Nelle librerie v’è una biografia romanzata a forma di ballata, “Qualcosa
sui Lehman”(Mondadori, finalista Premio Campiello 2017), scritta da un autentico genio artistico
italiano, Stefano Massini, che demolisce i consueti canoni
stilistici e saltella fra letteratura, cinema, fumettistica, musica, giudaismo,
finanza e due secoli di storia.
“Qualcosa sui Lehman” è una summa di
linguaggi e di culture letterarie che abbraccia Grecia e futurismo. La varietà
di epiteti e di poliformi figure letterarie scoppiettano con pirotecnici
usi polifonici della parola. Massini è l’acrobata delle parole
con cui gioca e si diverte con il lettore facendogli attraversare avvenimenti
bisecolari che hanno coinvolto la potente e numerosa gens di
finanzieri americani Lehman (i Lehman Brothers). Massini induce
il suo pubblico a dipanarsi fra i marosi di arditismi linguistici e fantasiose
architetture retoriche. Il lettore, avido di sapere “come va a finire”, in
alcuni momenti inconsapevolmente accantona la narrazione per seguire
costruzioni funamboliche per intere pagine ruotanti intorno all’avverbio NON;
affascinato si perde nel serrato dialogo duettante fra Peter Lehman e Peggy
Rosenbaum, tutto composto di frasi estrapolate da film cult degli
anni ’30 e ’40; si stupisce dinanzi all’improvvisa trasformazione della prosa
in fumetti che tramutano magicamente i discorsi in battute fra super-eroi; si
concentra sul lungo ed eccentrico periodare in cui parole evidenziate in rosso
si combinano fra di loro dando vita a locuzione di matrice marxista-comunista;
viene rapito dalla metamorfosi delle vicende dei Lehman in quelle vissute dai
protagonisti nel film King Kong del 1933 (guarda caso
finanziato proprio dalla Lehman Brothers!); è avviluppato dagli
onirici incubi di Philip Lehman e incespica in fitte discussioni in cui le
parole si mischiano agli indicatori numerici di quei “derivati” che
determineranno la crisi economica mondiale del 2008, trotterellando prima per
il 24 ottobre 1929.
La parola fatta segno trasloca nel frastuono delle contrattazioni
borsistiche, intrappolando chi vi si imbatte similmente a sabbie mobili.
“Qualcosa sui Lehman” è la storia di una famiglia di
mercanti di bestiame, che ha le sue radici in Germania prima di
inondare gli States con il proprio volumetrico
mercanteggiare su tutto, dal cotone, al ferro, al caffè, al petrolio al
tabacco, per giungere agli arei, alla computeristica e ai titoli
“sporchi”.
Il ritmo narrativo seguito è sincopato in quanto vi confluisce la
metrica greca e latina unitamente ad una singhiozzante estetica grafica che
incolonna frasi e periodi, oltre ad incanalare in una stessa colonna
ripetute parole, identiche fra di loro o fra di loro in alterco, ossessivamente
ticchettanti nelle orecchie di chi legge. Al pari di una canzone,
reiterati fraseggi a mo’ di irriverenti ritornelli sono posti all’inizio,
nell’intermezzo e al termine di brani e capitoli.
Il lucro è al centro di tutto, perversa patologica brama di denaro
che deve fruttificare altro denaro e altro ancora per l’immortalità della
famiglia Lehman, sino alla malattia mentale, che si insinuerà nelle intelletti
di ogni suo singolo membro.
La lettura ondeggia fra Vecchio Testamento e finanza, ebraismo e
lavoro parossistico, per la sempiterna gloria del cognome Lehman, per la
glorificazione dell’unico idolo da adorare: “il vitello d’oro”.
Ogni passaggio è infarcito di ironia, tutto è ironia, non c’è
momento della vita dei Lehman che non sia maneggiata da Massini con
ironia, non leggiadra, ma sprezzante, feroce ironia; e poi il gioco fra termini
italiani e in lingua yddish, e il motteggio e l’allegro
connubio tra plurimi idiomi con cui vengono tradotte medesime espressioni, per
rendere allegro ciò che è tragico, un tragico mercato globale fatto a immagine
e somiglianza della biblica Torre di Babele.
E nulla sarà come prima.
Fabrizio Giulimondi
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