“La compagnia delle anime finte” di Wanda Marasco (Neri Pozza) – cinquina Premio Strega 2017 – è un romanzo scritto
con uno stile fra il barocco e il gotico, che talora incespica in una eccessiva
ampollosità, in una rugginosità nel registro linguistico, costellato da
locuzioni eccessivamente forbite e ricercate per l’ambiente ove scorrazzano i
personaggi. Lo stesso linguaggio adoperato fonde la lingua italiana all’idioma
dei bassifondi napoletani. Non una parlata simile al siciliano aristocratico creato
da Camilleri o l’arbëreshë gettato abilmente fra le pieghe dell’italiano
da Carmine Abate, ma un gergo dei bassi partenopei
che si infiltra nella lingua italiana intercettandone parole e compiendo su di
esse una inaspettata metamorfosi. Esperimenti linguistici e semantici ben
lontani da quelli di Elena Ferrante che con il suo periodare fluido ed
incontenibile fa penetrare nell’animo del lettore anche la Napoli più lordata. In
Wanna Marasco vi sono tracce
pasoliniane, seppur immerse nelle acque del Golfo di Napoli, come se la “sugna”
proveniente da un ambiente moralmente e materialmente sozzo e succhiata dai
pori delle parole, costituisca l’anello di congiunzione fra la scrittura di
Pasolini e quella della Marasco.
Senz’altro la Scrittrice risente del “Portavoce della miseria”, Curzio Malaparte.
Al pari del grande letterato napoletano, la Marasco canta la povertà, l’ignoranza, la sporcizia, il degrado, la
superstizione, l’ignominia vissuta come quotidiana normalità. Nella scena, con
chiare venature teatrali, del matrimonio fra Vincenzina e Rafele esplode la
sonorità campana unita alla ironia e sagacità carnascialesca propria della
commedia goldoniana e eduardiana, accompagnate alla potenza
della tragedia ellenica classica. L’Autrice mantiene per tutta la narrazione lo
stesso angolo prospettico – pur mutando la voce narrante – da cui tratteggia i
personaggi su più piani temporali: quasi non v’è distinzione fra esser vivi o
esser morti, perché il vivente di ieri è il fantasma di oggi e chi sta sul
palcoscenico oggi sarà lo spettro di domani. Talora ci si chiede se
protagonisti e comparse non siano già tutti defunti e non si ingannino, quasi
si incaponiscano, a voler restare in vita. In realtà, in ogni personaggio della
Marasco v’è sempre un elemento
ectoplasmatico.
“Tutta la loro vita era concentrata sull’orlo
di un pozzo. Rosa aveva fatto il volto cupo e la malinconia in tutta la carne.
Nella pena del momento, Vincenzina pensava al ventre. A un enorme ventre
spuntato dalla notte, che conteneva il suo e quello di Adelí. Una grotta di
carne che aveva fatto i feti destinandoli a una miseria senza fine”.
Fabrizio Giulimondi
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