“L’arte non doveva dare delle risposte.
Doveva solo fare domande. La massa dentro di lei le stava facendo una domanda e
lei stava rispondendo di sì”
La
letteratura nordamericana vede fra i suoi Autori un florilegio di intelligenze,
menti, scrittori e artisti, che hanno avuto il genio di selezionare e sezionare
le dimensioni dell’Uomo e dell’Umanità nelle loro sfaccettature più recondite e
nei loro antri e pertugi più dimenticati. Sussumere “Orient” di Christopher
Bollen (Bollati Boringhieri) nel genere
thriller può risultare riduttivo, se non fuorviante.
Christopher Bollen
compie un’operazione letteraria avvolgente come un boa constrictor, ove le metafore
ricorrenti (“Il mondo intero entrò in una
turbolenza, la sua gola una cabina di piloti che cercavano di comunicare l’emergenza,
la sua vita due ali di aereo spezzate che cadevano nell’oceano”) e lo stile
fluido come olio di ricino, potrebbero catapultare il lettore verso
destinazioni ignote e inaspettate, se non vi fossero alcune défaillance a monte che si qui a poco
marcheremo.
La
paura è il motore della trama: ne è il baricentro, il fulcro, il punto di fuga,
il piano prospettico, l’origine e l’orizzonte; la paura costituisce l’intersezione
delle linee lungo le quali si scuotono come pesci appena pescati le storie dei
personaggi.
La narrazione
è tentacolare e costellata di attente quanto suggestive punteggiature
descrittive fisio-psicologiche dei protagonisti: “La sua faccia a forma di lanterna con rotondità burrose, come se le
guance morbide, imbottite, fossero una protezione per gli occhi penetranti.”
In “Orient” non esistono comparse o attori
non protagonisti perché ogni “carattere” è un coprotagonista.
Il
racconto, sfortunatamente, risente del sistema ideologico del “politicamente
corretto” – a cui, evidentemente, l’Autore aderisce – e ne viene indebolito. La
comunità umana chiusa in seno ai confini di una località vicino New York
composta di famiglie benestanti non può che essere ottusa e retrograda e, di conseguenza,
fatalmente colpevole. Colpisce l’atteggiamento
autoriale rancoroso e puntuto nei confronti delle madri. Pam Muldoon, mamma di
tre figli, è puntigliosamente svillaneggiata, facendola rientrare nell’inevitabile
schema della genitrice oppressiva ed omofoba. Mills interpreta lo straniero, l’“alieno”,
colui che irrompe nelle altrui esistenze chiuse, stantie, ammuffite,
cementificate, conchiuse entro confini geografici e dell’anima, il diverso dall’
“altro” numericamente soverchiante: l’omosessuale, l’immigrato, che, in quanto
tali, per l’Autore, sono presuntivamente discriminati e ontologicamente nel
giusto. Il manicheismo poco larvato di Bollen
divide come il mar Rosso il mondo descritto nel romanzo in buoni (elettori di
Obama e minoranze in tutte le più variopinte colorazioni) e cattivi (ovviamente
Repubblicani, realtà sociali che tengono alla propria conservazione, wasp, famiglie naturali).
I
paradigmi ideologici seguiti come stelle polari dallo Scrittore statunitense
ridimensionano l’efficacia narrativa e l’incisività della suspense e dei coup de
théâtre, rendendo alcuni passaggi del libro già attesi per tempo dal
lettore.
Il ghiaccio
e l’acqua figurativamente possono essere modalità di fuga dell’innocente ma
anche, specularmente, mezzo per bloccare, tenere astretto il colpevole al luogo
che si vuole furtivamente abbandonare. Al lettore, nel finale, l’ardua
sentenza.
“Aveva la netta sensazione di star scoprendo
la routine segreta della vita adulta, un infilarsi tra le pieghe del tempo e
dello spazio opponendo la minima resistenza possibile.”.
Fabrizio Giulimondi
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