagnazione economica e di crisi occupazionale. Non meno interessante è la riflessione dell’intellettuale contemporaneo Slavoj Žižek, il quale rileva come sia sempre più contingente il ruolo dell’etica e il suo rapporto con l’economia e la politica. Se non si riabilita la dimensione centrale della politica, gli uomini del nostro tempo, secolarizzati e post ideologici, si troveranno sempre di più in una condizione di “deficit di senso”, compensata nella banale attività di consumo. Žižek coglie, a tal proposito, due processi preoccupanti, uno collettivo e socio-politico, l’altro individuale. Da una parte, infatti, la politica sembra aver perso ogni riferimento ideale per ridursi a mera pratica di governance, accanto a forme di spettacolarizzazione e derive populiste; dall’altra, gli individui sembrano muoversi in una completa assenza di senso, travolti da relativismo e nichilismo, in un “deserto del reale” che li condanna agli imperativi e a i divieti imposti non più dalla società ma dalla propria soggettività, ormai piegata alle logiche del dover godere, dell’eccesso e del mero consumo. Il suo è un discorso etico-politico, perché insiste su un punto fondamentale, ossia sulla responsabilità non solo di compiere il nostro dovere o di lavorare per il bene, ma di decidere cos’è il bene e di come realizzarlo nella società attuale.
Pur rifuggendo da ogni imperativo etico, che assegni allo Stato il compito di decidere della sfera individuale di ognuno, andando ben oltre le mutue concessioni contrattualistiche dello Stato moderno, è però a mio avviso indispensabile il recupero di una dimensione morale della sfera pubblica, che si sostanzi anche nel coraggio di adoperarsi per le idee che si ritengono giuste e adeguate ai problemi cui porre soluzione. Se di rapporto tra economia, politica e filosofia si deve parlare, una tale dimensione appare essere la pietra angolare da cui ricostruire l’edificio sociale all’interno del quale siamo tutti, indistintamente, costretti a vivere e a operare.

Fabrizio Giulimondi 



mercoledì 9 agosto 2017

LA RISTRUTTURAZIONE D’IMPRESA E LE PROCEDURE CONCORSUALI - CONCLUSIONI


La crisi  rappresenta una fase patologica del ciclo produttivo  dell’impresa.
Del termine “crisi” si è cercato spesso di dare una definizione univoca.
In senso strettamente finanziario tale espressione è considerata sinonimo di insolvenza, considerando in crisi l’impresa che non sia in grado di far fronte alle proprie obbligazioni, o meglio, quando vengano meno le condizioni di liquidità e di credito necessarie per adempiere regolarmente e con mezzi normali       alle  obbligazioni     contratte.
Secondo un’altra opinione, la crisi si sostanzia nell’instabilità della redditività che porta a rovinose perdite economiche e di valore del capitale, con conseguenti dissesti nei flussi finanziari, perdita della capacità di ottenere finanziamenti creditizi per un crollo di fiducia della comunità finanziaria,      ma anche        di parte dei clienti e fornitori.
La crisi d’impresa è causa di “allarme sociale”.
Gli interessi ruotanti intorno a un’impresa sono numerosi e vengono ad essere minacciati   dalla crisi della sua progettualità.
Fatale e drammatica conseguenza di ciò è l’impossibilità    di liquidare quello che è dovuto ai creditori, oltre la perdita di occupazione dei lavoratori che vi operano.
Più aumentano le dimensioni dell’impresa e più la questione può diventare di carattere sociale, andando a travolgere spesso altre imprese, risentendone così l’intero sistema economico relativo ad un determinato ambito merceologico e la stabilità del quadro economico nella sua interezza. 
 Con il termine “crisi”, pertanto, viene a crearsi una condizione comprensiva di diverse situazioni, che possono andare dall’insolvenza irreversibile ad una situazione di temporaneo squilibrio economico e finanziario.
Una volta stabilita la situazione di difficoltà, la questione principale riguarda la scelta della soluzione da attuare come rimedio allo  scompenso che compromette l’intero assetto economico, finanziario e patrimoniale dell’impresa.
La legge fallimentare del 1942 ha disciplinato la materia delle
procedure concorsuali per più di sessanta anni.
L’impronta del Legislatore rispondeva ai principi economici e giuridici propri di quel tempo, fondati su una visione patrimonialista e di favor creditoris, a cui  
si aggiungeva l’intento afflittivo in forza del quale si considerava la condotta dell’imprenditore insolvente riprovevole, sanzionabile con l’istituto del fallimento anche con limitazioni     di     carattere  personale.
Le riforme che si sono succedute nel tempo hanno cercato soluzioni che bilanciassero i legittimi interessi creditori con il tentativo di non espungere dal sistema economico, finanziario, imprenditoriale e commerciale quella singola unità aziendale in grave difficoltà organizzativa, gestionale e di liquidità.
Il Legislatore negli ultimi dodici anni ha offerto alle imprese in crisi tre strumenti di riorganizzazione tra loro alternativi: una rimodulazione del concordato preventivo più adeguata al mutato contesto sociale italiano, il piano attestato di risanamento e l’accordo di ristrutturazione dei debiti.
Le novità più rilevanti sono rappresentati da questi due ultimi percorsi di natura pattizia stragiudiziale.
Il Piano attestato di risanamento si configura come il primo passo verso una gestione della crisi societaria rimessa all’autonomia dell’imprenditore, ossia come un atto dell’imprenditore a contenuto negoziale, basato sul raggiungimento dell’intesa tra debitore e creditori e successiva sua approvazione da parte di questi ultimi, con le maggioranze normativamente prescritte. Un professionista ha l’onere di attestare la ragionevolezza e l’idoneità del Piano a      superare  la     situazione       di     crisi. Il Piano produce i suoi effetti senza alcuna autorizzazione da parte della Autorità giudiziaria.
Il secondo tipo di accordo stragiudiziale si concreta in quello di ristrutturazione dei  debiti, caratterizzato da due fasi:
una stragiudiziale, nella quale l’imprenditore in crisi rinegozia con i propri creditori la situazione debitoria; e una giudiziale, al termine della quale l’effettiva produzione degli effetti legali dell’accordo deriva dalla “validazione” compiuta dal Tribunale.
E’ estremamente importante mettere in luce che è principalmente dall’aiuto dell’impresa in crisi che dipende parte dell’import-export italiano. L’iniziativa economica privata, tutelata dalla nostra Carta costituzionale, ha un valore sociale e deve essere supportata proprio nel momento in cui versi in stato di difficoltà.
Diciamolo a chiare lettere: la legislazione deve aiutare l’operatore economico quando è in crisi e non soltanto quando è oramai fallito, con i fornitori che bussano alle porte ed i lavoratori licenziati o in cassa integrazione. Il legislatore ha il dovere di fornire strumenti idonei ad aiutare le imprese in difficoltà, mostrando Istituzioni al loro fianco e pronte a farle ripartire, agevolandole nei rapporti con le banche e gli istituti di credito.
La certezza del diritto è il caposaldo e il baluardo per qualsiasi corretto intervento normativo e rappresenta l’argine entro il quale l’imprenditore deve muoversi. E’ necessario ridurre la durata dei procedimenti, specie di quelli civili e attinenti le procedure fallimentari e concorsuali, la cui eccessiva lunghezza è causa di plurime condanne da parte della Corte di Strasburgo. La chiave di volta è una giustizia chiara, che consenta alla azienda di sapere quello che è giusto e quello che non lo è in tempi certi e congrui.
Molto si è fatto sul terreno della semplificazione amministrativa ma, certamente, molto ancora può essere fatto, riducendo, ad esempio, ancora di più la burocrazia e i cavilli che la attorniano. E’ compito della Politica e delle Istituzioni far emergere una burocrazia che sia di effettivo ausilio, e non di ostacolo, alla affermazione dei diritti dell’imprenditore. La Pubblica Amministrazione ha il dovere di risultare sempre più trasparente e vicina all’impresa, la politica fiscale l’onere di aiutare e supportare le aziende.
Fare l’imprenditore è uno dei lavoro più difficili, dovendo questi destreggiarsi fra un corposo – e non sempre chiaro - numero di leggi, incertezze giuridiche e normative fiscali non sempre “amiche”, con la costante preoccupazione di garantire mensilmente la busta paga ai propri lavoratori.
Per tale ragione, anche in questo settore la prevenzione è il percorso più razionale da intraprendere per ovviare a situazioni pregiudizievoli non soltanto per il singolo soggetto privato che versa in una situazione di grave disagio, ma anche per l’intero sistema sociale e produttivo.
In conseguenza a quanto sino ad ora detto, la filosofia sottesa a qualsivoglia statuizione normativa e giudiziaria deve essere impregnata alla ferrea volontà di “salvare” l’impresa, e non di farla affatto uscire dal mercato e dal circuito produttivo.
Fabrizio Giulimondi




IL "CAVERGIVER"


Una prima importante tutela della disabilità grave e un primo importante riconoscimento dell’assistenza delle persone disabili si compie con la legge 104/1992.
Nel 1998 la legge n. 162 ha previsto programmi di aiuto per disabili presso Regioni ed enti locali.
La legge c.d. “Dopo di Noi” 112/2016 favorisce il benessere, la piena inclusione sociale e l’autonomia delle persone con disabilità, individuando e riconoscendo specifiche tutele per i disabili una volta venuti meno i genitori o altri parenti che li sostenevano (stima ISTAT: 15 per cento delle famiglie italiane sono interessate dal problema).
Con il termine caregiver familiare si designa colui che volontariamente e gratuitamente si prende cura di una persona cara consenziente in condizioni di non autosufficienza, a causa dell'età, di una malattia, di una disabilità. Le prestazioni sono rese a titolo gratuito, in funzione di legami affettivi.
La diversità con la figura professionale del c.d. badante si sostanzia nel fatto che quest’ ultimo svolge attività lavorativa domestica retribuita, mentre il caregiver pone in essere la propria attività di sostegno a titolo gratuito.
Prendersi cura di un proprio familiare è una scelta d'amore che deve essere valorizzata e sostenuta dallo Stato. Il caregiver familiare deve farsi carico dell'organizzazione delle cure e dell'assistenza; può trovarsi, dunque, in una condizione di sofferenza e di disagio riconducibili ad affaticamento fisico e psicologico, solitudine, consapevolezza di non potersi ammalare, per le conseguenze che la sua assenza potrebbe provocare, il sommarsi dei compiti assistenziali a quelli familiari e lavorativi, possibili problemi economici, frustrazione.
Queste persone vivono in una condizione di abnegazione quasi totale, che compromette i loro diritti umani fondamentali: quelli alla salute, al riposo, alla vita sociale e alla realizzazione personale.
L'impegno costante del caregiver familiare prolungato nel tempo può mettere a dura prova l'equilibrio psicofisico del prestatore di cure ma anche dell'intero nucleo familiare in cui è inserito.
Secondo quanto emerso dalle ricerche condotte su questo delicato tema, i caregiver familiari, logorati da un carico assistenziale senza pari, sono stati costretti nel 10 per cento dei casi a chiedere il part-time o il telelavoro e nel 66 per cento a lasciare del tutto il lavoro.
Il Premio Nobel 2009 per la medicina, Elizabeth Blackburn, ha dimostrato che i caregiver familiari hanno una aspettativa di vita fino a 17 anni inferiore alla media della popolazione.
Senza il lavoro svolto dai familiari, il costo economico delle tante persone che hanno bisogno di assistenza continua sarebbe insostenibile per lo Stato.
Le Regioni stanno promuovendo iniziative a tutela e garanzia dei caregiver e, a tale proposito, ne è un esempio la Regione Emilia-Romagna, che ha riconosciuto l’importanza dei caregiver familiari, la cui opera ha un valore economico e sociale di assoluta insostituibilità.
Le legislazioni di molti Paesi europei prevedono specifiche tutele per i caregiver familiari, tra le quali supporti di vacanza assistenziali, benefici economici e contributi previdenziali, come avviene in Francia, Spagna e Gran Bretagna, ma anche in Polonia, Romania, e Grecia.
Occorre defiscalizzare, come la Francia e altri Paesi europei ci hanno insegnato, le spese di cura quale condizione chiave perché i familiari possano avvalersi di aiuti offrendo lavoro regolare.
In Italia manca ancora una piena coscienza e un'adeguata tutela per queste figure, anche se come sancito dall'art. 35 della nostra Carta costituzionale e come stabilito dalla sentenza n. 28 del 1995 della Corte costituzionale, che afferma: “Il lavoro effettuato all'interno della famiglia, per il suo valore sociale ed anche economico, può essere ricompreso, sia pure con le peculiari caratteristiche che lo contraddistinguono, nella tutela che l'articolo 35 della Costituzione assicura al lavoro in tutte le sue forme” e ancora “l'articolo 230-bis del codice civile che, apportando una specifica garanzia al familiare che, lavorando nell'ambito della famiglia o nell'impresa familiare, presta in modo continuativo la sua attività, mostra di considerare in linea di principio il lavoro prestato nella famiglia alla stessa stregua del lavoro prestato nell'impresa”.
Il 13 gennaio 1986 il Parlamento europeo ha inoltre approvato una risoluzione che ha individuato l'importanza del lavoro non remunerato delle donne nella formazione del prodotto nazionale.
Dal momento che la centralità della famiglia nella cura della malattia risulta essere una dato consolidato ai sensi della legge 8 novembre 2000, n. 328, si ritiene opportuno e necessario riconoscere ai caregiver familiari una condizione giuridica di tutele, equivalente almeno a quella riconosciuta ai lavoratori domestici.
Si deve tener conto, inoltre, del riconoscimento delle competenze lavorative acquisite in ambito informale riconosciute dal decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13, e dalla raccomandazione del Consiglio dell'Unione europea sulla convalida dell'apprendimento non formale e informale del 20 dicembre 2012.
Il Legislatore si sta ponendo il problema di andare oltre gli istituti forniti dalla legge 104/1992 in ausilio  a coloro che assistono gratuitamente persone che versano in gravi situazioni di minorazione fisica o mentale (art.3, comma 3, legge 104/1992) (generalmente parenti)
E’ in corso, infatti, presso l’ 11ª Commissione permanente del Senato (Lavoro, previdenza sociale) la trattazione congiunta di tre ddl (2048, 2128, 2266) (“Legge quadro nazionale per il riconoscimento e la valorizzazione del caregiver familiare”), finalizzati a riconoscere e a tutelare il lavoro svolto dai caregiver familiari oltre a riconoscerne il valore sociale ed economico per la collettività.
I testi all’esame - che presumibilmente confluiranno in un articolato unificato oppure sarà individuato uno dei tre come testo basa - contemplano una serie di benefici per i cavegiver in ambito previdenziale, assistenziale, assicurativo, fiscale in chiave agevolativa, oltre interventi di sensibilizzazione e di affidamento all’ISTAT di indagini multiscopo.

Fabrizio Giulimondi