La crisi rappresenta una fase patologica del ciclo
produttivo dell’impresa.
Del termine “crisi” si è cercato spesso di dare
una definizione univoca.
In senso strettamente finanziario tale espressione è considerata sinonimo di insolvenza, considerando in crisi l’impresa che non sia in grado di far fronte alle proprie obbligazioni, o meglio, quando vengano meno le condizioni di liquidità e di credito necessarie per adempiere regolarmente e con mezzi normali alle obbligazioni contratte.
Secondo un’altra opinione, la crisi si sostanzia nell’instabilità della redditività che porta a rovinose perdite economiche e di valore del capitale, con conseguenti dissesti nei flussi finanziari, perdita della capacità di ottenere finanziamenti creditizi per un crollo di fiducia della comunità finanziaria, ma anche di parte dei clienti e fornitori.
La crisi d’impresa è causa di “allarme sociale”.
Gli interessi ruotanti intorno a un’impresa sono numerosi e vengono ad essere minacciati dalla crisi della sua progettualità.
Fatale e drammatica conseguenza di ciò è l’impossibilità di liquidare quello che è dovuto ai creditori, oltre la perdita di occupazione dei lavoratori che vi operano.
Più aumentano le dimensioni dell’impresa e più la questione può diventare di carattere sociale, andando a travolgere spesso altre imprese, risentendone così l’intero sistema economico relativo ad un determinato ambito merceologico e la stabilità del quadro economico nella sua interezza.
Con il termine “crisi”, pertanto, viene a crearsi una condizione comprensiva di diverse situazioni, che possono andare dall’insolvenza irreversibile ad una situazione di temporaneo squilibrio economico e finanziario.
Una volta stabilita la situazione di difficoltà, la questione principale riguarda la scelta della soluzione da attuare come rimedio allo scompenso che compromette l’intero assetto economico, finanziario e patrimoniale dell’impresa.
La legge fallimentare del 1942 ha disciplinato la materia delle procedure concorsuali per più di sessanta anni.
L’impronta del Legislatore rispondeva ai principi economici e giuridici propri di quel tempo, fondati su una visione patrimonialista e di favor creditoris, a cui
si aggiungeva l’intento afflittivo in forza del quale si considerava la condotta dell’imprenditore insolvente riprovevole, sanzionabile con l’istituto del fallimento anche con limitazioni di carattere personale.
Le riforme che si sono succedute nel tempo hanno cercato soluzioni che bilanciassero i legittimi interessi creditori con il tentativo di non espungere dal sistema economico, finanziario, imprenditoriale e commerciale quella singola unità aziendale in grave difficoltà organizzativa, gestionale e di liquidità.
In senso strettamente finanziario tale espressione è considerata sinonimo di insolvenza, considerando in crisi l’impresa che non sia in grado di far fronte alle proprie obbligazioni, o meglio, quando vengano meno le condizioni di liquidità e di credito necessarie per adempiere regolarmente e con mezzi normali alle obbligazioni contratte.
Secondo un’altra opinione, la crisi si sostanzia nell’instabilità della redditività che porta a rovinose perdite economiche e di valore del capitale, con conseguenti dissesti nei flussi finanziari, perdita della capacità di ottenere finanziamenti creditizi per un crollo di fiducia della comunità finanziaria, ma anche di parte dei clienti e fornitori.
La crisi d’impresa è causa di “allarme sociale”.
Gli interessi ruotanti intorno a un’impresa sono numerosi e vengono ad essere minacciati dalla crisi della sua progettualità.
Fatale e drammatica conseguenza di ciò è l’impossibilità di liquidare quello che è dovuto ai creditori, oltre la perdita di occupazione dei lavoratori che vi operano.
Più aumentano le dimensioni dell’impresa e più la questione può diventare di carattere sociale, andando a travolgere spesso altre imprese, risentendone così l’intero sistema economico relativo ad un determinato ambito merceologico e la stabilità del quadro economico nella sua interezza.
Con il termine “crisi”, pertanto, viene a crearsi una condizione comprensiva di diverse situazioni, che possono andare dall’insolvenza irreversibile ad una situazione di temporaneo squilibrio economico e finanziario.
Una volta stabilita la situazione di difficoltà, la questione principale riguarda la scelta della soluzione da attuare come rimedio allo scompenso che compromette l’intero assetto economico, finanziario e patrimoniale dell’impresa.
La legge fallimentare del 1942 ha disciplinato la materia delle procedure concorsuali per più di sessanta anni.
L’impronta del Legislatore rispondeva ai principi economici e giuridici propri di quel tempo, fondati su una visione patrimonialista e di favor creditoris, a cui
si aggiungeva l’intento afflittivo in forza del quale si considerava la condotta dell’imprenditore insolvente riprovevole, sanzionabile con l’istituto del fallimento anche con limitazioni di carattere personale.
Le riforme che si sono succedute nel tempo hanno cercato soluzioni che bilanciassero i legittimi interessi creditori con il tentativo di non espungere dal sistema economico, finanziario, imprenditoriale e commerciale quella singola unità aziendale in grave difficoltà organizzativa, gestionale e di liquidità.
Il Legislatore negli
ultimi dodici anni ha offerto alle imprese in crisi tre strumenti di riorganizzazione
tra loro alternativi: una rimodulazione del concordato preventivo più adeguata
al mutato contesto sociale italiano, il piano attestato di risanamento e l’accordo
di ristrutturazione dei debiti.
Le novità più rilevanti sono rappresentati da questi due ultimi percorsi di natura pattizia stragiudiziale.
Le novità più rilevanti sono rappresentati da questi due ultimi percorsi di natura pattizia stragiudiziale.
Il Piano
attestato di risanamento si configura come il primo passo verso una gestione
della crisi societaria rimessa all’autonomia dell’imprenditore, ossia come un
atto dell’imprenditore a contenuto negoziale, basato sul raggiungimento dell’intesa
tra debitore e creditori e successiva sua approvazione da parte di questi
ultimi, con le maggioranze normativamente prescritte. Un professionista ha
l’onere di attestare la ragionevolezza e l’idoneità del Piano a superare la situazione di crisi. Il Piano produce i suoi
effetti senza alcuna autorizzazione da
parte della Autorità giudiziaria.
Il secondo tipo di accordo stragiudiziale si concreta in quello di ristrutturazione dei debiti, caratterizzato da due fasi:
una stragiudiziale, nella quale l’imprenditore in crisi rinegozia con i propri creditori la situazione debitoria; e una giudiziale, al termine della quale l’effettiva produzione degli effetti legali dell’accordo deriva dalla “validazione” compiuta dal Tribunale.
Il secondo tipo di accordo stragiudiziale si concreta in quello di ristrutturazione dei debiti, caratterizzato da due fasi:
una stragiudiziale, nella quale l’imprenditore in crisi rinegozia con i propri creditori la situazione debitoria; e una giudiziale, al termine della quale l’effettiva produzione degli effetti legali dell’accordo deriva dalla “validazione” compiuta dal Tribunale.
E’
estremamente importante mettere in luce che è principalmente dall’aiuto
dell’impresa in crisi che dipende parte dell’import-export italiano. L’iniziativa economica privata, tutelata
dalla nostra Carta costituzionale, ha un valore sociale e deve essere
supportata proprio nel momento in cui versi in stato di difficoltà.
Diciamolo
a chiare lettere: la legislazione deve aiutare l’operatore economico quando è
in crisi e non soltanto quando è oramai fallito, con i fornitori che bussano
alle porte ed i lavoratori licenziati o in cassa integrazione. Il legislatore
ha il dovere di fornire strumenti idonei ad aiutare le imprese in difficoltà,
mostrando Istituzioni al loro fianco e pronte a farle ripartire, agevolandole
nei rapporti con le banche e gli istituti di credito.
La
certezza del diritto è il caposaldo e il baluardo per qualsiasi corretto
intervento normativo e rappresenta l’argine entro il quale l’imprenditore deve
muoversi. E’ necessario ridurre la durata dei procedimenti, specie di quelli
civili e attinenti le procedure fallimentari e concorsuali, la cui eccessiva
lunghezza è causa di plurime condanne da parte della Corte di Strasburgo. La
chiave di volta è una giustizia chiara, che consenta alla azienda di sapere
quello che è giusto e quello che non lo è in tempi certi e congrui.
Molto
si è fatto sul terreno della semplificazione amministrativa ma, certamente,
molto ancora può essere fatto, riducendo, ad esempio, ancora di più la
burocrazia e i cavilli che la attorniano. E’ compito della Politica e delle
Istituzioni far emergere una burocrazia che sia di effettivo ausilio, e non di
ostacolo, alla affermazione dei diritti dell’imprenditore. La Pubblica
Amministrazione ha il dovere di risultare sempre più trasparente e vicina
all’impresa, la politica fiscale l’onere di aiutare e supportare le aziende.
Fare
l’imprenditore è uno dei lavoro più difficili, dovendo questi destreggiarsi fra
un corposo – e non sempre chiaro - numero di leggi, incertezze giuridiche e
normative fiscali non sempre “amiche”, con la costante preoccupazione di
garantire mensilmente la busta paga ai propri lavoratori.
Per tale
ragione, anche in questo settore la prevenzione è il percorso più razionale da
intraprendere per ovviare a situazioni pregiudizievoli non soltanto per il
singolo soggetto privato che versa in una situazione di grave disagio, ma anche
per l’intero sistema sociale e produttivo.
In
conseguenza a quanto sino ad ora detto, la filosofia sottesa a qualsivoglia statuizione
normativa e giudiziaria deve essere impregnata alla ferrea volontà di “salvare”
l’impresa, e non di farla affatto uscire dal mercato e dal circuito produttivo.
Fabrizio Giulimondi
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