“Era come aver nuotato fino allo stremo, controcorrente,
per salvarsi. Però adesso non ne comprendeva il senso. Per la prima volta pensò
con distacco a ciò che era stato della sua vita dal pomeriggio delle arancine,
scoprendosi improvvisamente estraneo a se stesso. Si frugava nei ricordi e
nulla gli apparteneva più: la spensieratezza dell’infanzia, l’amore dei
genitori, la complicità di Mizio, la bellezza di Betta, i turbamenti del corpo
e la dolcezza di Flavia. Anche il dolore, forse, aveva smesso di appartenergli.
Poteva lasciare andare tutto, perché quello era il mondo di Luca Nardulli. E
Luca Nardulli neanche esisteva più. Trattenne il fiato, abbandonandosi a quella
corrente che lo trascinava a fondo. In un’altra vita.”.
Dopo
aver finito di leggere i romanzi di Roberta
Recchia le emozioni – emozioni molto forti – permangono a lungo nel cuore
del lettore.
Dopo l’opera
prima “Tutta la vita che resta”, in “Io
che ti ho voluto così bene” (Rizzoli)
Roberta Recchia snocciola l’umanità
in tutte le sue forme più minuziose.
Non
bisogna farsi ingannare dal titolo che potrebbe far incasellare il lavoro nel
genere “rosa-smielato”: al pari della sua prima fatica, il secondo scritto dell’Autrice
analizza il misterioso dipanarsi dell’animo umano, la cui longitudine va dal ficiniano
buio terrifico al biancore angelico.
Il dolore
è l’inchiostro del libro che tratteggia il dramma delle vittime collaterali dei
crimini, quelle che nessuno prende in considerazione, quelle che tutti
disprezzano: i familiari degli autori dei reati, dei carnefici, dei criminali.
Uno
stupro e un omicidio strappano le carni, cancellano le esistenze, annullano le
anime delle vittime e dei loro parenti. I crimini annientano anche il mondo che
gravita intorno al reo.
“Io che ti ho voluto così bene” in modo
spietatamente chirurgico entra nei meandri della sofferenza del fratello, del
padre e della madre di uno stupratore-assassino.
Pagine
e pagine di tragica e intensa bellezza dimorano in dialoghi che senza pietà
colmano di commozione il lettore, costretto a riflettere su aspetti raramente considerati.
I cambiamenti sorgono dai dialoghi. Sono le parole che mutano le decisioni dei
protagonisti. Le stesse vite non sono più le stesse dopo scambi di battute
autentiche, dure, impietose, tenere, velate dal ricordo, dalla nostalgia,
oppure brutali, violente, cariche di odo represso, rabbia incontenibile che ha
atteso venti anni ad esplodere.
L’incontro
che toglie il fiato fra Luca e Maurizio è l’alba di due nuove esistenze.
La
profondità è la cifra di questo libro.
Luca è
un moderno eroe ellenico che tutto subisce perché in lui odio e amore albergano
indistinti. Luca oppone il proprio petto alle valanghe deflagranti ed ai marosi
impetuosi che lo sbattono qua e là come una piantina strappata alle sue radici.
Luca è
l’umanità ad un bivio.
I
personaggi inverano le mille sfaccettature della coscienza umana: zio Umberto
la razionalità e la giustizia; Lilia la disperazione che divelle corpo e
spirito; Mara la paura che cancella il raziocinio e porta a compiere feroci
ingiustizie: ma Luca accetta il Fato, il Destino.
Un
lucore religioso permea la narrazione, un senso di trascendenza e di
Provvidenza quasi manzoniana. La famiglia è il luogo dove si custodiscono i
patimenti delle persone, si lenisce l’orrore, si ricompongono percorsi travolti
dall’imprevedibile. La vita anche dei delinquenti può essere ripresa centimetro
per centimetro, sottratta al Male.
Questo
è il romanzo sull’abbandono e la solitudine, sulla rassegnazione e la
disperazione, sul riscatto e la rivincita.
Il perdono
è la stella intorno alla quale roteano le vicissitudini raccontate dalla Recchia: il funerale di Lilia estetizza
il perdono. Le ultime pagine galleggiano nell’aria per ore, giorni, e forse
più.
La
verità è che il perdono e la speranza sono fratelli gemelli.
Fabrizio Giulimondi
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