martedì 28 agosto 2018

"IO SONO IL FUOCO" DI ANTONIO MONDA


Oramai quella che si stagliando nei cieli letterari italiani (e non solo) è una vera e propria saga della New York lungo il tempo, dal 1910 al 1980. Il settimo lavoro di Antonio Monda, “Io sono il fuoco” (Mondadori), è autenticamente intrigante nel suo perlustrare con veritiera efficacia e delicatezza le debolezze umane. “Io sono il fuoco” (esplicito richiamo alla poesia “Il tempo” di Jorge Luis Borges) è il romanzo dei limiti umani,della fragilità con cui ogni uomo ed ogni donna convive, delle contraddizioni da cui nessuno scappa, delle promesse mancate unica certezza dell’esistenza su questa Terra. Un uomo e una donna, due storie che divengono una pur rimanendo separate perché il passato non può essere realmente condiviso: il passato è solo di chi lo ha vissuto. Gli abusi subiti da lei; l’inazione che è di per sé azione condita da viltà quando si è rimasti silenti dinanzi il sopraggiungere del nazionalsocialismo: non si è meno criminali solo perché non si è ucciso ma, pur sapendo, nulla si è fatto.


Tre protagonisti: New York, lui e lei.


La Grande Mela descritta come non mai, la cui anima è estratta come un cuore da un corpo durante un’ operazione chirurgica, il cui foliage autunnale mozzafiato il lettore ammira e ne sente l’interminabile e indistinguibile rumore di sottofondo: “La stagione più bella a New York è l’autunno, chi dice il contrario non conosce la città. Non è soltanto una questione di colori: è l’unico posto al mondo nel quale la fine dell’estate non comunica un senso di morte, ma di rinascita. E nulla trasmette questa sensazione di vittoria come l’infilata trionfale di palazzi che costeggiano il parco a sud, e poi si arrampicano, abbassandosi appena, nel lato est.”.
E’ un libro sulla incessante ricerca della felicità, entusiasmante inganno, primo degli inganni, dell’Umanità. E’ un romanzo il cui respiro è Dio, anelito primordiale e finale dei due protagonisti.
La coscienza della propria  finitezza, l’indagine ossessiva della propria nullità perché niente si è riuscito a dare e fare proprio quando si doveva dare e fare, contrastano e impattano brutalmente con la gioia di vivere ad ogni costo, in quanto  è la stessa vita ad essere occasione irrinunciabile per provare felicità: “Sono un mediocre perché sono un uomo, questa è la realtà. E niente mi spaventa più di me stesso, ma anche da questo ho imparato a fuggire” … “ ‘Dare alla luce un figlio è l’unica cosa che ci fa intuire, almeno per un attimo, cosa deve aver provato Dio quando ci ha creato.’ Lo disse con naturalezza, per lei la fede era la vita stessa.”.
Ed ecco Marlene Dietrich  che inizia a cantare…
Fabrizio Giulimondi

mercoledì 22 agosto 2018

"LE ASSAGGIATRICI" DI ROSELLA POSTORINO (FELTRINELLI): VINCITORE PREMIO CAMPIELLO EDIZIONE 2018


Le assaggiatrici

Vi sono tranci di storia da pochi conosciuti e che vengono portati allo scoperto da grandi scrittori che nel loro incedere immaginifico disvelano dimensioni del Passato che divengono, poi, sfaccettature dello spirito.
Ogni tiranno di ieri e di oggi che si rispetti è terrorizzato di poter morire per mano di avvelenatori e, di conseguenza, si circonda di “assaggiatori” che si immolano, volenti o nolenti, in suo luogo.
Hitler non si è sottratto a tale prassi consolidata e Rosella Postorino, con “Le assaggiatrici” (Feltrinelli) – vincitrice del Premio Campiello 2018 – ci intrattiene mirabilmente sulla storia di una “degustatrice forzata”, racconto che emerge dalla vita realmente vissuta da una ragazza che ad ogni boccone rischiava la morte.
Gli intrecci psicologici sono numerosi e complessi e, attraverso il cibo, la narrazione entra in contatto con un’Umanità trattata come res, privata dell’anima e dotata solo di corporeità, una corporeità concentrata tutta sull’apparato digerente, bisognosa di sentimenti amorosi anche da parte di chi ti guarda morire fra atroci spasmi senza batter ciglio.
La parola agisce per mezzo di odori di corpi senza dignità che assorbono gli umori degli ambienti dove stazionano, corpi che sanno di fienile, di cibo, di vomito e diarrea, della paura che si prova sapendo che ogni forchettata o cucchiaiata può bruciare di veleno.
I vocaboli sono il significato, gli aromi e i fetori il significante.
E anche nei refettori controllati dalle SS si fa la storia, mentre l’operazione Valchiria fallisce e il colonnello Claus Schenk von Stauffenberg viene fucilato. E la storia è fatta anche di fragranze, pungenti come il terrore, aspre e nauseabonde come il gas.
“Avrei potuto sapere in quel momento delle fosse comuni, degli ebrei che giacevano proni, attaccati l’uno all’altro, aspettando il colpo alla nuca, della terra gettata sulle schiene, e la cenere e l’ipoclorito di calcio, per non farli puzzare, del nuovo strato di ebrei che si adagiavano sui cadaveri, e offrivano la nuca a loro volta. Avrei potuto sapere dei bambini alzati per i capelli e fucilati, delle file lunghe un chilometro di ebrei o di russi – sono asiatici, non sono come noi – pronti a cadere nelle fosse o a salire sui camion per essere gasati con il monossido di carbonio. Avrei potuto apprenderlo prima della fine della guerra. Avrei potuto chiedere. Ma avevo paura e non riuscivo a parlare e non volevo sapere.”.
Fabrizio Giulimondi

martedì 21 agosto 2018

'OF OCHER AND COBALT' by GIULIANA SARTI


But there was a painting of his, revealing, in the sad years lived by Miguel, a painting of large proportions, with black and cobalt background, bunches of fire instead of disappeared stars, leafless black and burnt trees, and in the center the menino, the child, sharp angles the shoulders, sharp angles his closed hands tight on his chest, empty eyes and black orbits, crosses everywhere and from far, like memories, fleeting dreamlike appearances, a woman lowering her head on her child in a protecting and loving gesture. Naked trees like begging hands. Almost immaterial, small and defenseless in the big crash of death, in war and abandonment, the crianca, the innocent creature has to be the symbol, an oniric and moral totem.'
'Of ocher and cobalt' is Giuliana Sarti's (www.servizi-per-editoria.it)fourth literary prowess. When one succeeds in making Beauty palpable, it is not easily discussed. Writing an autobiographical novel like one paints a picture. The word like colour. The word used on the paper like pigmented paste on watercolor, until the contours differentiating them disappear.
The Author is inside the word and maneuvers it in a refined way. This is the book of words and colours which appear to each other in uncertain traits, lost in a confused and trembling horizon similar to that of the Sahara immersed in a cloud of fire red sand.
Sarti paints with her writing and her pen is a mastered brush giving life to words that incarnate wild emotions.
It is unclear whether a word is simply this or a scratch of spatula on a palette or Edith Piaf's voice or the freeze frame of a crowded street of Sao Paolo or a dusty African village, or simply, one of the bricks of a magnificent architectural work.
'Of ocher and cobalt' is a placid lake violently burst into by a rock thrown, a walk on a soft carpet which mutates into pins and then into nails, or the fragrance of a bright red flower which first emanates a delicate scent of honey, then to sting unexpectedly the sense of smell of the reader with a pungent and penetrating aroma.
'Of ocher and cobalt' is a tireless flux of energy, it is a coming and going, a walking up steps with not enough rungs to descend them.
From an undecipherable place, we hear the melancholy rhythms of Bossa Nova and the sounds which will escape the pages take the reader by the hand to dance a batucada.
It is a roaming book, Dario's incessant peregrination while his beloved wife Maria wanders uninterruptedly along arduous paths of the soul that no one is able to scrutinize.
A Leopardian touch inebriates of immensity the subjugated eyes by words which do not lock but are locked into infinite spaces, like the large Amazon forests or the stylized and icy Brazilia. From the magnificent tapestry of adjectives and syntactic games emerge Dario, Maria, Bruno, Lele and Miguel, like a painting whose perspective sharpens always more violently until it spills out of the frame like a bas relief: their feelings, emotions and moods, first feeble and suffused like the amber and gentle light of a little Shakespearean study, invade the narration without any more care for anyone, skinless, disembodied in their most brutal authenticity in the dusk of the story, disallowing any saudade, any melancholia, any sadness and defeat.
As Sartre would say, the gardenia is a flower which embellishes Maria's garden, or maybe it is the flower decorating Maria's hair, or better still, it is a word which becomes a scarlet stain which changes into a flower or in reality it is nothing but a voluminous gardenia which assumes the form of a word to adorn with flora the whole story.
Characters who delicately stride and move across the pages to reveal their Hellenic tragicity only at the end. The word which, shape shifting and polymorphous, flowers in architecture and music and dance and painting and sculpture as impenetrable as it is vigorous, but also in floral ornaments; a plot which, positioned at first on the background of the stage, suddenly leaps to the foreground with a furrowing brow.
Prose takes poetry in its arms in an indistinguishable embrace. Immaculate pages that invade the space to lend it the meaning of a death that cannot be pushed back anymore, of a resigned fatality, of a destiny one cannot oppose anymore, of solitude heavy with a love as dense as clotted blood, of an irrevocable desire to return to an ethereal form.
Is it the old man asleep who dreams of having become a yellow butterfly, asks Branduardi 'the finder' to himself, or is it the yellow butterfly which dreams of being an old man asleep at the roots of a tree?
To immerse oneself in a sea of literature to drown in it: how sweet this abandonment in signs tainted in ink 'of a sky imprisoned in wire'!
'The everyday is the foundation on which we walk and the people we love are those who save us and lead us to destruction. We are always accompanied by a loneliness we ignore, by a love we do not fully know.'
Fabrizio Giulimondi